Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 gennaio 2020, n. 1891
Licenziamento intimato per giusta causa, lnadempimento
all’obbligo di diligenza, Gravità della condotta, Violazione dell’obbligo di
correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, Proporzionalità della
misura sanzionatoria
Fatti di causa
Con sentenza in data 20 luglio 2018, la Corte
d’appello di Genova dichiarava illegittimo il licenziamento intimato per giusta
causa il 21 luglio 2016 da F. s.p.a. a C.C., risolto il rapporto di lavoro
dalla data suindicata e condannava la società datrice a corrispondere al
lavoratore un’indennità risarcitoria in misura di venti mensilità e quella di
mancato preavviso: così riformando la sentenza di primo grado, che, confermando
l’ordinanza dello stesso Tribunale ai sensi dell’art. 1, quarantanovesimo comma
I. 92/2012, aveva invece annullato il
licenziamento e condannato F. s.p.a. a reintegrare C.C. nel posto di lavoro e a
pagargli, a titolo risarcitorio, le retribuzioni maturate dal licenziamento al
ripristino del rapporto.
A motivo della decisione, la Corte territoriale
riteneva provati i fatti contestati (con tempestiva lettera di addebito del 12
luglio 2016) alla base del licenziamento intimato, per essere stato il
lavoratore sorpreso da una guardia giurata in servizio a tutela del patrimonio
aziendale, nella notte tra il 7 e l’8 giugno 2016, intento a dormire in una
cabina, chiusa dall’interno, della nave “S.S.E.” allestita dalla
società datrice e in consegna all’armatore, anziché a rimuovere (insieme con
altri colleghi) il materiale elettrico rimasto a bordo, secondo il compito
commessogli e, una volta svegliato dal vigilante, avere rifiutato la consegna
del proprio budget per l’identificazione, interrompendo anticipatamente
l’attività lavorativa.
Tuttavia, pur ritenendo anch’essa la misura
disciplinare sproporzionata all’addebito, ne escludeva la punibilità con la
sanzione conservativa prevista dall’art. 9, lett. b) del CCNL di
settore (ossia con la multa o la sospensione per il lavoratore che senza
giustificato motivo ritardi l’inizio del lavoro, lo sospenda o ne anticipi la
cessazione), per avere C.C. tenuto un comportamento, non già immediatamente
riscontrabile dal datore di lavoro, contrario al suo dovere di diligenza (come
quelli oggetto di previsione collettiva sanzionata in via conservativa), ma di
occultamento in luogo appartato (quale la cabina di una nave chiusa
dall’interno) per mettersi a dormire, quando invece lo si credeva intento a
lavorare, così aggravando l’inadempimento all’obbligo di diligenza con la
violazione di quello generale di correttezza e buona fede nell’esecuzione del
contratto.
Sicché, la Corte ligure applicava la tutela
indennitaria prevista dall’art.
18, quinto (in luogo del quarto) comma I. 300/1970, come novellato dalla I. 92/2012, nella misura suindicata, in
particolare considerazione dell’anzianità ultradecennale del lavoratore e delle
dimensioni dell’attività economica; e gli riconosceva pure l’indennità di
mancato preavviso, con essa compatibile.
Con atto notificato il 18 settembre 2018, il
lavoratore ricorreva per cassazione avverso tale sentenza con unico motivo, cui
la società datrice resisteva con controricorso contenente ricorso incidentale
pure con unico motivo, cui il lavoratore replicava a propria volta con
controricorso; entrambe le parti comunicavano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Con unico motivo, il lavoratore deduce violazione
dell’art. 9, lett. b) del CCNL
per i lavoratori addetti all’industria metalmeccanica privata ed alla
installazione di impianti del 5 dicembre 2012, per la previsione della sola
sanzione conservativa per l’ipotesi di sospensione dell’attività lavorativa
senza giustificato motivo, nell’irrilevanza di una caratterizzazione accessoria
del comportamento, quale la realizzazione della condotta “mettendosi a
dormire, di nascosto, in un luogo appartato, durante il turno notturno”,
non integrante una diversa fattispecie, autonomamente apprezzabile e
sanzionabile.
2. Con motivo parimenti unico, la società
controricorrente in via di ricorso incidentale, a propria volta deduce
violazione e falsa applicazione degli artt. 2105,
2119 c.c., 18, quinto comma I. 300/1970,
per erronea esclusione della proporzionalità della sanzione del licenziamento
inflitta, in considerazione dei comportamenti contestati al lavoratore ritenuti
provati e integrare l’inosservanza, oltre che dell’obbligo di diligenza, anche
di correttezza e buona fede, con un ragionamento pure contraddittorio, posta
l’idoneità dei suddetti comportamenti, in violazione dell’obbligo di fedeltà, a
ledere il vincolo di fiducia con il datore di lavoro irrimediabilmente, per la
gravità della condotta.
3. Per evidenti ragioni di pregiudizialità
logico-giuridica, esso deve essere esaminato per primo ed è infondato.
3.1. Non si configura, infatti, la violazione dell’art. 2119 c.c., non rilevando qui (come ancora
recentemente ritenuto da: Cass. 10 luglio 2018, n.
18170) una questione di sindacabilità, sotto il profilo della falsa
interpretazione di legge, del giudizio applicativo di una norma cd.
“elastica” (quale indubbiamente è la clausola generale della giusta
causa), che indichi solo parametri generali e pertanto presupponga da parte del
giudice un’attività di integrazione giuridica della norma, a cui sia data
concretezza ai fini del suo adeguamento ad un determinato contesto storico –
sociale: in tal caso ben potendo il giudice di legittimità censurare la
sussunzione di uno specifico comportamento del lavoratore nell’ambito della
giusta causa (piuttosto che del giustificato motivo di licenziamento), in
relazione alla sua intrinseca lesività degli interessi del datore di lavoro (Cass. 18 gennaio 1999, n. 434; Cass. 22 ottobre
1998, n. 10514). E ciò per la sindacabilità, da parte della Corte di
cassazione, dell’attività di integrazione del precetto normativo compiuta dal
giudice di merito, a condizione che la contestazione del giudizio valutativo
operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente
contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza del
predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento,
esistenti nella realtà sociale (Cass. 26 aprile
2012, n. 6498; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095).
3.2. Ed ancora, in tema di licenziamento disciplinare,
rientra nell’attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito la verifica
della sussistenza della giusta causa, con riferimento alla violazione dei
parametri posti dal codice disciplinare del c.c.n.I., le cui previsioni, anche
quando la condotta del lavoratore sia astrattamente corrispondente alla
fattispecie tipizzata contrattualmente, non sono vincolanti per il giudice,
dovendo la scala valoriale ivi recepita costituire uno dei parametri cui fare
riferimento per riempire di contenuto la clausola generale di cui all’art. 2119 c.c., attraverso un accertamento in
concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione sotto i profili
oggettivo e soggettivo; con la conseguenza che le parti ben potranno sottoporre
il risultato della valutazione cui è pervenuto il giudice di merito all’esame
della Suprema Corte, sotto il profilo della violazione del parametro
integrativo della clausola generale
costituito dalle previsioni del codice disciplinare
(Cass. 16 aprile 2018, n. 9396; Cass. 26 ottobre 2018, n. 27238; Cass. 23 maggio 2019, n. 14063).
3.3. Nel caso di specie, la società ha invece
censurato l’apprezzamento in fatto della Corte territoriale in ordine alla
proporzionalità della misura sanzionatoria, essendo in sede di legittimità
insindacabile la valutazione di gravità della condotta, operata in base a
congruo ed argomentato ragionamento motivo (dal penultimo capoverso di pg. 7 al
penultimo di pg. 8 della sentenza), di ravvisata attenuazione dell’elemento
soggettivo della colpa, in esito ad attento e critico apprezzamento della
fattispecie nella sua peculiare articolazione di addebiti contestati. Essi sono
stati infatti ritenuti di entità, anche considerata la realizzazione di
“una finalità specifica, circoscritta e per così dire straordinaria”
(così al terzo capoverso di pg. 8 della sentenza), “non così grave … da
far ritenere il futuro ripetersi, in condizioni normali di episodi analoghi e
quindi tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario del rapporto di
lavoro” (così al penultimo capoverso di pg. 8 della sentenza).
3.4. Ed è noto che la sanzione disciplinare debba
essere proporzionale alla gravità dei fatti contestati, sia in sede di
irrogazione della sanzione da parte del datore nell’esercizio del suo potere
disciplinare, avuto riguardo alle ragioni che lo hanno indotto a ritenere grave
il comportamento del dipendente, sia da parte del giudice del merito, il cui
apprezzamento della legittimità e congruità della sanzione applicata, se
sorretto da adeguata e logica motivazione, si sottrae a censure in sede di
legittimità (Cass. 8 gennaio 2008, n. 144; Cass. 26 gennaio 2011, n. 1788; Cass. 25 maggio 2012, n. 8293; 26 settembre 2018,
n. 23046).
3.5. Giova inoltre ribadire che, mentre il giudizio
di sussunzione è giudizio di diritto, in quanto tale sottoponibile anche a
questa S.C., quello di mera proporzionalità in concreto fra illecito
disciplinare e relativa sanzione è giudizio di fatto, riservato al giudice di
merito che deve operarlo tenendo conto di tutti i connotati oggettivi e
soggettivi della vicenda: come, ad esempio, l’entità del danno, il grado della
colpa o l’intensità del dolo, l’esistenza o non di precedenti disciplinari a
carico del dipendente (Cass. 26 aprile 2012, n.
6498; Cass. 29 marzo 2017 n. 8136; Cass. 10 luglio 2018, n. 18172).
4. L’unico motivo di ricorso principale, relativo a
violazione dell’art. 9, lett.
b) del CCNL di settore 5 dicembre 2012 di previsione della sola sanzione
conservativa per l’ipotesi di sospensione dell’attività lavorativa senza
giustificato motivo, è infondato.
4.1. Secondo il più recente ed ormai consolidato
indirizzo di questa Corte, cui deve essere data continuità (e ancora
ultimamente: Cass. 19 luglio 2019, n. 19578), la valutazione di non
proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato
rientra nell’art. 18, quarto
comma solo nell’ipotesi in cui lo scollamento tra la gravità della condotta
realizzata e la sanzione adottata risulti dalle previsioni dei contratti
collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che ad essa facciano
corrispondere una sanzione conservativa. Ma al di fuori di tale caso, la
sproporzione tra la condotta e la sanzione espulsiva rientra nelle “altre
ipofesi” in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo
soggettivo o della giusta causa, per le quali l’art. 18, quinto comma prevede
la tutela indennitaria c.d. forte: avendo la novella del 2012 introdotto una
graduazione delle ipotesi di illegittimità della sanzione espulsiva dettata da
motivi disciplinari, facendo corrispondere a quelle di maggiore evidenza la
sanzione della reintegrazione e limitando la tutela risarcitoria all’ipotesi
del difetto di proporzionalità che non risulti dalle previsioni del contratto
collettivo (Cass. 25 maggio 2017, n. 13178, in motivazione; Cass. 12 ottobre 2018, n. 25534; Cass. 14 dicembre 2018, n. 32500, in
motivazione).
4.2. Una tale interpretazione è coerente con la
lettera dell’art. 18, quarto
comma, che vieta operazioni ermeneutiche che estendano l’eccezione della
tutela reintegratoria alla regola rappresentata dalla tutela indennitaria (da
ritenersi espressione, secondo la volontà del legislatore, di “una valenza
di carattere generale”: Cass. s.u. 27
dicembre 2017, n. 30985, in specifico riferimento alla c.d. tutela
indennitaria forte, prevista dal citato art. 18, quinto comma)
nonché, dal punto di vista sistematico, in quanto violerebbe la chiara ratio
nel nuovo regime in cui la tutela reintegratoria presuppone l’abuso consapevole
del potere disciplinare, che implica una sicura e chiaramente intellegibile
conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoratore, della illegittimità
del provvedimento espulsivo derivante o dalla insussistenza del fatto
contestato oppure dalla chiara riconducibilità del comportamento contestato
nell’ambito della previsione della norma collettiva fra le fattispecie ritenute
dalle parti sociali inidonee a giustificare l’espulsione del lavoratore (Cass. 9 maggio 2019, n. 12365).
4.3. Anche a superamento di un iniziale precedente
di questa Corte, aperto ad una valutazione di proporzionalità pure nella
selezione della tutela al cospetto di previsioni sanzionatone collettive,
concisamente argomentato (“Considerato che il contratto collettivo
parifica all’insubordinazione grave, giustificativa del licenziamento, gravi
reati accertati in sede penale … si deve ritenere rispettosa del principio di
proporzione la decisione … che non ha riportato il comportamento in
questione, certamente illecito, alla più grave delle sanzioni
disciplinari”: Cass. 11 febbraio 2015, n.
2692), il più recente arresto citato ha chiarito quale debba essere la
latitudine interpretativa della nuova disciplina dell’art. 18, quarto comma. E ha
puntualizzato come vi sia spazio per un’interpretazione estensiva, in linea
generale consentita ai sensi dell’art. 1365 c.c.,
al riguardo precisando, per richiamo, la sua praticabilità solo ove risulti
l’inadeguatezza per difetto” dell’espressione letterale adottata dalle
parti rispetto alla loro volontà, tradottasi in un contenuto carente rispetto
all’intenzione: in tale ipotesi, dovendo l’interprete tener presenti le
conseguenze normali volute dalle parti stesse con l’elencazione esemplificativa
dei casi menzionati e verificare la possibilità di ricomprendere nella
previsione contrattuale ipotesi in essa non contemplate, attenendosi nel
compimento di tale operazione ermeneutica al criterio di ragionevolezza imposto
dalla medesima norma (Cass. 13 aprile 2017, n. 9560). E ha quindi evidenziato
come la suddetta verifica debba essere eseguita con particolare severità in un
contesto, come quello in esame, nel quale trova applicazione il principio
generale secondo cui una norma che preveda un’eccezione rispetto alla regola generale
deve essere interpretata restrittivamente; così escludendo un’apertura
all’analogia o a un’interpretazione che allargasse la portata della norma
collettiva oltre i limiti sopra delineati, che produrrebbe effetti esattamente
contrari a quelli chiaramente espressi dal legislatore in termini di esigenza
di prevedibilità delle conseguenze circa i comportamenti tenuti dalle parti del
rapporto (Cass. 9 maggio 2019, n. 12365,
cit.).
4. Dalle superiori argomentazioni discende il
rigetto di entrambi i ricorsi principale e incidentale, con la compensazione
integrale delle spese del giudizio tra le parti e il raddoppio del contributo
unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali
(conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).
P.Q.M.
Rigetta entrambi i ricorsi e compensa interamente
tra le parti le spese del giudizio.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto
per il ricorso principale e del ricorso incidentale, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13,
se dovuto.