Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 febbraio 2020, n. 3747
Tributi, IRAP, Accertamento, Professionisti, Autonoma
organizzazione
Fatti di causa
Rilevato che:
la contribuente, quale “pediatra di
famiglia” e sostenendo di non disporre di una autonoma organizzazione,
impugnava il diniego di rimborso dell’IRAP 2009/2013;
la Commissione Tributaria Provinciale accoglieva il
ricorso; la Commissione Tributaria Regionale accoglieva parzialmente l’appello,
rilevando che la pediatra ha esercitato l’attività professionale in modo
autonomo ma utilizzando beni non ammortizzabili non eccedenti il minimo
indispensabile per l’esercizio della propria attività; tuttavia, per i soli
anni 2011 e 2013, rileva la CTR che la contribuente si è avvalsa di in modo non
occasionale di lavoro altrui che ha superato la soglia dell’impiego di un
collaboratore che svolga mansioni di segreterie o meramente esecutive e in
particolare per il 2011 si evidenziano costi, oltre che per lavoro dipendente,
per collaborazioni professionali attinenti afferenti l’attività professionale
della contribuente e per il 2013 il costo relativo a due lavoratori dipendenti
in relazione a due distinti studi professionali;
la contribuente proponeva ricorso affidato a due
motivi di impugnazione mentre l’Agenzia delle Entrate si costituiva con
controricorso.
Ragioni della decisione
Considerato che con il primo motivo d’impugnazione,
in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1,
n. 3 e n. 5, e dell’art. 345 c.p.c. in
relazione all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n.
3 e n. 5, la contribuente denuncia l’omesso esame circa fatti decisivi per
il giudizio oggetto di discussione fra le parti in quanto sarebbe stata accolta
una nuova domanda non formulata nel primo grado di giudizio;
con il secondo motivo di impugnazione, in relazione
all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 3, la
contribuente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, comma 1
bis e 3 comma 3, comma 1, lett. c) di un testo normativo non precisato, in
quanto la contribuente svolgerebbe la propria attività di pediatra
convenzionata con l’ASL la quale deve garantire l’attività assistenziale tutti
i giorni e per tutto l’arco della giornata e per tali esigenze si è avvalsa di
personale part-time con mansioni di segreteria e di pulizie.
I motivi di impugnazione sono entrambi
inammissibili.
Quanto in particolare al primo motivo, oltre a
essere carente quanto al requisito dell’autosufficienza (Cass. n. 13625 del
2019), esso, pur essendo formalmente unitario, contiene un inestricabile
groviglio di doglianze scarsamente coordinate tra loro e prive dei requisiti
minimi di chiarezza e intelligibilità ed è innanzitutto inammissibile per la
pluralità delle dell’indicazioni dei motivi di ricorso per cassazione, né è
possibile una qualificazione in specifiche fattispecie di cui all’art. 360, comma 1, cod. proc. civ., perché dalla
sua articolazione non è chiaramente individuabile il tipo di vizio denunciato
(Cass. 27 ottobre 2017, n. 25557). In effetti, il giudizio di cassazione è un
giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito
devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la
Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed
esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non
consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa. Ne
consegue che la parte non può limitarsi a censurare la complessiva valutazione
delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata,
contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la
revisione degli accertamenti di fatto compiuti (Cass. 6 marzo 2019, n. 6519).
Sono infatti promiscuamente denunciati violazioni di legge e omesse
considerazioni di fatti decisivi, con il che il motivo è specificamente
inammissibile per mescolanza non scindibile dei vizi (Cass. 10 febbraio 2017,
n. 3554). In effetti, nel ricorso per cassazione, i motivi di impugnazione che
prospettino una pluralità di questioni precedute unitariamente dalla
elencazione delle norme asseritamente violate sono inammissibili in quanto, da
un lato, costituiscono una negazione della regola della chiarezza e,
dall’altro, richiedono un intervento della Corte volto ad enucleare dalla
mescolanza dei motivi le parti concernenti le separate censure (Cass. 14 settembre 2016, n. 18021). E’ stato
altresì affermato, in tema di ricorso per cassazione, che è inammissibile la
mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti
riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art.
360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione
di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della
violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in
relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della
norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende
precisamente rimettere in discussione;
o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza
di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e
l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica
indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe
stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che
richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella
sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro. Infatti,
l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento
delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere
al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente
proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali
disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo,
inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e
contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere
successivamente su di esse (Cass. 23 ottobre 2018, n. 26874).
Quanto in particolare al secondo motivo di ricorso,
esso è specificamente inammissibile per la mancata indicazione del testo
normativo che si assume violato dalla sentenza della CTR, in quanto sono
indicati solo gli articoli ma non anche anno e numero del testo normativo, né
dalla lettura complessiva del motivo di ricorso è possibile ricostruire la
doglianza per violazione di legge, none essendo tali norme mai successivamente
citate.
Entrambi i motivi di ricorso contengono o questioni
di fatto o questioni giuridiche che implicano accertamenti di fatto, ed è stato
affermato da questa Corte: che con il ricorso per cassazione la parte non può
rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la
valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie
operate dai giudici del merito poiché la revisione degli accertamenti di fatto
compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità (Cass. 7 dicembre
2017, n. 29404). Deve inoltre considerarsi che ove una determinata questione
giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in
alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione
in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di
inammissibilità per novità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta
deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del
giudizio precedente vi abbia provveduto, onde dare modo alla Corte di
cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione
prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass.
24 gennaio 2019, n. 2038). Peraltro, in tema di valutazione delle prove, il
principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 cod.
proc. civ., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito,
insindacabile in sede di legittimità (Cass. 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass. 17
gennaio 2019, n. 1229); che, in tema di ricorso per cassazione, il ricorrente
che proponga una determinata questione giuridica – che implichi accertamenti di
fatto – ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per
novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione
o di una determinata circostanza dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il
principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale
atto del giudizio precedente lo abbia fatto ed in quale sede e modo la
circostanza sia stata provata o ritenuta pacifica, onde dar modo alla Corte di
controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di
esaminare nel merito la questione (Cass. 24
gennaio 2019, n. 2038; Cass. 21 novembre 2017, n. 27568); del resto nel
giudizio di cassazione non si possono prospettare nuove questioni di diritto
ovvero nuovi temi di contestazione che implichino indagini ed accertamenti di
fatto non effettuati dal giudice di merito, nemmeno se si tratti di questioni
rilevabili d’ufficio (Cass. 25 ottobre 2017, n. 25319).
Deve altresì aggiungersi che il ricorrente lamenta
la violazione di una serie di norme di cui non si fa menzione nella sentenza
impugnata, ed è inammissibile la doglianza mediante la quale gli argomenti
addotti dal ricorrente, per difetto, come nel caso di specie, di chiarezza e
specificità, non consentano di individuare le norme e i principi di diritto
asseritamente trasgrediti, precludendo la delimitazione delle questioni
sollevate (Cass. 20 settembre 2017, n. 21819), dato che il vizio della sentenza
previsto dall’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc.
civ. (quand’anche per ipotesi lo si ritenesse specificamente contestato),
dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione
dell’art. 366, n. 4, cod. proc. civ., non solo
con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto,
mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a
motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto
contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le
indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle
stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla
corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il
fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi, formulata in maniera
non idonea la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola
preliminare indicazione delle singole norme che si assumono violate, ma non
dimostrati per mezzo di una critica delle soluzioni adottate dal giudice del
merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata
mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione
comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la
mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione
della sentenza impugnata (Cass. 29 novembre 2016, n. 24298). Peraltro, il vizio
di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da
parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una
norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della
stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a
mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione
della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta
al sindacato di legittimità (Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155), ed è
inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una
violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti
operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia
trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo
grado di merito (Cass. 4 aprile 2017, n. 8758).
A tal proposito ha affermato la Cassazione in tema
di accertamento dei fatti storici allegati dalle parti, che i vizi deducibili
con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art.
360, comma 1, nn. 4 o 5 (e tanto meno attraverso denuncia del n. 3) cod.
proc. civ., non possono riguardare apprezzamenti di fatto difformi da quelli
propugnati da una delle parti, poiché, a norma dell’art.
116 cod. proc. civ., rientra nel potere discrezionale – come tale
insindacabile – del giudice di merito individuare le fonti del proprio
convincimento, apprezzare le prove, controllarne l’attendibilità e la
concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a
dimostrare i fatti in discussione. Tale operazione, che suppone un accesso
diretto agli atti e una loro delibazione, non è consentita davanti alla
Cassazione (Cass. 18 gennaio 2018, n. 1118; Cass. 27 luglio 2017, n. 18665).
In effetti tutte le censure, nel contestare il principio
di diritto applicato dalla CTR nel caso di specie (Cass.
SU n. 9451 del 2016) si risolvono, in sostanza, nella sollecitazione ad
effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto, così mostrando il
ricorrente di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di
legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale
ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora
gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo
censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri
desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei
fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di
legittimità (Cass. n. 5939 del 2018). Ma, come questa Corte ha più volte
sottolineato, compito della Cassazione non è quello di condividere o non
condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, né
quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento
della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a
quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo
invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato
conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da
esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia
mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie
è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 21705 del 2019).
Ritenuto dunque che il ricorso va dichiarato
inammissibile e che la condanna alle spese segue la soccombenza.
P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese
processuali, che liquida in euro 3.000, oltre a spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento,
da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.