Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 febbraio 2020, n. 2366

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, Mansioni,
Diritto a qualifica superiore accertato con sentenza,Assegnazione ad un
reparto di fatto inattivo da tempo, Reintegrazione della lavoratrice

Fatti di causa

1. Il Tribunale di Ascoli Piceno, in sede di
opposizione nell’ambito di un procedimento ex lege
n. 92 del 2012, confermò l’illegittimità del licenziamento intimato per
giustificato motivo oggettivo a N.G. dalla P. Italia Srl, condannando la
società al pagamento di una indennità risarcitoria a mente dell’art. 18, comma 5, dell’art. 18 novellato dalla legge
citata.

Secondo il Tribunale la lavoratrice, in seguito alla
reintegrazione giudizialmente disposta per l’illegittimità di un precedente
licenziamento, era stata assegnata a mansioni inferiori di Receptionist
rispetto a quelle di Assistente Segretaria di Direzione, nell’ambito “di
un reparto di fatto già inattivo da tempo”, per cui la soppressione del
posto indebitamente attribuito non poteva essere addotta quale giustificato
motivo oggettivo di licenziamento, perché la lavoratrice non avrebbe mai dovuto
rivestire quella posizione.

2. Interposto reclamo dalla sola G., limitatamente
alla tutela meramente indennitaria riconosciuta dal primo giudice, la Corte di
Appello di Ancona, con sentenza pubblicata il 28 maggio 2018, in riforma della
decisione di primo grado, ha dichiarato “la manifesta insussistenza del
fatto posto a base del licenziamento” e, per l’effetto, ha condannato la
società alla reintegrazione della lavoratrice ed al pagamento di una indennità
pari a 12 mensilità.

I giudici d’appello hanno rilevato che “la
soppressione di un posto di Receptionist non è causalmente connessa al
licenziamento di una lavoratrice avente la superiore qualifica di Assistente
Segretaria di Direzione, che, quindi, avrebbe dovuto svolgere mansioni diverse
da quelle soppresse; tanto più che il diritto alla qualifica superiore della
reclamante risulta accertato con sentenza della S.C., la cui efficacia di
giudicato non può essere elusa dalla reclamata società sulla scorta di ragioni
produttive che non sono riferibili alla lavoratrice medesima. Proprio dalla
pronuncia giudiziale – continua la Corte – che ha accertato in via definitiva
come la G. fosse stata adibita a mansioni deteriori in conseguenza di un
inadempimento contrattuale della P. discende la manifesta insussistenza del
nesso di causalità e, quindi, del fatto posto alla base del licenziamento,
considerato che la lavoratrice avrebbe dovuto attendere a mansioni differenti
rispetto a quelle concretamente soppresse”.

La Corte territoriale poi, in ossequio
all’orientamento della giurisprudenza di legittimità segnato da Cass. n. 10435 del 2018, ha ritenuto che, stante
le grandi dimensioni dell’azienda multinazionale, “in assenza di ulteriori
elementi che evidenzino una situazione di difficoltà logistica, organizzativa o
economica, l’attuazione della tutela reintegratoria non risulta eccessivamente
onerosa per la reclamata”.

3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto
ricorso P. Italia Srl con 5 motivi, cui ha resistito la G. con controricorso.

La società ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c., in seguito a costituzione di
nuovo difensore.

 

Ragioni della decisione

 

1. I motivi di ricorso possono essere come di
seguito sintetizzati.

Con il primo si denuncia violazione e falsa
applicazione dell’art. 3 della
I. n. 604 del 1966 e dell’art.
18, comma 7, I. n. 300 del 1970, sostenendo che la verifica del nesso di
causalità avrebbe dovuto riguardare, in via esclusiva, il rapporto tra posto
soppresso nel 2014 e licenziamento intimato nel giugno dello stesso anno e non
circostanze di fatto irrilevanti “ai fini della legittimità del recesso”,
quali il precedente “accertato demansionamento”.

Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa
applicazione dell’art. 3 della
I. n. 604 del 1966, in relazione all’art. 30, comma 1, I. n. 183 del 2010,
e 41 Cost., poiché il giudizio espresso dalla
Corte territoriale si tradurrebbe in un “sindacato sulla congruità e
sull’opportunità della scelta datoriale”.

Il terzo mezzo denuncia “omesso esame circa un
fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti
ex art. 360 n. 5 c.p.c.”, criticando la
sentenza impugnata “per aver dichiarato l’illegittimità del licenziamento
a prescindere da qualsiasi accertamento sull’assolvimento da parte della
società dell’obbligo di repechage”.

Il quarto motivo denuncia violazione e falsa
applicazione dell’art. 3 della
I. 604 del 1966 e dell’art. 2058 c.c.,
“in relazione all’obbligo di repechage quando a fronte della completa
chiusura dell’area di attività alla quale era adibito il lavoratore ed anche a
fronte dei rifiuto di questi di accettare una posizione con mansioni inferiori,
si pretenda di imporre al datore di lavoro il dovere di ricollocare il
prestatore in posizioni divenute inesistenti”.

Con l’ultimo motivo si denuncia violazione e falsa
applicazione dell’art. 18,
comma 7, I. n. 300 del 1970, in relazione all’art.
2058 c.c. ed all’art. 3 Cost., lamentando
“la valutazione sommaria espressa ai fini dell’applicazione del regime
sanzionatorio “forte” della Corte di Appello di Ancona”.

2. I primi quattro motivi del ricorso, da valutarsi
congiuntamente per connessione reciproca, non meritano accoglimento.

Essi infatti trascurano di considerare che la
società non ha proposto alcuna impugnazione avverso la pronuncia di primo grado
che aveva già dichiarato l’illegittimità del licenziamento, mentre l’unica
questione devoluta dal reclamo della sola lavoratrice alla Corte di Appello era
quella della tutela applicabile.

Pertanto ogni questione riguardante la mancanza dei
presupposti giustificativi del recesso per motivo oggettivo, anche avuto
riguardo al repechage, è oramai preclusa al sindacato di questa Corte in
ragione dell’intervenuto giudicato interno, mentre le prime quattro censure
articolate dalla società ancora si attardano su tali aspetti, come è reso
palese anche dall’invocazione reiterata della pretesa violazione e falsa
applicazione dell’art. 3 della
I. n. 604 del 1966 che riguarda, appunto, la causale giustificativa del
recesso e non invece le conseguenze sanzionatorie del licenziamento illegittimo
contenute nell’art. 18 S.d.L.
novellato.

Ciò posto, va evidenziato come questa Corte insegni
(Cass. n. 10435 del 2018) che il concetto di
“manifesta insussistenza” del fatto posto a base di un recesso per
giustificato motivo oggettivo “va riferito ad una evidente e facilmente
verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che
consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso, accertamento di
merito demandato al giudice ed incensurabile, in quanto tale, in sede di
legittimità” (tra le altre conformi, da ultimo, v. Cass. n. 29893 del 2019).

Inoltre la mancanza di un nesso causale tra il
progettato ridimensionamento e lo specifico provvedimento di recesso è stata
già ritenuta da questa Corte tale da ricondurre il licenziamento nell’alveo di
quella particolare evidenza richiesta per integrare la manifesta insussistenza
del fatto che giustifica, ai sensi dell’art. 18, comma 7, I. n. 300/1970,
come modificato dalla I. n. 92 del 2012, la
tutela reintegratoria attenuata (v. Cass. n. 31496
del 2018; conf. Cass. n. 8661 del 2019 e Cass.
n. 29101 del 2019).

In particolare, poi, è stato già ritenuto che
dall’illegittima adibizione di un lavoratore a mansioni diverse da quelle cui
avrebbe diritto discende che la soppressione del posto indebitamente assegnato
non possa costituire idonea giustificazione per motivo oggettivo del
licenziamento intimato perché “fatto che non può essere connesso
causalmente al licenziamento del dipendente”, mandando esente da critiche
“la statuizione con la quale il giudice del gravame ha ritenuto che non
poteva un fatto illecito essere posto a fondamento, secondo un vincolo di
causalità, del recesso intimato per giustificato motivo oggettivo, …, non
configurandosi etiologicamente connessa con la intervenuta soppressione del
posto di lavoro” (Cass. n. 3129 del 2019).

3. Parimenti non può trovare accoglimento l’ultimo
mezzo di impugnazione, nonostante sia l’unico che concretamente centri il
decisum della sentenza impugnata nella parte in cui essa ha riconosciuto la
tutela reintegratoria cd. “attenuata”.

Infatti la Corte di Appello, in dichiarato ossequio
al principio di diritto affermato “in funzione nomofilattica” dalla
già citata Cass. n. 10435/2018, in base al
quale “il giudice può applicare la disciplina di cui al comma 4 dell’art. 18 ove tale regime
sanzionatone non sia eccessivamente oneroso per il datore di lavoro”, ha
effettuato tale valutazione ulteriore.

L’esercizio di detto “potere discrezionale del
giudice” – come definito dall’arresto giurisprudenziale richiamato –
commisurato al principio della “eccessiva onerosità” si sottrae al
sindacato di legittimità, ove sorretto, come nella specie, da motivazione
plausibile rispetto alla quale il diverso avviso del soccombente non è certo
idoneo a determinare la cassazione della sentenza impugnata.

4. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto,
con le spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Occorre dare atto della sussistenza dei presupposti
processuali di cui all’art. 13, co.
1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento
delle spese liquidate in euro 5.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi,
accessori secondo legge e spese generali ai 15%.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1
bis dello stesso art. 13, se
dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 febbraio 2020, n. 2366
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: