Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 gennaio 2020, n. 1109
Operaia, Presunti demansionamenti, Maltrattamenti e minacce
– Ripercussioni sulla salute, Sintomatologia ansiosa, Stati morbosi, Nesso
eziologico tra la condotta del datore e il pregiudizio all’integrità
psico-fisica del lavoratore, Onere della prova a carico del lavoratore
Rileva che
la sig.ra S.A., premesso di aver lavorato come
operaia alle dipendenze della C.A. s.n.c. dal primo marzo 1999 al 31 luglio
2009; che da febbraio dell’anno 2006 aveva subito maltrattamenti e umiliazioni
nonché demansionamenti siccome adibita a lavori più umili, da parte delle
figlie di A.C., M. e N., dal momento in cui le stesse avevano iniziato a
lavorare nella ditta del padre; che era stata minacciata e dileggiata quasi
tutti i giorni davanti ai colleghi con espressioni ingiuriose; che aveva
provveduto a registrare gli episodi verificatisi in data 25 ottobre e 19
novembre 2007 nonché 11 agosto 2008, i cui dialoghi erano stati trascritti e
quindi prodotti in giudizio; che C.A. non aveva mai assunto determinazioni, di
modo che per essa A. non era stato più possibile ottenere il ripristino di un
accettabile ambiente di lavoro; che le era stata diagnosticata sintomatologia
ansiosa, con agitazione e pianto profuso, per cui erano state poi anche
riscontrati ulteriori stati morbosi (deflessione del tono timico, intensa
anergia, abulia, anolania con stato di allerta ansiosa persistente e disturbi
del ciclo sono-veglia nonché dell’alimentazione, disturbo dell’adattamento con
ansia dell’umore depresso con carattere di cronicità); che aveva presentato
apposita diffida in data 15 dicembre 2007, provvedendo altresì a sporgere
denuncia-querela in data sei novembre 2008, denunciando altresì i fatti
all’Inail, che aveva poi eseguito accertamenti sul posto; tanto premesso, l’A.
aveva adito il giudice del lavoro di FOGGIA, convenendo in giudizio la C.A.
& C. s.n.c. per l’accertamento dei fatti e la condanna della società al
risarcimento di tutti i danni non patrimoniali ravvisabili nella specie,
instando altresì in via istruttoria per l’ammissione di apposita c.t.u., pure
al fine di confermare le registrazioni sonore prodotte ed acquisire informative
varie; il giudice adito rigettava la domanda come da sentenza del 17 maggio
2002, quindi impugnata con ricorso depositato il 9 novembre 2012, poi respinto
dalla Corte d’Appello di Bari con la pronuncia n. 645/2 marzo – sei maggio
2015, avverso la quale di conseguenza la sig.ra A.S. ha proposto ricorso per
cassazione come da atto del due / tre novembre 2015, affidato a cinque motivi,
cui ha resistito la C.A. e C. s.n.c., in persona del I.r.p.t. sig. A.C.,
mediante controricorso del 10/11 dicembre 2015; il Pubblico Ministero in sede
ha concluso come da requisitoria scritta del 27 febbraio / sei marzo 2019 per
il rigetto del ricorso; la ricorrente ha depositato memoria illustrativa;
Considerato che
con il primo motivo la ricorrente ha lamentato
difetto di pronuncia – omessa motivazione – mancata applicazione dell’art. 112 c.p.c. – art.
360 n. 4 c.p.c., in proposito osservando che la Corte d’Appello aveva
rigettato l’impugnazione soffermandosi sul punto in cui si stigmatizzava il
riferimento al corso semestrale necessario per integrare la fattispecie di
mobbing. Al riguardo la sentenza impugnata aveva ritenuto di non dover
esaminare la questione, assumendo che l’affermazione contenuta nella gravata
pronuncia costituiva una mera premessa di principio e non aveva alcuna causale
con la decisione, sicché le censure in proposito risultavano manifestamente
infondate. Secondo la ricorrente, la decisione de qua non coglieva totalmente
la portata della questione proposta, esaminata limitatamente al tema del
periodo necessario al mobbing, senza alcun accenno al pure denunciato difetto
di pronuncia e alla conseguente violazione dell’articolo
24 della Costituzione. Il giudice
investito della causa era obbligato a pronunciarsi ai sensi dell’articolo 112 c.p.c. sulla base di tutta la domanda
rivolta. Il diritto alla domanda ricomprendeva il diritto alla pronuncia sul
merito nei limiti delineati dalla parte che la proponeva. Nel caso di specie la
Corte d’Appello non si era pronunciata sulla domanda e su tutte le richieste
istruttorie formulate, né aveva esaminato gli atti e i documenti di parte
attrice e di parte resistente prodotti nel corso del giudizio. L’atto di
appello aveva criticato a fondo la sentenza gravata, composta di poche righe
dattiloscritte e posto principalmente il tema del difetto di pronuncia della
vicenda, gestita dal primo giudicante con molta superficialità. Contrariamente
a quanto ritenuto dalla Corte distrettuale, vi era la prova di tutti gli elementi
costituenti il denunciato mobbing con relativa pretesa risarcitoria.
La motivazione, su domanda e richieste istruttorie
disattese, era stata totalmente omessa. I motivi di doglianza erano stati
nettissimi; con il secondo motivo è stata denunciata la mancata applicazione
dell’art. 115 c.p.c. – omessa motivazione – art. 360 n. 4 c.p.c., per mancata ammissione
dell’istruttoria e cattiva gestione dei fatti acquisiti. Nel caso di specie,
diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale, la prova dei fatti
denotanti il mobbing era stata virtualmente raggiunta. Dall’esame della memoria
difensiva di primo grado, depositata da parte resistente, si ricavava senza
ombra di dubbio che nell’azienda della ditta C. si erano verificati numerosi
episodi di attriti e di conflitto tra la deducente e le signore M. e N.C.,
figlie di A.C., fondatore della convenuta. La pluralità degli episodi era stata
confermata dalla stessa memoria di parte resistente, laddove si affermava
l’atteggiamento di ostilità dimostrato da essa ricorrente, per cui i rapporti
degenerarono completamente nell’estate del 2006. Dunque, secondo quanto
affermato dalla stessa convenuta vi erano stati reiterati e continui episodi
conflittuali.
Tutti i fatti erano stati ampiamente spiegati nelle
pagine 18, 19 e 20 della memoria difensiva della medesima resistente. La
conferma dei fatti era dunque eclatante e si riferiva al periodo da febbraio
2006, come detto ex adverso, «fino al 2009, come si dice nel ricorso». Anche il
fatto che di tutti gli episodi di mobbing non fosse mai venuto a conoscenza il
titolare della ditta datrice di lavoro risultava totalmente smentito dalle
affermazioni contenute nella anzidetta memoria. Egli era stato più volte
sollecitato ad intervenire dalla ricorrente, dal sindacato e dagli ispettori
dell’Inail, che avevano svolto le indagini a seguito della denuncia della
ricorrente. La relazione conclusiva dell’Istituto (tuttavia nemmeno minimamente
riportata ex art. 366 n. 6 c.p.c.) ne aveva
dato espressamente conto. Le istanze volte a sollecitare l’ammissione di tutti
gli altri mezzi istruttori andavano a completare il complesso delle prove già
sufficiente. Né la ricorrente aveva fondato i suoi progetti di prova sui tre
episodi registrati, trascritti e dedotti a dimostrazione per conferma, come
erroneamente ritenuto dalla Corte distrettuale. Il quadro dei fatti era molto
più ampio ed esaustivo, ma nulla la sentenza impugnata aveva detto sulle
conferme di controparte. La deducente le aveva puntualmente indicate,
sollecitandone il doveroso esame mai avvenuto, donde anche per questo motivo la
nullità dell’impugnata pronuncia (invero, non risultano neppure riprodotte le
registrazioni che si assumono essere state trascritte e depositate nel corso
del giudizio di merito); con il terzo motivo la ricorrente ha ulteriormente
denunciato la mancata applicazione dell’art. 115
c.p.c. – art. 360 n. 4 dello stesso codice
di rito, sostenendo che l’articolo 115 imponeva
al giudice il dovere di decidere in base alle prove dedotte dalle parti ed
acquisite al giudizio con i mezzi istruttori previsti dal codice di rito. Nella
specie la denunciante aveva puntualmente indicato nei propri atti tutti i mezzi
istruttori, l’interrogatorio formale, la prova per testi e le consulenze
tecniche, che la Corte territoriale non aveva inteso accogliere, negando
l’apertura dell’istruttoria mai svolta.
Contrariamente a quanto opinato dai giudici di
appello, secondo la ricorrente la prova articolata era del tutto idonea a
dimostrare il coinvolgimento del datore di lavoro in tutti i fatti indicati a
sostegno della domanda. Gli episodi di alterchi, sopraffazioni e reciproci
conflitti erano stati numerosi e riportati nelle capitolazioni di prova con
dovizia di particolari, non occorrendo la quotidianità degli atti lesivi,
essendo sufficiente anche una loro cadenza settimanale. La conoscenza dei fatti
della parte datoriale era stata confermata dalla documentazione in atti ed era
stata riportata nel verbale d’ispezione INAIL, nonché confermata
abbondantemente in più punti dalle difese avversarie. Da tanto emergeva che il
signor A.C. era stato personalmente presente in alcuni degli episodi più
violenti (quello del 25 ottobre 2007), aveva partecipato agli incontri
sindacali, era stato interrogato in sede di ispezione INAIL e si era informato
con i colleghi della stessa A., perché non si spiegava il comportamento della
stessa. Tanto smentiva tutto quanto affermato dalla sentenza impugnata, laddove
si era formata una errata convinzione nel momento in cui aveva ritenuto che le
registrazioni prodotte e descritte sarebbero state del tutto irrilevanti ai
fini della configurazione del mobbing. In questo passaggio la Corte d’Appello
aveva concentrato tutta la sua illegittima decisione, avendo ritenuto
l’inammissibilità delle prove orali e dell’intera istruttoria per
l’accertamento del mobbing, pervenendo a tale sua involuta affermazione
mediante pronuncia su situazioni medico-legali di carattere psichico, però
richiedenti accertamenti di natura scientifica, bisognevoli di competenze
iper-specialistiche, certamente non in possesso della Corte barese. La decisione
di non procedere all’istruttoria, dunque, era ingiustificata e soprattutto
violava la possibilità di difendersi, privando così la ricorrente dei diritti
stabiliti dall’invocato articolo 115 c.p.c.,
donde anche sotto questo profilo la nullità della sentenza impugnata; con il
quarto motivo l’impugnata sentenza è stata censurata per violazione e falsa
applicazione dell’art. 2087 c.c. in relazione
all’art. 360 n. 3 c.p.c., nonché per
motivazione apparente e incomprensibile ex art. 360
co. 1 n. 4 c.p.c., contestandosi, in particolare, l’argomentazione secondo
cui non vi era prova del comportamento doloso posto in essere dai compagni di
lavoro, né di quello colposo riconducibile al datore di lavoro, in violazione
del cit. art. 2087. Erroneamente la Corte di
merito aveva considerato del tutto irrilevanti le registrazioni delle
conversazioni intervenute, siccome ritenute idonee a dimostrare esclusivamente
l’esistenza di una situazione di conflittualità e di una reciproca aggressività
sul posto di lavoro. La decisione, però, smentiva il precedente assunto,
contenutonella medesima sentenza, circa la carenza di prova dei fatti denotanti
il mobbing, e con ulteriore incoerenza la stessa Corte distrettuale aveva
ritenuto non utilizzabili le registrazioni, in base agli articoli 2712 c.c. e 214
e ss. c.p.c., avendo rigettato il relativo motivo di appello e poi dando
per scontata la situazione di conflittualità e di aggressività delle sorelle C.
con la deducente. Inoltre, secondo univoca giurisprudenza, la ricorrente ha
sostenuto che in tema di mobbing il lavoratore non è tenuto a dimostrare la
colpa del datore di lavoro, dovendo soltanto allegare e provare l’esistenza del
fatto materiale ed anche le regole di condotta asseritamente violate. Sta di
fatto che la sentenza non aveva applicato correttamente l’articolo 2087 c.c.. In particolare, la Corte
territoriale aveva omesso di considerare la richiesta di c.t.u. medico-legale,
finalizzata ad accertare i danni alla salute, la loro entità e la dipendenza
degli stessi dai fatti di mobbing allegati. Da questo mezzo istruttorio,
insieme agli altri richiesti, si poteva agevolmente ricavare il nesso causale,
trattandosi peraltro di accertamenti di natura scientifica, laddove per altro
verso era il datore di lavoro onerato della prova di aver adottato tutte le
cautele necessarie ad impedire il versificarsi del danno e che la malattia non
era ricollegabile all’inosservanza di tali obblighi come da citata
giurisprudenza di legittimità. Nel caso di specie, vi era stata condotta
omissiva del datore di lavoro, che non aveva saputo, voluto o potuto porre
rimedio a quanto commesso dalle sorelle C., e la stessa Corte d’Appello aveva
riconosciuto la situazione di conflittualità all’interno dell’azienda, però
senza trarne le dovute conseguenze. Inoltre, il nesso causale era desumibile
dalla certificazione medica in atti attestante lo stato di malessere
psicologico post traumatico da stress, uno degli eventi morbosi tipici
denotanti il mobbing;
con il quinto motivo, infine, la ricorrente si è
doluta della violazione e falsa applicazione dell’art.
2712 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.
– mancata applicazione degli artt. 214 e ss c.p.c.
in relazione all’art. 360 n. 4 stesso codice –
omessa e incomprensibile motivazione ai sensi dell’art.
360 n. 4 c.p.c.. Infatti, la Corte d’Appello non aveva esaminato il punto
inerente alla rituale acquisizione al giudizio delle registrazioni
fonografiche, prodotte su supporto elettronico e trascritte fedelmente in atti
dalla deducente. Mediante oscura ed incomprensibile argomentazione, la Corte
distrettuale, dopo aver respinto il motivo di doglianza, aveva affermato che
anche ove fosse stata raggiunta la prova della veridicità del contenuto di tali
tre episodi, tanto non sarebbe bastato a dimostrare la sistematicità delle
presunte condotte vessatorie. La ricorrente sosteneva, tra l’altro, di aver
chiesto la prova testimoniale e la c.t.u. per la conferma della genuinità delle
registrazioni, proprio al fine di ovviare alle prevedibili contestazioni
avversarie, però del tutto irrituali, sicché anche per queste ragioni
l’impugnata sentenza andava cassata e dichiarata nulla; tanto premesso, il
ricorso va disatteso in forza delle seguenti ragioni, dovendosi in primo luogo
rilevare come l’impugnazione de qua risulti non autosufficiente, in violazione
di quanto per contro richiesto dall’art. 366 co. 1
nn. 3 e 6 c.p.c., oltre che poco, se non per nulla, pertinente alle
rationes decidendi coerentemente enunciate nella sentenza di secondo grado, la
quale, dopo aver ritenuto ammissibile l’interposto gravame, esaminava adeguatamente
i motivi addotti a sostegno dello stesso (perciò nei limiti di quanto devoluto,
non essendo, come è ormai da tempo noto, l’appello un novum judicium, bensì
integrando una revisio prioris instantiae – v., tra le altre, Cass. sez. un.
civ. n. 3033 – 08/02/2013 e n. 28498 del 23/12/2005),
evidenziando in primo luogo un obiter díctum nella gravata pronuncia laddove si
era accennato al periodo minimo non inferiore al semestre, trattandosi di
affermazione che non aveva alcuna relazione causale con la decisione, mentre il
giudice adito aveva rigettato la domanda sulla scorta di allegazioni probatorie
inidonee a supportare la pretesa risarcitoria per totale assenza di
sistematicità e durata delle asserite condotte vessatorie, con riferimento, in
particolare, agli unici tre episodi su cui sostanzialmente la lavoratrice aveva
fondato la denuncia di mobbing (per gli accadimenti del 25 ottobre e 19
novembre 2007 nonché 11 agosto 2008), dunque irrilevanti anche ove mai rispondenti
al vero. Quanto alle altre doglianze espresse dall’appellante, la Corte di
merito osservava che il primo giudicante dopo aver correttamente valorizzato,
tra gli elementi costitutivi del mobbing, quello della sistematicità delle
condotte vessatorie, condivisibilmente aveva ritenuto detto requisito non
desumibile però nella specie dai soli tre episodi enunciati dall’attrice,
laddove peraltro la prova testimoniale non era stata capitolata e la cui
articolazione era diretta semplicemente a confermare la trascrizione del
contenuto di alcune registrazioni, ma non l’accadimento delle circostanze (sub
16, 17 e 18) ivi rappresentate. Inoltre, a completamento di quanto ritenuto sul
punto dal Tribunale, la Corte territoriale rilevava che le circostanze sub 1, 2,
3, 4 e 7 di cui alla richiesta istruttoria non risultavano contestate, mentre
quelle sub 5 e 6 contenevano valutazioni inibite ai testi, laddove poi le
rimanenti apparivano irrilevanti, poiché in nessuna di esse risultava dedotto
che l’Adone avesse messo il datore di lavoro a conoscenza di tale situazione,
avendo l’attrice unicamente dedotto (sub punto 13) che <<il responsabile
dell’azienda non si era mai seriamente impegnato a far desistere le figlie da
simili ingiustificati comportamenti, che si ripetevano non notevole frequenza»,
cosa di per sé non sufficiente a dimostrare che il datore di lavoro fosse a
conoscenza della situazione. Infatti, per poter configurare il c.d. mobbing
orizzontale, come quello dedotto in giudizio, al comportamento doloso del collega
di lavoro doveva accompagnarsi quello colposo del datore di lavoro, che in
violazione dell’art. 2087 c.c. non poneva in
essere tutte le cautele necessarie ad evitare la nocività del luogo di lavoro
in danno alla persona del proprio dipendente. La Corte d’Appello, osservava
inoltre che l’attrice neppure risultava aver documentalmente mai notiziato
della situazione (asseritamente) mobbizzante il datore di lavoro, né tale
coinvolgimento di quest’ultimo risultava oggetto di prova testimoniale. Per
tali ragioni del tutto irrilevanti apparivano le registrazioni intervenute tra
l’appellante e le figlie del C., idonee a dimostrare esclusivamente una
situazione di conflittualità tra le stesse ed una reciproca aggressività sul posto
di lavoro;
a fronte delle succitate lineari argomentazioni, per
cui ad ogni modo non si ravvisa alcuna violazione del c.d. minimo
costituzionale nella motivazione in relazione a quanto previsto dagli artt. 111
Cost., 132
n. 4 c.p.c. e 118
disp. att.dello stesso
codice di rito, con riferimento al vizio di cui all’art.
360 n. 4 c.p.c. (cfr. Cass. civ. sez. 6 – 3, ordinanza n. 22598 del
25/09/2018, in senso analogo v. pure Cass. n. 23940 del 2017, nonché tra le
altre Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014.
Nella specie, peraltro, non è stato nemmeno ritualmente denunciato alcun
eventuale vizio sussumibile nella previsione del vigente testo dell’art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c., del resto nemmeno
denunciabile per effetto della doppia conforme tra pronuncia di primo e secondo
grado, applicandosi nella specie, con riferimento al ricorso d’appello in data
9 novembre 2012, l’art. 348-ter, ultimo comma,
del medesimo codice, sicché deve comunque escludersi qualsiasi omesso esame di
fatti storici e decisivi per il giudizio), le anzidette doglianze di parte
ricorrente appaiono generiche ed inconferenti, non risultando adeguatamente
riprodotto il testo del ricorso introduttivo del giudizio, delle difese ivi
svolte da parte resistente (se non per alcune isolate e frazionate parole,
riportate in misura comunque assolutamente carente – cfr. in part. pagg. 10 e
11 del ricorso per cassazione), della sentenza di primo grado (cui per
relationem abbondantemente ha fatto rinvio la motivazione di quella qui
impugnata), nonché dello stesso atto di appello, per cui nemmeno risultano
riportate le circostanze di fatto di cui la ricorrente lamenta la mancata
ammissione di prova testimoniale, né tanto meno sono stati enunciati i dialoghi
delle conversazioni registrate, per cui invece la ricorrente si è limitata ad
apodittiche, generiche e sommarie affermazioni, le quali, del resto, nemmeno
trovano puntuale riscontro nell’impugnata sentenza, sicché a maggior ragione la
ricorrente avrebbe dovuto rigorosamente osservare gli oneri di allegazione
imposti, a pena d’inammissibilità, dall’art. 366
c.p.c. (il ricorso per cassazione de quo non contiene nemmeno un indice
della produzione di parte, laddove a pag. 24 si limita ad indicare, con pari
assoluta genericità, l’allegazione del fascicolo di merito, unitamente alla
copia della sentenza impugnata); resta, quindi, inosservato il principio di
autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., per cui occorre che l’atto
contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in
grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto,
senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi
compresa la sentenza stessa (Cass. lav. n. 31082
del 28/12/2017. V. parimenti Cass. Sez. 6 – 3, n. 1926 del 3/2/2015: per
soddisfare il requisito imposto dall’articolo 366,
primo comma, n. 3), cod. proc. civ. il ricorso per cassazione deve
contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o
particolareggiata, dei fatti di causa, … per cui si richiede alla Corte di
Cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica
diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito. Il
principio di autosufficienza del ricorso impone che esso contenga tutti gli
elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la
completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il
significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni
della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti
del processo, ivi compresa la sentenza stessa. Conformi Cass. II civ. n. 7825 del
04/04/2006, I civ. n. 12688 del 30/05/2007 e n. 19018 del 31/07/2017.
Parimenti, secondo Cass. V civ. n. 29093 del
13/11/2018, i requisiti di contenutoforma previsti, a pena di inammissibilità,
dall’art. 366, comma 1, c.p.c., nn. 3, 4 e 6,
devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere
ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo
il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza
impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio
denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea
valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo
esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e
trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del
principio di autosufficienza.
Inoltre, secondo Cass. sez. un. civ. n. 7074 del
20/03/2017, ove la sentenza di appello sia motivata “per relationem”
alla pronuncia di primo grado, al fine ritenere assolto l’onere ex art. 366, n. 6, c.p.c., occorre che la censura
identifichi il tenore della motivazione del primo giudice specificamente
condivisa dal giudice di appello, nonché le critiche ad essa mosse con l’atto
di gravame, che è necessario individuare per evidenziare che, con la resa
motivazione, il giudice di secondo grado ha, in realtà, eluso i suoi doveri
motivazionali. Cfr. altresì Cass. Sez. 6 – 3, n. 13312 del 28/05/2018: per soddisfare
il requisito imposto dall’articolo 366, primo
comma, n. 3), c.p.c. il ricorso per cassazione deve contenere la chiara
esposizione dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le posizioni
processuali delle parti con l’indicazione degli atti con cui sono stati
formulati “causa petendi” e “petitum”, nonché degli
argomenti dei giudici dei singoli gradi, non potendo tutto questo ricavarsi da
una faticosa o complessa opera di distillazione del successivo coacervo espositivo
dei singoli motivi, perché tanto equivarrebbe a devolvere alla S.C. un’attività
di estrapolazione della materia del contendere, che è riservata invece al
ricorrente. Il requisito non è adempiuto, pertanto, laddove i motivi di censura
si articolino in un’inestricabile commistione di elementi di fatto, riscontri
di risultanze istruttorie, riproduzione di atti e documenti incorporati nel
ricorso, argomentazioni delle parti e frammenti di motivazione della sentenza
di primo grado.
In tale contesto, per altro verso, occorre pure
richiamare l’onere di chiarezza, unitamente a quello di sintesi espositiva, da
ultimo confermato con ordinanza n. 8009 del 21/03/2019 da Cass. V civ.: il
mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti
processuali che, fissato dall’art. 3, comma 2, del
c.p.a., esprime tuttavia un principio generale del diritto processuale,
destinato ad operare anche nel processo civile, espone il ricorrente al rischio
di una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, non già per
l’irragionevole estensione del ricorso -che non è normativamente sanzionata- ma
in quanto rischia di pregiudicare l’intellegibilità delle questioni, rendendo
oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla
sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn.
3 e 4 dell’art. 366 c.p.c., assistite – queste
sì – da una sanzione testuale di inammissibilità.
Conforme Cass. II civ., sentenza n. 21297 del
20/10/2016 ed in senso analogo v. anche Cass. lav.
n. 17698 del 6/8/2014); pertanto, avuto riguardo a quanto puntualmente e
motivatamente argomentato -nei sensi sopra indicati, anche per relationem con
riferimento alla sentenza di primo grado, perciò confermata- con la pronuncia
de qua dalla Corte di merito, appaiono inconferenti le anzidette doglianze,
peraltro come già detto largamente incomplete ed insufficienti, che non
soddisfano i requisiti di pertinenza, precisione e di autosufficienza, però
occorrenti ai sensi del cit. art. 366 alla luce
della succitata giurisprudenza, anche per i vari errores in procedendo,
irritualmente, oltre infondatamente, denunciati da parte ricorrente ex art. 360 n. 4 c.p.c. (v. tra le altre, Cass. lav.
n. 11738 – 08/06/2016, secondo cui l’esercizio del potere di diretto esame
degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove
sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque
l’ammissibilità del motivo, sicché, laddove sia stata denunciata la falsa
applicazione della regola del “tantum devolutum quantum appelatum”, è
necessario, ai fini del rispetto del principio di specificità e autosufficienza
del ricorso per cassazione, che nel ricorso stesso siano riportati, nei loro
esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, i
passi del ricorso introduttivo con i quali la questione controversa è stata
dedotta in giudizio e quelli dell’atto d’appello con cui le censure ritenute
inammissibili per la loro novità sono state formulate. Parimenti, secondo Cass. V civ. n. 19410 del 30/09/2015, l’esercizio
del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al
giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”,
presuppone che la parte, nel rispetto del principio di autosufficienza,
riporti, nel ricorso stesso, gli elementi ed i riferimenti atti ad individuare,
nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio processuale, onde
consentire alla Corte di effettuare, senza compiere generali verifiche degli
atti, il controllo del corretto svolgersi dell’iter processuale. Cfr. ancora similmente
Cass. lav. n. 23420/11 in data 20/09 – 10/11/2011: «…Secondo la
giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui l’interpretazione delle
domande, eccezioni e deduzioni delle parti dà luogo ad un giudizio di fatto,
riservato al giudice di merito, non trova applicazione quando si assume che
tale interpretazione abbia determinato un vizio riconducibile alla violazione
del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) od a quello de tantum devolutum
quantum appellatum (art. 437 c.p.c.),
trattandosi in tal caso della denuncia di un error in procedendo, che
attribuisce alla Corte di cassazione il potere-dovere di procedere direttamente
all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali e, in particolare,
delle istanze e deduzioni delle parti (cfr., Cass.,
nn. 11755/2004; 17109/2009). Tuttavia, anche in ipotesi di denuncia di un
error in procedendo, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del
giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità, presuppone comunque
l’ammissibilità del motivo di censura, cosicché il ricorrente è tenuto, in
ossequio al principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, che deve
consentire al giudice di legittimità di effettuare, senza compiere generali
verifiche degli atti, il controllo demandatogli del corretto svolgersi
dell’iter processuale, non solo ad enunciare le norme processuali violate, ma
anche a specificare le ragioni della violazione, in coerenza a quanto
prescritto dal dettato normativo, secondo l’interpretazione da lui prospettata
(cfr., ex plurimis, Cass., nn. 5148/2003; 20405/2006; 21621/2007).
Coerentemente, con riferimento all’ipotesi in cui sia stata denunciata l’omessa
pronuncia da parte del giudice di secondo grado sulle doglianze mosse in
appello per relationem alle ragioni esposte davanti al tribunale, è stato
affermato che non viene rispettato il principio di autosufficienza allorché nel
ricorso per cassazione non siano esposte quelle specifiche circostanze di
merito che avrebbero portato all’accoglimento del gravame, non potendo
ottemperarsi a tale principio mediante il richiamo ad altri atti o scritti
difensivi presentati nei precedenti gradi di giudizio (cfr., Cass., n.
26693/2006); più in generale, sempre con riferimento ai casi di denunzia del
vizio di omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112
c.p.c., è stato reiteratamente affermata la necessità, da un lato, che al
giudice del merito siano state rivolte una domanda od un’eccezione
autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le
quali quella pronunzia si sia resa necessaria ed ineludibile, e, dall’altro,
che tali istanze siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non
genericamente ovvero per riassunto de loro contenuto, nel ricorso per
cassazione (cfr., ex plurimis, Cass., nn. 7194/2000; 6361/2007; 21226/2010).
Analogamente, laddove, come nel caso di specie, l’error in procedendo
denunciato inerisca alla falsa applicazione del principio tantum devolutum
quantum appellatum, l’autosufficienza del ricorso per cassazione impone che,
nel ricorso stesso, siano esattamente riportati sia i passi del ricorso
introduttivo con i quali la questione controversa è stata dedotta in giudizio,
sia quelli del ricorso d’appello con cui le censure ritenute inammissibili per
la loro novità sono state formulate. Tali oneri non sono stati ottemperati nel
caso di specie dal ricorrente, che si è limitato a rappresentare l’oggetto
delle proprie originarie domande e delle proprie successive doglianze, senza
trascriverle negli esatti termini del loro svolgimento, ma riportandosi alla
sintesi che delle medesime era stata fatta nella sentenza impugnata>>);
escluso, poi, per quanto già detto, ogni e qualsiasi
difetto o vizio di motivazione nel caso di specie, le censure di parte
ricorrente si appalesano inconferenti ed infondate per quanto lamentato circa
la mancata amtissione della prova testimoniale o di c.t.u. (consulenza che
tecnicamente, come è noto, non è un vero e proprio mezzo di prova), avuto
riguardo alle argomentazioni in proposito svolte dagli aditi giudici di merito,
laddove inoltre è del tutto fuori luogo l’asserita violazione dell’art. 112 c.p.c. (v. Cass. sez. un. civ. n. 15982
del 18/12/2001), poiché il vizio di omessa pronuncia, che determina la nullità
della sentenza per violazione dell’art. 112, ed
è rilevante ai fini di cui all’art. 360, n. 4
stesso codice, si configura esclusivamente con riferimento a domande, eccezioni
o assunti che richiedano una statuizione di accoglimento o di rigetto, e non
anche in relazione ad istanze istruttorie per le quali l’omissione è
denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (in senso
conforme, tra le varie, Cass. III civ. n. 7074 del 28/03/2006, n. 3357 in data
11/02/2009, Sez. Lav. n. 6715 del 18/03/2013, Sez. 6 – 1 n. 13716 del 5/7/2016
e n. 24830 del 20/10/2017);
le carenze probatorie derivanti nel caso di specie
dalle precedenti argomentazioni, con le quali vengono disattese, alla fine,
istanze di carattere essenzialmente istruttorio, concernenti le questioni
esaminate con i primi tre motivi, appaiono ad ogni modo assorbenti rispetto
alle doglianze espresse con la quarta censura, relativamente alla
configurazione del mobbing e della portata dell’art.
2087 c.c. (rinviandosi alle precedenti argomentazioni quanto poi alla
pretesa motivazione apparente ed incomprensibile, con riferimento all’art. 360 n. 4 c.p.c.) che siccome formulata ai
sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. può inerire
esclusivamente alle pretese violazioni di legge, senza perciò trasmodare in
ricostruzioni dei fatti diverse rispetto a quanto sul punto ritenuto dai
giudici di merito;
di conseguenza, rilevato quanto accertato in sede di
merito, con l’esclusione in particolare, del necessario elemento soggettivo,
tale da poter configurare nella specie integrata la condotta mobbizzante
ipotizzata da parte attrice, va ricordato il consolidato orientamento
giurisprudenziale, secondo cui sul datore di lavoro gravano sia il generale obbligo
di “neminem laedere” espresso dall’art.
2043 cod. civ. (la cui violazione è fonte di responsabilità
extracontrattuale), sia il più specifico obbligo di protezione dell’integrità
psico-fisica del lavoratore sancito dall’art. 2087
cod. civ. ad integrazione “ex lege” delle obbligazioni nascenti
dal contratto di lavoro (la cui violazione determina l’insorgenza di una
responsabilità contrattuale).
Conseguentemente, il danno biologico – inteso come
danno all’integrità psico-fisica della persona in sé considerata, a prescindere
da ogni possibile rilevanza o conseguenza patrimoniale della lesione – può in
astratto conseguire sia all’una che all’altra responsabilità. Qualora la
responsabilità fatta valere sia quella contrattuale, dalla natura dell’illecito
(consistente nel lamentato inadempimento dell’obbligo di adottare tutte le
misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore) non
deriva affatto che si versi in fattispecie di responsabilità oggettiva (fondata
sul mero riscontro del danno biologico quale evento legato con nesso di
causalità all’espletamento della prestazione lavorativa), ma occorre pur sempre
l’elemento della colpa, ossia la violazione di una disposizione di legge o di
un contratto o di una regola di esperienza. La necessità della colpa – che
accomuna la responsabilità contrattuale a quella aquiliana – va poi coordinata
con il particolare regime probatorio della responsabilità contrattuale, che è
quello previsto dall’art. 1218 cod. civ.
(diverso da quello di cui all’art. 2043 cod. civ.),
cosicché grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver ottemperato
all’obbligo di protezione, mentre il lavoratore deve provare sia la lesione
all’integrità psico-fisica, sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e
l’espletamento della prestazione lavorativa (Cass. lav. n. 4184 del 24/02/2006,
conformi id. n. 12763 del 21/12/1998, n. 5491
del 02/05/2000 e n. 23162 del 7/11/2007. Cfr.
parimenti Cass. lav. n. 8911 del 29/03/2019,
secondo cui la responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell’obbligo
di prevenzione di cui all’art. 2087 c.c. non è
una responsabilità oggettiva, ma colposa, dovendosi valutare il difetto di
diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire danni per i
lavoratori, in relazione all’attività lavorativa svolta, non potendosi esigere
la predisposizione di misure idonee a fronteggiare ogni causa di infortunio,
anche quelle imprevedibili. V. altresì Cass. lav.
n. 26495 del 19/10/2018: l’art. 2087 c.c.
non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la
responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata
alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o
suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue che
incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività
lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre
all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il
nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova
sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le
cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno. Conformi Cass. lav. n. 24742 in data 8/10/2018, n. 18626 del 5/8/2013 e n. 2038 del 29/01/2013);
per giunta, risultando, dalla sentenza impugnata, la
domanda di risarcimento danni, a suo tempo avanzata dall’attrice, fondata
espressamente sull’asserito mobbing, dedotto nei confronti della convenuta
parte datoriale, nemmeno risultava sufficiente al riguardo una condotta
meramente colposa, occorrendo la dimostrazione di un apposito e più inteso
elemento psichico (cfr. Cass. n. 3785 del
17/02/2009: per “mobbing” si intende comunemente una condotta del
datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo,
tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in
sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme
di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la
mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del
suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini
della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono,
pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere
persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano
stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il
dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della
personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o
del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del
lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento
persecutorio. Cfr. altresì Cass. lav. n. 26684 del
23/05 – 10/11/2017, laddove, richiamata in motivazione la necessità pure
dell’elemento psichico <<cioè l’intento persecutorio unificante di tutti
i comportamenti lesivi” ( Cass. 6.8.2014 n.
17698 e fra le più recenti Cass. 24.11.2016 n.
24029)», ha osservato come, quindi, l’elemento qualificante debba
ricercarsi già non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti, bensì
nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume
di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito
accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto.
A tal fine la legittimità dei provvedimenti può rilevare, ma solo
indirettamente perché, ove facciano difetto elementi probatori di segno
contrario, può essere sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo, che
deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata.
Parimenti, la conflittualità delle relazioni
personali esistenti all’interno dell’ufficio, che impone al datore di lavoro di
intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto
espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice
per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di
mortificare la personalità e la dignità del lavoratore. Cass. lav. n. 12437 del 21/05/2018: è
configurabile il “mobbing” lavorativo ove ricorra l’elemento
obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e
quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo); nel caso
di specie qui in esame, per di più, anche in base alla non autosufficiente
rappresentazione operata con il ricorso de quo, la condotta ascritta alla parte
convenuta appare prospettata in termini omissivi -con riferimento alle compagne
di lavoro della sig.ra A., alle quali sarebbero imputabili direttamente i
pretesi comportamenti vessatori- per cui l’impugnata sentenza ha ipotizzato il
c.d. mobbing orizzontale, addebitabile in astratto al datore di lavoro
(convenuto in giudizio) sul presupposto che lo stesso ne fosse a conoscenza,
presupposto tuttavia indimostrato per carenti allegazioni sul punto da parte
attrice, sulla quale persisteva l’onere probatorio nell’ambito dell’elemento
psichico, che pure la stessa parte era comunque tenuta a dimostrare (tanto più
con riferimento alla supposta condotta, dolosa, posta in essere dalle autrici
materiali della stessa, sicché la mera colpa ex artt.
2087 e 1218 c.c. intanto può rilevare nei
confronti di parte datoriale, con conseguente prova liberatoria a suo carico,
sempre che risulti dimostrata la conoscenza della stessa parte dell’attività
persecutoria, quindi necessariamente dolosa, posta in essere da altri
dipendenti nel contesto della ordinaria attività di lavoro. Peraltro, nel caso
di specie la ricorrente non ha, in ogni caso, ritualmente, denunciato alcun
vizio per violazione degli artt. 2697 e /o 2049 c.c., laddove d’altro canto la responsabilità
ex art. 2049, per i danni arrecati dal fatto
illecito dei domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono
adibiti, richiede che costoro abbiano perseguito, con il comportamento dannoso,
finalità coerenti con le mansioni affidate e non estranee all’interesse del
padrone o committente. Cfr. in tal sensi Cass. n. 12939 del 4/6/2007 e n. 22343
del 2006);
circa, infine il quinto ed ultimo motivo di ricorso,
si rimanda alle precedenti considerazioni circa l’insussistente violazione del
c.d. minimo costituzionale riguardo alla motivazione, indubbiamente chiara e
sufficiente nella specie, nonché per il difetto di specificità e di
autosufficienza in ordine alle rilevate carenze ex art.
366 c.p.c. del ricorso de quo, pure in ordine al contenuto delle
registrazioni fonografiche, di cui i giudici di merito per giunta hanno
motivatamente evidenziato l’irrilevanza, segnatamente poi con riferimento al
preteso mobbing dedotto in giudizio; pertanto, il ricorso va respinto con
conseguente condanna della parte rimasta soccombente al rimborso delle relative
spese;
atteso l’esito negativo dell’impugnazione,
sussistono i presupposti processuali di cui all’art. 13, co. 1 quater del d.P.R. n.
115/02.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al
pagamento delle spese, che liquida, a favore di parte controricorrente, nella
misura di complessivi euro 4000,00 (quattromila/00), per compensi ed in euro
200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a.
come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n.
115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis
dello stesso articolo 13.