Il trasferimento di un consistente numero di lavoratori, per l’80% iscritti ad un sindacato, costituisce circostanza idonea a far presumere una condotta discriminatoria, gravando il datore di lavoro dell’onere di dimostrare il contrario.
Nota a Cass. 2 gennaio 2020, n. 1
Sonia Gioia
“Nell’ambito del giudizio antidiscriminatorio l’attore ha soltanto l’onere di fornire elementi di fatto, anche di carattere statistico, idonei a far presumere l’esistenza di una discriminazione, ma non è affatto previsto che i dati statistici debbano assurgere ad autonoma fonte di prova; conseguentemente, qualora il dato statistico fornito dal ricorrente indichi una condizione di svantaggio per un gruppo di lavoratori, è onere del datore di lavoro dimostrare che le scelte sono state invece effettuate secondo criteri oggettivi e non discriminatori”. (v. anche art. 8 e considerando 15, Direttiva 2000/78/CE).
Lo ha affermato la Corte di Cassazione (2 gennaio 2020, n. 1) in riforma della pronuncia di merito (App. Napoli n. 6835/14) che aveva ritenuto non discriminatoria la condotta della società datrice di lavoro (F. C. A. Italy s.p.a.) consistita nel trasferimento collettivo – dallo stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco al polo logistico di Nola (distante 20 Km) – di 316 dipendenti, di cui circa l’80% iscritti al sindacato (S. L. A. I. Cobas).
In particolare, la Corte distrettuale aveva ritenuto che il solo dato numerico non fosse sufficiente a provare il carattere discriminatorio e l’antisindacalità della decisione datoriale, in quanto difettava di ogni termine di paragone in riferimento “alla consistenza ed entità dell’intero organico dello stabilimento” ed “alla percentuale di trasferimenti di lavoratori appartenenti ad altre sigle sindacali” e, peraltro, che le ragioni alla base della decisione datoriale corrispondessero “ad una esigenza di comprovata razionalizzazione del processo industriale e di ottimizzazione dell’organizzazione aziendale”, non sindacabile dal giudice di merito.
Al riguardo, considerato che l’appartenenza ad una sigla sindacale può costituire una delle possibili ragioni di condotte discriminatorie vietate “per le condizioni personali” (art. 4, D.LGS. n. 216/2013, attuativo della Direttiva cit.), la Cassazione ha ritenuto applicabile al procedimento in questione il regime probatorio agevolato tipico delle cause di discriminazione, che introduce, non un’inversione dell’onere della prova, ma un’agevolazione in favore del ricorrente, che potrebbe avere difficoltà a dimostrare l’esistenza di atti discriminatori, soprattutto nei casi di coinvolgimento di una pluralità di lavoratori (in merito, v. Cass. n. 23338/2018, in questo sito con nota di A. LARDARO, Licenziamento discriminatorio, onere della prova e nozione di handicap; Cass. n. 25543/2018).
Pertanto, chi lamenta una violazione del principio della parità di trattamento è tenuto a provare circostanze di fatto (relative, ad esempio, alle assunzioni, ai regimi contributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera e ai licenziamenti) “dalle quali possa desumersi per inferenza che la discriminazione abbia avuto luogo, per far scattare l’onere per il datore di lavoro di dimostrare l’insussistenza della discriminazione” (Cass. n. 14206/2013). Il lavoratore deve, cioè, provare il fattore di rischio, ossia il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, nonché una correlazione fra tali elementi che renda plausibile la violazione del principio di parità di trattamento. Di conseguenza, il datore di lavoro dovrà fornire prova di circostanze inequivoche in grado di escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del proprio provvedimento, “in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione” (Cass. n. 14206, cit. Nello stesso senso, CGUE 17 luglio 2008, C- 303/06; CGUE 10 luglio 2008, C-54/07; CGUE 16 luglio 2015, C-83/14).
In attuazione di tali principi, la Corte ha cassato, con rinvio, la sentenza del giudice di merito per non aver tenuto conto, ai fini della prova della discriminazione, del regime probatorio agevolato riconosciuto al sindacato, in virtù del quale il datore è tenuto a fornire la prova dell’inesistenza della condotta lesiva del principio di parità di trattamento laddove il ricorrente abbia fornito elementi di fatto, anche a carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi (determinati, cioè, nella loro realtà storica) e concordanti (ossia fondati su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto) anche se non gravi, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione dell’appartenenza ad una sigla sindacale (c.d. prova semipiena).