Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 10 febbraio 2020, n. 5290
Beneficio economico del “reddito di cittadinanza”, Falsa
attestazione dello stato di disoccupazione, Carta POSTAMAT RDC, Sequestro
preventivo, Obbligo di comunicare la variazione reddituale, Retribuzione non
avrebbe comportato il superamento del limite massimo di ISEE annuo,
Irrilevanza
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza del 17 giugno 2019, il Tribunale di
Palermo ha rigettato la richiesta di riesame proposta nell’interesse di S.
avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip del Tribunale di
Palermo in data 1 giugno 2019 avente ad oggetto una “Carta POSTAMAT
RDC”, in quanto indagato, con la moglie S.F., per il reato previsto dall’art. 7 della legge n. 26 del 2019,
perché in concorso tra loro, per ottenere il beneficio economico del
“reddito di cittadinanza” dichiaravano il falso, attestando lo stato
di disoccupazione di entrambi, quando in realtà S.G. svolgeva attività
lavorativa di addetto al laboratorio di pasticceria e rosticceria in un locale
denominato “Bar O.”, come accertato dai carabinieri della stazione di
Palermo – che effettuavano un servizio di osservazione nel luogo predetto –
percependo un compenso pari a euro 180,00 a settimana.
Il Tribunale ha ritenuto infondata la prospettazione
difensiva, basata sull’assunto che l’ISEE necessario al fine di dimostrare di
rientrare nei parametri reddituali indicati dalla legge sarebbe stato richiesto
l’8 febbraio 2019 e rilasciato in data 12 febbraio 2019 in concomitanza con
l’inizio dell’attività lavorativa di S., la cui retribuzione non avrebbe
comportato il superamento del limite massimo di ISEE annuo per ottenere il
beneficio economico e, dunque, l’obbligo di comunicare la variazione. In
particolare il Tribunale ha rilevato che l’autodichiarazione presentata ai fini
della concessione del beneficio è dell’8 marzo 2019 e, perciò, riferita a un
momento in cui l’indagato svolgeva attività lavorativa da oltre un mese. Ha inoltre
evidenziato l’anomalia della situazione, rappresentata dal fatto che – al
momento del controllo da parte della polizia giudiziaria – risultava che S.
svolgesse lavoro senza regolare contratto; mentre, solo successivamente, era
stata documentata l’esistenza di un contratto di lavoro semestrale.
2. Avverso l’ordinanza l’indagato, ha proposto,
tramite il difensore, ricorso per cassazione, deducendo, con unico motivo di
doglianza, la violazione dell’art. 125 cod. proc.
pen. e della “legge n. 26 del 2019”,
nonché vizi della motivazione, sulla premessa che la variazione di reddito
ritenuta penalmente rilevante, legata alla nuova attività occupazionale da lui
svolta, si sarebbe prodotta in un momento successivo al rilascio della
documentazione ISEE necessaria per la domanda del reddito di cittadinanza.
Secondo la difesa, sarebbe dubbia l’esistenza di un obbligo di comunicare tale
variazione di reddito non essendosi comunque verificato il superamento della
soglia richiesta dalla legge – pari ad euro 9.360,00 annui (art. 3, comma 4, del d.l. n. 4 del
2019) – per la concessione del beneficio, dal momento che il reddito
percepito sarebbe di 180,00 euro settimanali, per un contratto di durata
semestrale.
Considerato in diritto
3. Il ricorso è infondato.
3.1. Viene in rilievo l’art. 7 del d.l. n. 4 del 2019,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 26
del 2019, il quale prevede: al comma 1, che «Salvo che il fatto costituisca
più grave reato, chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio di
cui all’articolo 3, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o
attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute, è punito con la
reclusione da due a sei anni»; al comma 2, che «L’omessa comunicazione delle
variazioni del reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività
irregolari, nonché di altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della
revoca o della riduzione del beneficio entro i termini di cui all’art. 3, commi
8, ultimo periodo, 9 e 11, è punita con la reclusione da uno a tre anni».
Entrambe le fattispecie – la prima delle quali caratterizzata dal dolo
specifico – si configurano come reati di condotta e di pericolo, in quanto
dirette a tutelare l’amministrazione contro mendaci e omissioni circa
l’effettiva situazione patrimoniale e reddituale da parte dei soggetti che
intendono accedere o già hanno acceduto al “reddito di cittadinanza”.
Si tratta, cioè, di una disciplina correlata, nel suo complesso, al generale
“principio antielusivo” che, come più volte affermato da questa Corte
(ex plurimis, Sez. 4, n. 18107 del 16/03/2017, Rv. 269806, e la giurisprudenza
ivi richiamata), s’incardina sulla capacità contributiva ai sensi dell’art. 53 Costituzione, la cui ratio risponde al più
generale principio di ragionevolezza di cui all’art.
3 Cost.; per cui, la punibilità del reato di condotta si rapporta, ben
oltre il pericolo di profitto ingiusto, al dovere di lealtà del cittadino verso
le istituzioni dalle quali riceve un beneficio economico. Tale essendo la ratio
delle due fattispecie incriminatrici dell’art. 7 del d.l. n. 4 del 2019,
deve ritenersi che le stesse trovino applicazione indipendentemente
dall’accertamento dell’effettiva sussistenza delle condizioni per l’ammissione
al beneficio e, in particolare, del superamento delle soglie di legge. Né la
necessità di un tale accertamento emerge dalla formulazione letterale della
disposizione, nella misura in cui questa si riferisce, al primo comma, «al fine
di ottenere indebitamente il beneficio» e, al secondo comma, al complesso delle
«informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del
beneficio». Entrambi i riferimenti devono essere, infatti, intesi come diretti
a qualificare i dati che sono in sé rilevanti ai fini del controllo, da parte
dell’amministrazione erogante, sulla sussistenza dei presupposti per la
concessione e il mantenimento del beneficio e a differenziarli da quelli
irrilevanti, senza che possa essere lasciata al cittadino beneficiario la scelta
su cosa comunicare e cosa omettere. E ciò, perché – come visto – il legislatore
ha inteso creare un meccanismo di riequilibrio sociale, quale il reddito di
cittadinanza, il cui funzionamento presuppone necessariamente una leale
cooperazione fra cittadino e amministrazione, che sia ispirata alla massima
trasparenza, come emerge anche dai successivi commi del richiamato art. 7, che disciplinano, non a
caso, un’ampia casistica di fattispecie di revoca, decadenza e sanzioni
amministrative.
Tale conclusione interpretativa si pone, del resto,
in armonia con quanto già affermato da questa Corte in relazione alla
fattispecie penale di cui all’art.
95 del d.P.R. n. 115 del 2002, in materia di patrocinio a spese dello
Stato, a norma del quale «La falsità o le omissioni nella dichiarazione
sostitutiva di certificazione, nelle dichiarazioni, nelle indicazioni e nelle
comunicazioni previste dall’articolo
79, comma 1, lettere b), c) e d), sono punite con la reclusione da uno a
cinque anni e con la multa da euro 309,87 a euro 1.549,37. La pena è aumentata
se dal fatto consegue l’ottenimento o il mantenimento dell’ammissione al
patrocinio; la condanna importa la revoca, con efficacia retroattiva, e il
recupero a carico del responsabile delle somme corrisposte dallo Stato». In
particolare, secondo Sez. U, n. 6591 del
27/11/2008, dep. 16/02/2009, Rv. 242152, integrano il delitto di cui al
richiamato art. 95 le false
indicazioni o le omissioni, anche parziali, dei dati di fatto riportati nella
dichiarazione sostitutiva di certificazione o in ogni altra dichiarazione
prevista per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, indipendentemente
dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al
beneficio. E tale orientamento ha trovato conferma nella giurisprudenza successiva
delle sezioni semplici (ex multis, Sez. 4, n. 40943 del 18/09/2015, Rv.
264711), la quale ha anche precisato che si tratta di un’interpretazione che
non si pone in contrasto con la Costituzione – e, in particolare, con gli artt. 2, 3, 24 e 27 – perché
attinge al generale dovere di lealtà dei cittadini verso l’amministrazione, che
consente l’anticipazione della tutela penale attraverso l’utilizzazione dello
strumento del reato di pericolo (Sez. 4, n. 18107 del 16/03/2017, Rv. 269806),
fatta evidentemente salva l’esclusione della punibilità di condotte nelle quali
manchi l’elemento del dolo, sia pure eventuale (Sez. 4, n. 37144 del
05/06/2019, Rv. 277129; Sez. 4, n. 7192 del 11/01/2018, Rv. 272192). Si tratta
di affermazioni che possono trovare applicazione, in via analogica, anche in
relazione alla disciplina fissata dall’art. 7 del d.l. n. 4 del 2019, la
quale non si differenzia in maniera essenziale da quella dell’art. 95 del d.P.R. n. 115 del 2002,
in quanto entrambe appaiono dirette a sanzionare la violazione del dovere di lealtà
del cittadino verso l’amministrazione che eroga una provvidenza in suo favore e
non prevedono, perciò, la necessità di accertare la sussistenza in concreto dei
requisiti reddituali di legge.
3.2. I principi appena affermati trovano
applicazione anche nel caso di specie, in cui la ricostruzione fornita dalla
difesa appare, comunque, ampiamente smentita dalla successione dei fatti, come
correttamente riportati nell’ordinanza impugnata. Emerge, in particolare, che:
a) l’accertamento dello svolgimento di attività lavorativa da parte di S. era
derivato da appostamenti dei carabinieri presso il suo luogo di lavoro; b) tale
attività lavorativa secondo quanto dichiarato dallo stesso S., era cominciata
l’8 febbraio 2019, ovvero lo stesso giorno in cui gli interessati avevano
chiesto il rilascio della attestazione ISEE, poi effettivamente rilasciata il
12 febbraio 2019; c) la domanda di reddito di cittadinanza era stata
presentata, con la relativa autodichiarazione sulla situazione reddituale e
patrimoniale, nella successiva data del 18 marzo 2019, senza che l’attività
lavorativa, già in corso di svolgimento, fosse stata posta a conoscenza
dell’amministrazione; d) successivamente è stata prodotta un’attestazione
relativa all’esistenza di un regolare rapporto di lavoro, sulla base di un
contratto di durata semestrale, che contrasta con la prospettazione difensiva
iniziale, secondo la quale l’attività lavorativa risultava svolta “al
nero”; e) allo stato degli atti, tale attestazione appare giustificata dall’intento
di limitare il reddito percepito a soli sei mesi e ad importo totale di euro
7200,00 in modo da collocarlo al di sotto della soglia di legge; f) il
complesso di questi elementi fa ritenere sussistente anche il dolo specifico
del reato di cui al comma 1 dell’art.
7 del d.l. n. 4 del 2019, con particolare riferimento alla sostanziale
incertezza del reddito effettivamente percepito a seguito di attività
lavorativa il nero, il cui effettivo ammontare è stato prima taciuto e poi
artificiosamente diminuito dagli indagati; g) i riscontrati indizi di reato
giustificano il disposto sequestro della Carta Postamat, in vista di una revoca
del beneficio. È proprio in relazione a casi come questo che il legislatore ha
concepito le sanzioni penali di cui al richiamato art. 7, allo scopo di evitare che
il soggetto beneficiario del reddito di cittadinanza possa omettere di
comunicare all’amministrazione l’esistenza di redditi percepiti al nero,
lasciando all’amministrazione stessa l’onere di determinarne l’esatto ammontare
e di computarlo ai fini del superamento delle soglie di accesso al beneficio.
3.3. In conclusione, per quanto riguarda la
fattispecie cautelare in esame, può essere formulato il seguente principio di
diritto: «ai sensi dell’art. 7 del
d.l. n. 4 del 2019, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 26 del 2019, il sequestro preventivo
della carta reddito di cittadinanza, nel caso di false indicazioni od omissioni
di informazioni dovute, anche parziali, da parte del richiedente, può essere
disposto anche indipendentemente dall’accertamento dell’effettiva sussistenza
delle condizioni per l’ammissione al beneficio».
4. Il ricorso, conseguentemente, deve essere
rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali.