Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 gennaio 2020, n. 1888

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Esigenze
economiche, Scelta del lavoratore avvenuta senza alcuna comparazione con gli
altri dipendenti, Illegittimità, Reintegrazione

Rilevato che

 

1. La Corte di appello di Catania, con sentenza n.
705/2017, riformando la pronuncia di primo grado, dichiarava illegittimo il
licenziamento intimato in data 18 luglio 2005 dalla società “F.A. &
figli” s.p.a. a F.L. e ordinava la reintegrazione del ricorrente nel posto
di lavoro ai sensi dell’art.
18 legge n. 300/70 (nel testo anteriore alla riforma apportata dalla legge n. 92 del 2012); condannava altresì la
società appellata al pagamento, a titolo risarcitorio, di una indennità
commisurata alle retribuzioni globali di fatto maturate dalla data del
licenziamento a quella della effettiva reintegrazione, oltre interessi legali e
rivalutazione monetaria.

2. Per quanto ancora qui rileva, la Corte di
appello, esaminando prioritariamente la legittimità del licenziamento alla
stregua dei criteri impiegati dalla società per l’individuazione del lavoratore
da licenziare, riteneva che il datore non avesse agito con buona fede e
correttezza ai sensi degli artt. 1175 e 1375 cod. civ., in quanto il licenziamento,
intimato per giustificato motivo oggettivo, recava una causale
(“…improcrastinabili esigenze economiche e di ragioni connesse
all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro”) a fronte della
quale la scelta del L., quale lavoratore da licenziare, era avvenuta senza
alcuna comparazione con gli altri dipendenti assegnati al medesimo punto vendita.

In particolare:

a) a fronte dell’assunto difensivo della società
relativo alla maggiore convenienza di mantenere in servizio i lavoratori
part-time, poteva obiettarsi che il datore ben avrebbe potuto proporre al L.,
lavoratore a tempo pieno, di manifestare il proprio consenso alla conversione
del rapporto;

b) l’ulteriore assunto difensivo di parte convenuta
secondo cui il L., a differenza degli altri dipendenti, aveva riportato tre
precedenti disciplinari, sì da renderlo “meno affidabile”, costituiva
un argomento basato su un criterio privo di oggettività;

c) nessun confronto era stato invece operato sulla
base di criteri oggettivi e verificabili, come la maggiore anzianità di
servizio, posseduta dal L. rispetto al restante personale e comunque “senz’altro
rispetto a B.D.”;

d) la tesi datoriale della non comparabilità della
posizione lavorativa ricoperta dal L. con quella del restante personale aveva
ricevuto smentita in giudizio.

2.1. La Corte, dichiarata l’illegittimità del
licenziamento, riconosceva “le conseguenze di cui all’art. 18 Stat. lav., a nulla
rilevando ogni deduzione datoriale in ordine alla attualità della compagine
societaria, peraltro riferita a fatti successivi alla data di intimazione del
licenziamento ed essendo stata la esistenza del requisito dimensionale
acclarata…” nella relazione di parte versata in atti. Riteneva assorbita
ogni ulteriore questione.

3. Per la cassazione di tale sentenza “F.A.
& figli” s.p.a. ha proposto ricorso affidato a otto motivi, cui ha
resistito con controricorso il L..

4. Il P.G. ha rassegnato le proprie conclusioni
chiedendo l’accoglimento del  sesto
motivo del ricorso.

5. Il resistente ha depositato memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ. in replica alle
conclusioni del P.G..

 

Considerato che

 

1. Il primo motivo denuncia violazione di legge in
relazione agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. (art.
360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.) per non avere la Corte di appello
ravvisato un’ipotesi di abuso del diritto nel fatto che il L. avesse agito
giudizialmente in prossimità della scadenza del termine quinquennale di prescrizione
del diritto all’annullamento del licenziamento, ingenerando così un affidamento
della controparte nell’abbandono della relativa pretesa.

2. Con il secondo motivo si denuncia violazione di
legge in relazione agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., art. 3 legge n. 604 del 1966 e
41 cost. (art. 360,
primo comma, n. 3 cod. proc. civ.) per avere la Corte di appello ritenuto
la fungibilità del L. con il dipendente B., introducendo nella ricostruzione in
fatto elementi diversi da quelli rappresentati nell’atto introduttivo del
giudizio.

3. Il terzo motivo denuncia la violazione delle
medesime norme per essersi la Corte di appello sostituita al datore di lavoro
nelle insindacabili scelte imprenditoriali di mantenere in servizio i
lavoratori part-time e di ricorrere altresì al criterio dei precedenti
disciplinari ai fini della valutazione delle esigenze tecnico-produttive e
organizzative.

4. Il quarto motivo denuncia violazione di legge in
relazione all’art. 75 del CCNI 28.12.1958, recepito erga omnes dal d.p.r. 2.1.1962 n. 481, nonché di norma del contratto
collettivo nazionale di lavoro e in particolare dell’art. 183 del CCNL
sottoscritto il 2 luglio 2004 per i dipendenti delle imprese del
terziario-commercio” (art. 360, primo comma,
n. 3 cod. proc. civ.) per avere la Corte di appello, in violazione di dette
disposizioni, erroneamente ritenuto che il L. avesse una maggiore anzianità di
servizio del B., pur avendo iniziato a lavorare nello stesso mese di maggio
2002.

5. Il quinto motivo denuncia violazione dell’art. 132 cod. proc. civ. (art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ.) per
avere la Corte di appello omesso qualsivoglia motivazione in ordine
all’affermazione, decisiva per il giudizio, secondo cui il L. era il dipendente
con la maggiore anzianità di servizio.

Si censura la sentenza nella parte in cui,
focalizzando l’accertamento solo sulla comparazione tra il L. e il B., aveva
omesso di valutare tutta la platea dei dipendenti occupati nel punto vendita di
Floridia, unico della provincia di Siracusa. Ci si duole della mancata
valutazione delle risultanze del libro matricola.

6. Il sesto motivo denuncia violazione e falsa
applicazione dell’art. 18
legge n. 300 del 1970 e dell’art. 1463 cod. civ.,
degli artt. 116 e 132
cod. proc. civ. (art. 360, primo comma, n. 3
cod. proc. civ.) e omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, quanto:
a) alla cessazione dell’attività aziendale intervenuta nel mese di marzo 2010;
b) alla presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo con
cessione dei beni ai creditori; c) alla relativa omologazione del Tribunale di
Caltagirone con decreto del 20 maggio 2013 (art.
360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ.).

Si deduce che nel disporre la reintegra del
ricorrente nel posto di lavoro la Corte di appello aveva omesso di considerare
le suddette circostanze che, debitamente allegate in giudizio, non erano state
vagliate dal Tribunale per essere la relativa eccezione rimasta assorbita nel
rigetto della domanda.

L’eccezione era stata riproposta in giudizio ex art. 346 e 436 cod.
proc. civ. da parte della società con la memoria di costituzione in
appello.

7. Il settimo e l’ottavo motivo vertono
rispettivamente sulla detrazione, dal risarcimento del danno riconosciuto ai
sensi dell’art. 18 Stat. lav. (nel testo anteriore alle modifiche apportate
dalla legge n. 92 del 2012), dell’aliunde
perceptum e dell’aliunde percipiendum. Ci si duole del mancato esame dell’allegazione,
di parte convenuta, secondo cui nel periodo successivo al licenziamento il L.
aveva lavorato per M. s.r.I., nonché del mancato esame della violazione di cui
all’art. 1227, secondo comma, cod. civ..

8. Il primo motivo è infondato.

8.1. Il licenziamento intimato al L., risalente al
14 luglio 2005, venne impugnato in via stragiudiziale il 20 luglio 2005 e in
sede giudiziale con ricorso depositato presso il Tribunale di Siracusa il 12
luglio 2010. Una volta osservato il termine di cui all’art. 6 della L. n. 604 del 1966
per l’impugnazione stragiudiziale, la successiva azione giudiziale di
annullamento del licenziamento illegittimo può essere proposta nel termine quinquennale
di prescrizione di cui all’art. 1442 cod. civ.,
decorrente dalla comunicazione del recesso, come da costante orientamento
formatosi nella disciplina legislativa ratione temporis vigente (cfr. Cass. n.
28514 del 2008, 24675 del 2016).

8.2. Tanto premesso, va osservato che parte
ricorrente ha richiamato la c.d. teoria della V., definita nella sentenza n.
5240 del 2004 di questa Corte come “il principio, basato appunto sulla
buona fede, secondo cui, anche prima del decorso del termine prescrizionale, il
mancato esercizio del diritto, protrattosi per un conveniente lasso di tempo,
imputabile al suo titolare e che abbia fatto sorgere nella controparte un
ragionevole ed apprezzabile affidamento sul definitivo non esercizio del
diritto medesimo, porta a far considerare che un successivo atto di esercizio
del diritto in questione rappresenti un caso di abuso del diritto, nella forma
del ritardo sleale nell’esercizio del diritto, con conseguente rifiuto della
tutela, per il principio della buona fede nell’esecuzione del contratto”.

8.3. Sennonché il medesimo precedente ha anche
chiarito che detta teoria non può avere ingresso nell’ordinamento italiano, per
il quale “il solo ritardo nell’esercizio del diritto, per quanto imputabile
al titolare del diritto stesso e per quanto tale da far ragionevolmente
ritenere al debitore che il diritto non sarà più esercitato, non può costituire
motivo per negare la tutela giudiziaria dello stesso, salvo che tale ritardo
sia la conseguenza fattuale di un’inequivoca rinuncia tacita….” (v. in
termini, pure Cass. n. 23382 del 2013, in motivazione).

8.4. Da tali precedenti non vi è ragione di
discostarsi, in difetto di nuovi argomenti di parte ricorrente; ed è appena il
caso di aggiungere che, nel caso in esame, una siffatta tacita rinuncia non è
accertata nella sentenza impugnata e neppure dedotta nel ricorso.

9. Il secondo e il terzo motivo, che possono essere
esaminati congiuntamente, sono infondati.

9.1. Nel caso di licenziamento per ragioni inerenti
l’attività produttiva e l’organizzazione del lavoro, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3,
per la giurisprudenza di questa Corte, allorquando il giustificato motivo
oggettivo si identifica nella generica esigenza di riduzione di personale
omogeneo e fungibile, la scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare
per il datore di lavoro non è totalmente libera: essa, infatti, risulta
limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di
correttezza cui deve essere informato, ex artt.
1175 e 1375 cod. civ., ogni comportamento
delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi, anche il recesso di una di
esse (v. da ultimo, Cass. 19732 del 2018, che
richiama Cass. n. 7046 del 2011; Cass. n. 11124 del 2004; Cass. n. 13058 del 2003; Cass. n. 16144 del 2001;
Cass. n. 14663 del 2001).

9.2. In questa situazione, pertanto, la stessa
giurisprudenza si è posta il problema di individuare in concreto i criteri
obiettivi che consentano di ritenere la scelta conforme ai dettami di
correttezza e buona fede ed ha ritenuto che possa farsi riferimento, pur nella
diversità dei rispettivi regimi, ai criteri che la L. n. 223 del 1991, art. 5, ha
dettato per i licenziamenti collettivi per l’ipotesi in cui l’accordo sindacale
ivi previsto non abbia indicato criteri di scelta diversi e, conseguentemente,
prendere in considerazione in via analogica i criteri dei carichi di famiglia e
dell’anzianità, non assumendo rilievo le esigenze tecnico – produttive e
organizzative, ove ricorra una situazione di totale fungibilità tra i
dipendenti.

9.3. In analoga prospettiva si è puntualizzato che
il ricorso a detti criteri resti giustificato non tanto sul piano dell’analogia
quanto piuttosto per costituire i criteri di scelta previsti dal predetto art. 5 della L. n. 223/91 uno
standard particolarmente idoneo a consentire al datore di lavoro di esercitare
il suo, unilaterale, potere selettivo coerentemente con gli interessi del
lavoratore e con quello aziendale (in tal senso, Cass.
n. 19732 del 2018, cit. e giurisprudenza ivi citata in motivazione).

9.4. Il secondo mezzo di gravame della società non
spiega perché la Corte di appello avrebbe errato nel ritenere violato il
consolidato principio in base al quale – a fronte dell’esigenza, derivante da
ragioni inerenti all’attività produttiva, di ridurre di una unità il numero dei
dipendenti dell’azienda – nella scelta del lavoratore licenziato, tra più
lavoratori occupati in posizione di piena fungibilità, il datore è tenuto a
rispettare le regole di correttezza di cui all’art.
1175 cod. civ..

9.5. In ordine alla fungibilità tra dipendenti
addetti alla stessa sede (o quanto meno tra il L. e il collega B.), il giudizio
espresso dalla Corte di appello si fonda in parte su valutazioni di merito
relative all’apprezzamento delle prove acquisite al giudizio, ossia su un
accertamento non sindacabile in sede di legittimità, e in parte su argomenti
logicamente corretti, quali la non conformità a buona fede del comportamento
datoriale che, ove ritenuto più conveniente per l’azienda il mantenimento in
servizio di lavoratori part-time, non proponga ai lavoratori full-time la
conversione del rapporto di lavoro prima di procedere al licenziamento.

9.6. Del pari logicamente e giuridicamente corretto
è ritenere che la verifica di condotte sanzionate o sanzionabili commesse dal
lavoratore possano essenzialmente rilevare nella appropriata sede disciplinare.

10. Il quarto motivo è inammissibile, in quanto
introduce una questione nuova, di cui non vi è cenno nella sentenza impugnata.

10.1. In tema di ricorso per cassazione, qualora
siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata,
il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne
l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù delle
regole processuali di cui all’art. 366 cod. proc.
civ., anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò
sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già
comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, essendo preclusa alle
parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di
contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio
(tra le più recenti, Cass. 20694 e 15430 del 2018, 23675 del 2013).

11. Anche il quinto motivo è inammissibile.

11.1. Il requisito di cui all’art. 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ. è da
apprezzarsi esclusivamente in funzione della intelligibilità della decisione e
della comprensione delle ragioni poste a suo fondamento, la cui mancanza costituisce
motivo di nullità della sentenza solo quando non sia possibile individuare gli
elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione, stante il
principio della strumentalità della forma, per il quale la nullità non può
essere mai dichiarata se l’atto ha raggiunto il suo scopo (art. 156, comma 3, cod. proc. civ.), e considerato
che lo stesso legislatore, nel modificare l’art.
132 cit., ha espressamente stabilito un collegamento di tipo logico e
funzionale tra l’indicazione in sentenza dei fatti di causa e le ragioni poste
dal giudice a fondamento della decisione (cfr. Cass. n. 22845 del 2010).

11.2. Nel caso in esame, non è stato in alcun modo
chiarito dalla società ricorrente per cassazione per quale motivo la sentenza
avrebbe violato l’art. 132, secondo comma, n. 4
cod. proc. civ..

11.3. La censura si incentra, in realtà, sul
presunto omesso esame di fatto che si assume decisivo per il giudizio (art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ.),
ossia sulla comparazione dell’anzianità del L. rispetto a tutti gli altri
lavoratori addetti al medesimo punto vendita. Trattasi di questione che,
all’evidenza, la sentenza ha implicitamente valutato come circostanza non
decisiva ai fini del giudizio, per tutte le ragioni illustrate in sentenza. Il
motivo è dunque anche privo di specificità al decisum (art. 366, primo comma, n. 4 cod. proc. civ.), in
quanto del tutto generico in ordine alla decisività del fatto che si assume
(peraltro infondatamente) omesso.

12. Il sesto motivo è fondato e merita pertanto
accoglimento.

12.1. Preliminarmente, va osservato che il motivo
rispetta i canoni processuali di cui all’art. 366
cod. proc. civ.. Risultano trascritti nel ricorso, nelle parti salienti, la
memoria di costituzione di primo grado riguardo alla richiesta di concordato
preventivo, il verbale dell’udienza del 18 luglio 2013 nel corso della quale
venne prodotto il decreto di omologa e il contenuto di tale decreto. Si deduce
che, anche a voler ritenere ingiustificato il licenziamento, in ogni caso il
giudice di appello non avrebbe potuto disporre la reintegra del dipendente per
impossibilità sopravvenuta. Viene altresì riportato il contenuto della note
autorizzate depositate in primo grado in cui si argomentava l’impossibilità di
reintegrare il dipendente nel posto di lavoro.

12.2. Secondo un principio già espresso da questa
Corte, la reintegra è un effetto della pronuncia emessa ex art. 18 Stat. estranea
all’esercizio di diritti potestativi del datore di lavoro, che quindi in ogni
momento può dedurne la totale o parziale inapplicabilità al caso oggetto di
lite (cfr. Cass. n. 28703 del 2011). La tutela
reale del posto di lavoro non può spingersi fino ad escludere la possibile
incidenza di successive vicende determinanti l’estinzione del vincolo
obbligatorio. Tra queste ultime rientra certamente la sopravvenuta materiale
impossibilità totale e definitiva di adempiere l’obbligazione, non imputabile a
norma dell’art. 1256 cod. civ., che è
ravvisabile nella sopraggiunta cessazione totale dell’attività aziendale, da
accertare, caso per caso, anche ove l’imprenditore sia stato ammesso alla
procedura di concordato preventivo con cessione dei beni ai creditori (in tali
termini, Cass. n. 7267 del 1998).

12.3. La cessazione dell’attività aziendale, nel
senso della disgregazione del relativo patrimonio, rende impossibile il
substrato della prestazione lavorativa legittimando – secondo la disciplina
degli artt. 1463 e 1256
cod.civ., da coordinare con quella specifica dei licenziamenti individuali
(in particolare con la legge n. 604 del 1966) –
in recesso del datore di lavoro per giustificato motivo oggettivo (nel senso
che la sussistenza di tale cessazione, va accertata caso per caso anche ove
l’imprenditore sia stato ammesso alla procedura di concordato preventivo con
cessione dei beni ai creditori, in quanto l’azienda ceduta potrebbe essere conservata
o nuovamente ceduta come complesso per la continuazione di un’attività di
impresa, vedi Cass. sent. n. 512 del 1984; n. 1476 del 1997). Ne consegue che,
qualora nelle more del giudizio promosso dal lavoratore per la declaratoria
della illegittimità di un licenziamento precedentemente intimato, sopravvenga
un mutamento della situazione organizzativa e patrimoniale dell’azienda tale da
non consentire la prosecuzione di una sua utile attività, il giudice che
accerti l’illegittimità del licenziamento non può disporre la reintegrazione
del lavoratore nel posto di lavoro ma deve limitarsi ad accogliere la domanda
di risarcimento del danno, con riguardo al periodo compreso tra la data del
licenziamento e quella della sopravvenuta causa di risoluzione del rapporto.

La sopraggiunta impossibilità totale della
prestazione costituisce, in sostanza, una vera e propria causa impeditiva
dell’ordine di reintegrazione e della tutela ripristinatoria apprestata dall’art.18 della L. 20 maggio 1970 n.
300 precludendo al lavoratore illegittimamente licenziato la possibilità di
ottenere – sia pure per equivalente, con la corresponsione delle retribuzioni –
il soddisfacimento del suo diritto alla continuazione del rapporto (Cass. sent.
n. 12245 del 1991; n. 12249 del 1991; n. 1815 del
1993; n. 7189 del 1996).

12.4. Il principio è stato anche di recente ribadito
con riguardo alle società poste in liquidazione (come nella specie in concordato),
nel senso che la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro può essere
disposta anche nei confronti di tali società, ma solo se l’attività sociale non
sia definitivamente cessata e non vi sia stato l’azzeramento
effettivodell’organico del personale (Cass. n.
16136 del 2018 e Cass. n. 2983 del 2011).

12.5. Nel caso in esame è mancato tale accertamento.
La Corte di appello ha omesso di esaminare se fosse o meno possibile la reintegra
nel posto di lavoro, occorrendo valutare, alla stregua delle risultanze
probatorie, se l’attività aziendale fosse o meno completamente cessata con
azzeramento dell’organico aziendale, come allegato dalla società convenuta.

12.6. Non è dunque conforme a diritto
l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui, una volta
stabilito l’assoggettamento della fattispecie al regime di tutela reale in
ragione della consistenza originaria dell’organico aziendale, sarebbe
irrilevante, ai fini dell’emissione di un ordine di reintegra, il venir meno
dell’attività produttiva, quale fatto sopravvenuto in corso di giudizio e
idoneo – se provato – a costituire ipotesi di impossibilità sopravvenuta della
prestazione e art. 1463 cod. civ..

13. Sul punto parte resistente ha contrastato le
conclusioni del p.g. citando Cass. n. 2975 del
2017 e Cass. 11010 del 1998, che tuttavia attengono a fattispecie diverse e
non recano principi utilmente invocabili in questa sede.

14. Il settimo e l’ottavo motivo restano assorbiti,
in quanto vertono su statuizioni consequenziali al riesame del capo recante
l’ordine di reintegra.

15. In conclusione, vanno rigettati i primi cinque
motivi, accolto il sesto, con assorbimento del settimo e dell’ottavo motivo. La
sentenza va cassata per il riesame del merito quanto alle statuizioni
conseguenti all’annullamento del licenziamento. Si designa, quale giudice di
rinvio, la Corte di appello di Catania in diversa composizione, alla quale è
rimessa anche la statuizione sulle spese del presente giudizio.

 

P.Q.M.

 

rigetta i primi cinque motivi di ricorso; accoglie
il sesto, assorbiti il settimo e l’ottavo. Cassa la sentenza impugnata e
rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Catania in diversa
composizione.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 gennaio 2020, n. 1888
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