Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 febbraio 2020, n. 3640

Rapporto di lavoro subordinato, Domanda di riconoscimento,
Dirigente, Direttore tecnico di Stabilimento, Pagamento delle differenze
retributive, Difetto di prova

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 639 dell’1.12.2016 la Corte
d’Appello di Torino, a conferma della pronuncia di prime cure, ha respinto la
domanda di M. M. Z. diretta al riconoscimento della sussistenza di un rapporto
di lavoro subordinato, in qualità di dirigente, per il periodo aprile 2005 –
gennaio 2008 durante il quale aveva svolto le funzioni di Direttore tecnico di
Stabilimento della F. s.p.a. in liquidazione, con conseguente richiesta di
condanna al pagamento delle differenze retributive discendenti dal riconoscimento
della natura subordinata del rapporto di lavoro sin dal 2005 (avendo, poi,
stipulato nel febbraio 2008 un rapporto di lavoro subordinato, con qualifica di
dirigente) pari a complessivi euro 232.198,26 oltre accessori di legge.

2. La Corte distrettuale, per quel che interessa,
considerate le modalità di svolgimento del rapporto di lavoro, escludeva il
vincolo di subordinazione nel periodo (aprile 2005 – gennaio 2008) precedente
la stipulazione del contratto di lavoro subordinato, per difetto di prova in ordine
al requisito essenziale della subordinazione, non essendo stato allegato né
provato alcun elemento relativo ai rapporti con i vertici della società e alle
direttive ricevute dai medesimi (la “catena ascendente”), a fronte
dell’allegazione datoriale di assenza di vincolo orario, di vincolo gerarchico
e disciplinare.

3. Avverso l’anzidetta sentenza, il dott. Z. ha
proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, illustrati da
memoria. La società resiste con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

4. Con il primo motivo di ricorso si denuncia
violazione e falsa applicazione degli artt. 2086,
2094, 2095, 2104 cod.civ. (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.)
avendo, la Corte distrettuale, trascurato l’indice della subordinazione
rappresentato dall’inserimento stabile nell’organizzazione aziendale, indice
dimostrato dalla mole documentale depositata dallo Z. relativamente al potere
di rappresentanza nei confronti di terzi, alle funzioni commerciali nei
confronti di ditte esterne, ad un certo potere direttivo nei confronti dei
dipendenti (per quanto attiene a ferie ed ordini di lavoro, tutti compiti
espletati dallo Z. proprio in funzione di superiore gerarchico dei suddetti
dipendenti).

5. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia
violazione e falsa applicazione degli artt. 61 e ss. d.lgs. n. 276 del 2003
nonché vizio di motivazione (in relazione all’art.
360, primo comma, nn. 3 e 5, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale,
trascurato che l’attività prevista dai contratti stipulati nell’aprile e nel
maggio 2005 tra le parti integrava una collaborazione coordinata e continuativa
priva del progetto e, comunque, integrante, nei fatti, un rapporto di lavoro
subordinato, con  conseguente applicazione
dell’art. 69, comma 1 oppure comma
2, del d.lgs. n. 276 del 2003; in ogni caso, la Corte ha errato
nell’evidenziare la sussistenza di alcuni indici tipici della prestazione di
lavoro subordinato di un dirigente senza trarre la conseguenza diretta che si
trattava quantomeno di una collaborazione coordinata e continuativa (posta in
violazione della disciplina vigente).

6. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia vizio
di motivazione (in relazione all’art. 360, primo
comma, n. 5, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, trascurato che
nel ricorso introduttivo del giudizio si era specificato che “il dott. Z.
non era un consulente esterno che capitava ogni tanto in azienda per dare
qualche consiglio o suggerimento” ma l’asse portante della struttura
produttiva dello Stabilimento e che era stato prodotto l’organigramma dello
stabilimento (risalente al 4.4.2005 e corrispondente a quello dell’aprile 2008,
quando era stato formalizzato un rapporto di lavoro subordinato con qualifica
dirigenziale) ove il dott. Z. risultava quale Responsabile di stabilimento, e
quindi in posizione sottordinata, quindi di dipendenza gerarchica, rispetto
all’Amministratore unico e in posizione sovraordinata rispetto a tutti gli
altri dipendenti.

7. Il primo ed il terzo motivo di ricorso, che
attengono ai criteri di qualificazione del rapporto di lavoro, sono infondati.

Questa Corte ha ripetutamente affermato che, ai fini
della qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, è
censurabile in sede di legittimità soltanto la determinazione dei criteri
generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce
accertamento di fatto, come tale incensurabile in detta sede, se sorretto da
motivazione adeguata ed immune da vizi logici e giuridici, la valutazione delle
risultanze processuali che hanno indotto il giudice del merito ad includere il
rapporto controverso nell’uno o nell’altro schema contrattuale (cfr. Cass. n. 23455 del 2009; Cass. n. 9808 del 2011; Cass. n. 8306 del 2019).

In ordine alla qualificazione di un rapporto di
lavoro come autonomo o subordinato, con particolare riferimento all’attività di
un dirigente, questa Corte ha costantemente affermato che è necessario
verificare se il lavoratore possa ritenersi assoggettato, anche in forma lieve
o attenuata, alle direttive, agli ordini e ai controlli del datore di lavoro,
nonchè al coordinamento dell’attività lavorativa in funzione dell’assetto
organizzativo aziendale (cfr. Cass. n. 3594 del
2011, Cass. n. 7517 del 2012, Cass. n. 18414 del 2013, Cass. n. 9463 del 2016, Cass. n. 29044 del 2017,
Cass. n. 29761 del 2018, Cass. n. 5178 del 2019), potendosi ricorrere altresì,
in via sussidiaria, a elementi sintomatici della situazione della
subordinazione quali l’inserimento nell’organizzazione aziendale, il vincolo di
orario, l’inerenza al ciclo produttivo, l’intensità della prestazione, la
retribuzione fissa a tempo senza rischio di risultato. In particolare, ai fini
della configurazione del lavoro dirigenziale – nel quale il lavoratore gode di
ampi margini di autonomia ed il potere di direzione del datore di lavoro si
manifesta non in ordini e controlli continui e pervasivi, ma essenzialmente
nell’emanazione di indicazioni generali di carattere programmatico, coerenti
con la natura ampiamente discrezionale dei poteri riferibili al dirigente – il
giudice di merito deve valutare, quale requisito caratterizzante della
prestazione, l’esistenza di una situazione di coordinamento funzionale della
stessa con gli obiettivi dell’organizzazione aziendale, idonea a ricondurre ai
tratti distintivi della subordinazione tecnico-giuridica, anche se nell’ambito
di un contesto caratterizzato dalla c.d. subordinazione attenuata aziendale (Cass. n. 7517 del 2012).

Il requisito della eterodirezione dell’attività,
seppur interpretato con ragionevolezza in riferimento alle prestazioni
intellettuali, è dunque il criterio decisivo per individuare la natura autonoma
o subordinata del lavoro, come d’altronde evidenziato dalla lettera dell’art. 2094 cod.civ.

7.1. La Corte distrettuale si è conformata
all’orientamento giurisprudenziale consolidato avendo rilevato che “In
sostanza, seppure risultano evidenziati alcuni elementi che normalmente
connotano le funzioni di un lavoratore con qualifica dirigenziale, nell’ottica
della c.d. catena discendente, è totalmente assente qualsiasi accenno in ordine
alla catena ascendente, con particolare riferimento ai rapporti con i vertici
della società e alle direttive ricevute dai medesimi”. In assenza, dunque,
di allegazioni (e prove) relative alle modalità di esplicazione del potere
direttivo e di controllo dei vertici della società nei confronti del dott. Z.,
la Corte distrettuale ha correttamente ritenuto infondata la domanda di
accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro, non essendo
emerso alcun profilo che potesse integrare una pur attenuta eterodirezione del
lavoratore ed essendo insufficiente, in quanto neutro, il solo elemento
indiziario dell’inserimento nell’organizzazione 
imprenditoriale (come dimostrato dall’indicazione, nell’organigramma
dell’impresa, di Responsabile di stabilimento del dott. Z.).

7.2. Va rilevato, in ogni caso, che nella
formulazione del profilo di censura riferito all’art.
360 c.p.c., n. 5 (terzo motivo) il ricorrente non considera quanto
espressamente affermato da questa Corte a proposito della novella dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54
conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134) in base
alla quale il vizio di motivazione deve essere interpretato, alla luce dei
canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi,
come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di
legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo
l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge
costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della
motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata,
a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si
esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e
grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto
irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione
perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza
del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. SU n. 8053 e n. 8054 del 2014). Ad opera
della novella legislativa, la ricostruzione del fatto operata dai giudici di
merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi
del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata
essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed
immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente
incomprensibili (Cass. n. 12928 del 2014); deve, inoltre, escludersi la
sindacabilità in sede di legittimità della correttezza logica della motivazione
di idoneità probatoria di una determinata risultanza processuale (quale lo
schema di organigramma aziendale), non avendo più autonoma rilevanza il vizio
di contraddittorietà della motivazione (Cass. n. 16300 del 2014).

8. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile in
quanto, da una parte, la censura mira a contestare la valutazione
interpretativa fornita dalla Corte distrettuale in ordine ai contratti (di
lavoro autonomo, “Accordo di consulenza”) stipulati tra le parti
nell’aprile e nel maggio 2005 senza invocare la violazione di alcun canone di
ermeneutica contrattuale e, dall’altra, non coglie la ratio decidendi
esplicitata dalla sentenza impugnata relativa alla inapplicabilità della
disciplina dettata per i rapporti di lavoro a progetto (artt. 61 e ss. d.lgs. n. 276 del 2003,
ratione temporis) ai contratti di lavoro autonomo.

E’ stato più volte affermato che il giudizio di
cassazione è un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla
pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di
motivi, in quanto la Corte di Cassazione non è mai giudice del fatto in senso
sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione
che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della
causa. Ne consegue che la parte non può limitarsi a censurare la complessiva
valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata,
contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la
revisione degli accertamenti di fatto compiuti (cfr. da ultimo, Cass. n. 6519
del 2019).

9. Il ricorso va, pertanto, rigettato e le spese di
lite sono regolate secondo il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91
cod.proc.civ.

10. Sussistono i presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, previsto dal D.P.R.
30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1,
comma 17 (legge di stabilità 2013), ove dovuto;

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro
200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali oltre spese
generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello
stesso articolo 13, ove dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 febbraio 2020, n. 3640
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