Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 febbraio 2020, n. 3627
Rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato
– Accertamento, Mansioni di badante, Licenziamento
Rilevato
che la Corte di Appello di Ancona, con sentenza
pubblicata in data 8.11.2016, ha respinto il gravame interposto da D.F., nei
confronti di R.I., avverso la sentenza n. 282/2015 del Tribunale di Ascoli
Piceno, depositata il 7.8.2015, che aveva rigettato la domanda della
lavoratrice, diretta ad ottenere l’accertamento di un rapporto di lavoro
subordinato a tempo pieno ed indeterminato tra le parti, con decorrenza
dall’1.4.2012 al 28.2.2013, con mansioni di badante, prima categoria B, in
luogo della C super, secondo il CCNL del settore badanti e colf; l’accertamento
della illegittimità del licenziamento alla stessa intimato il 7.2.2013, con
condanna del datore di lavoro al pagamento di una indennità pari a sei
mensilità della retribuzione globale di fatto commisurata a mille euro mensili,
nonché la condanna della parte datoriale alla corresponsione della somma di
euro 16.496,00, a titolo di differenze retributive inerenti all’attività
lavorativa prestata e della somma di euro 15.576,00 per il lavoro
straordinario, festivo e notturno, oltre al TFR ed agli accessori, come per
legge; che per la cassazione della sentenza ricorre D.F. sulla base di due
motivi contenenti più censure, cui resiste con controricorso R.I.;
Considerato
che, con il ricorso, si censura: 1) in riferimento
all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la
violazione e falsa applicazione degli artt. 1321,
2096, 2099, 2697 c.c., nonché, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., la
<<connessa e/o contraddittoria motivazione circa il punto decisivo della
controversia>> e si lamenta che la Corte di merito abbia ritenuto
infondate le domande, <<perché non si è formata la prova (testimoniale)
del fatto costitutivo del diritto oggetto di tali domande>> e che
<<non>> avrebbe <<valutato l’attendibilità dei testimoni di
parte ricorrente, preferendo le dichiarazioni rese da quelli di controparte
che, al contrario, erano assolutamente inattendibili stante il rapporto di
parentela con il resistente>>; ed altresì che, <<sul punto>>,
i giudici di seconda istanza non avrebbero fornito alcuna motivazione a
supporto della decisione, omettendo di esaminare compiutamente le prove
testimoniali; dalla qual cosa, sarebbe derivato, appunto, il vizio di
motivazione sotto il profilo della insufficienza e contraddittorietà della
medesima; 2) in riferimento all’art. 360, primo
comma, n. 3, c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 2702 c.c., in relazione agli artt. 214 e 216 c.p.c.,
nonché, in riferimento all’art. 360, primo comma,
n. 5, c.p.c., per <<contraddittoria motivazione circa il punto
decisivo della controversia>>, perché i giudici di secondo grado non
avrebbero tenuto nel debito conto la circostanza che la lavoratrice, <<in
occasione della prima udienza di comparizione, disconosceva la sottoscrizione a
lei imputata e presente nelle buste paga depositate in atti dal resistente, con
riserva di esaminare gli originali>> e, <<senza disporre la
procedura di verificazione, ritualmente richiesta dalla ricorrente>>,
avrebbero erroneamente ritenuto probanti le buste paga sottoscritte dalla
stessa, ed in parte disconosciute, sulla base delle dichiarazioni testimoniali
assunte; che il primo motivo – che, nella sostanza, tende ad ottenere una nuova
valutazione del merito, in questa sede non consentito – è inammissibile sotto
diversi e concorrenti profili: relativamente alla censura che attiene alla
<<violazione di legge>>, perché la parte ricorrente non ha indicato
sotto quale profilo le norme menzionate sarebbero state violate, in spregio
alla prescrizione di specificità dell’art. 366,
primo comma, n. 4, c.p.c., che esige che il vizio della sentenza previsto
dall’art. 360, primo comma, n. 3, del codice di
rito, debba essere dedotto, a pena di inammissibilità, mediante la puntuale
indicazione delle disposizioni asseritamente violate ed altresì con specifiche
argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate
affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in
contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie o con
l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di
legittimità (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015;
Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009); pertanto, le doglianze mosse al procedimento
di sussunzione operato dai giudici di seconda istanza si risolvono in
considerazioni di fatto del tutto inammissibili e sfornite di qualsiasi
delibazione probatoria (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011); che,
Inoltre, nel corso dello stesso motivo, si fa riferimento alle buste paga, in
parte disconosciute, che non sono state prodotte e neppure indicate nell’elenco
dei documenti offerti in comunicazione elencati nel ricorso per cassazione, in
violazione (art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c.)
del principio, più volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere
della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si
riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare
ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito
della questione (Cass. n. 14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti,
contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si
chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione
della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti
esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado
di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass.
nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013).
Pertanto, questa Corte non è stata messa in grado di poter apprezzare la
veridicità della doglianza svolta dalla ricorrente;
che il compito di valutare le prove e di
controllarne l’attendibilità e la concludenza spetta in via esclusiva al
giudice di merito; per la qualcosa, <<la deduzione con il ricorso per
cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata, per omessa,
errata o insufficiente valutazione delle prove>> (come, nella sostanza, è
avvenuto nella fattispecie: v., in particolare pag. 6 del ricorso, laddove si
lamenta il <<vizio di motivazione, sotto il profilo dell’omissione,
insufficienza e contraddittorietà della medesima>> in ordine alla
valutazione delle risultanze probatorie) <<non conferisce al giudice di
legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale
sottoposta al suo vaglio, bensì solo la facoltà di controllo, sotto il profilo
della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle
argomentazioni svolte dal giudice di merito>> (cfr., ex multis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 14541/2014
citt.; Cass. n. 2056/2011); e, nella fattispecie, la Corte distrettuale è
pervenuta alla decisione impugnata attraverso un percorso motivazionale
condivisibile e scevro da vizi logico-giuridici circa la valutazione degli
elementi delibatori posti a base della stessa, mentre le censure sollevate, al
riguardo, dalla lavoratrice appaiono, all’evidenza, finalizzate ad una nuova
valutazione degli elementi di fatto, attraverso la mera contestazione della
valutazione dei predetti elementi;
che, infine, per quanto, più in particolare, attiene
alla seconda censura, ne va rilevata la inammissibilità per la formulazione non
più consona con le modifiche introdotte al n. 5 del primo comma dell’art. 360 c.p.c. dall’art. 54, comma 1, lett. b), del D.L.
22/6/2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge 7/8/2012, n. 134, applicabile, ratione
temporis, al caso di specie poiché la sentenza oggetto del giudizio di
legittimità è stata pubblicata, come riferito in narrativa, in data 8.11.2016;
che le considerazioni da ultimo svolte circa la seconda censura del primo
motivo valgono anche per la seconda censura del secondo motivo, il quale,
peraltro, è infondato quanto alla prima censura, avendo i giudici di secondo
grado deciso conformemente all’indirizzo giurisprudenziale di questa Suprema
Corte, condiviso dal Collegio che non ha ravvisato ragioni per discostarsene.
Ed invero (cfr., tra le altre, Cass. n. 15686/2015), <<Nel procedimento
di verificazione della scrittura privata, il giudice di merito, ancorché abbia
disposto una consulenza grafica, ha il potere-dovere di formare il proprio
convincimento sulla base di ogni elemento istruttorio obiettivamente
conferente, comprese le risultanze della prova testimoniale e la valutazione
del complessivo comportamento tenuto dalla parte cui la sottoscrizione sia
attribuita, senza essere vincolato ad alcuna graduatoria fra le varie fonti di
accertamento della verità. Invero, la consulenza tecnica sull’autografia di una
scrittura privata disconosciuta, da un lato, non costituisce un mezzo
imprescindibile per la verifica dell’autenticità della sottoscrizione, come si
desume dalla formulazione dell’art. 217 c.p.c.,
mentre, dall’altro, non è suscettibile di conclusioni obiettivamente certe,
tenuto conto del carattere irripetibile della forma della scrittura
umana>>. Ed al riguardo, i giudici di seconda istanza hanno
condivisibilmente ritenuto, tenuto conto del quadro probatorio formatosi
all’esito dell’istruttoria espletata, che le sottoscrizioni delle buste paga da
parte della lavoratrice avessero il valore sostanziale di quietanze del pagamento
degli importi indicati nelle stesse (cfr., in particolare, pag. 7 della
sentenza impugnata);
che per tutto quanto in precedenza esposto, il
ricorso va respinto;
che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono
la soccombenza;
che non sussistono, allo stato, i presupposti di cui
all’art. 13, comma 1-quater, del
d.P.R. n. 115 del 2002
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 3.700,00,
di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed
accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della non sussistenza, allo stato, dei presupposti
per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo
di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso articolo 13.