Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 febbraio 2020, n. 4097

Differenze retributive, Mansioni, Inquadramento, CCNL Abbigliamento-Piccola Industria

Rilevato

 

che la Corte di Appello di Bari, con sentenza
pubblicata in data 19.12.2016, ha accolto parzialmente il gravame interposto
dalla ditta P.R. di P.R. & C. S.a.s., nei confronti di A.B., avverso la
pronunzia del Tribunale di Trani che aveva integralmente accolto la domanda del
lavoratore, diretta ad ottenere la condanna della parte datrice al pagamento
della somma complessiva di Euro 27.839,46 a titolo di differenze retributive
per il lavoro svolto dall’1.8.2003 al 31.3.2006, presso la ditta del P., con
mansioni di magliaio di III livello del CCNL
Abbigliamento-Piccola Industria, nonché per il lavoro straordinario, la 13°
mensilità, le festività, le ferie non godute ed il TFR;

che la Corte di Appello, in parziale riforma della
sentenza impugnata, ha condannato la ditta appellante al versamento, in favore
dell’A. della somma di Euro 19.826,13, oltre accessori, come per legge,
reputando che la somma richiesta a titolo di lavoro straordinario (Euro
7.977,33) fosse sfornita di prova;

che per la cassazione della sentenza ricorre la
ditta P.R. di P.R. & C. S.a.s. sulla base di due motivi, cui resiste con
controricorso A.B.;

che è stata comunicata una memoria, priva di data,
nell’interesse della ditta;

che il P.G. non ha formulato richieste

 

Considerato

 

che, con il ricorso, si censura: 1) la
<<violazione dell’art. 360 c.p.c. n. 3 e
n. 5>> e si lamenta che, erroneamente, i giudici di merito avrebbero
ritenuto attendibili le dichiarazioni dei testi escussi, relativamente al
periodo ed agli orari indicati dal lavoratore, senza tenere conto del fatto che
i detti testi, in particolare, R.P. e D.M., sarebbero caduti in contraddizione
in ordine alle predette circostanze; si deduce, inoltre, che il CCNL di categoria (Abbigliamento-Piccola Industria)
sarebbe stato erroneamente applicato, non avendo la ditta datrice di lavoro mai
aderito a forme associative di categoria; 2) la <<violazione dell’art. 366 bis c.p.c.>>, perché nei gradi di
merito non è stata mai disposta una c.t.u. per stabilire l’ammontare effettivo
delle somme spettanti al dipendente; nel corpo del motivo, si censura, inoltre,
la violazione degli <<artt. 183, 414 n. 5, 416 3° comma,
420, 5° comma, 320,
3° comma c.p.c.; violazioni in relazione alle quali si ritiene superato
anche il contenuto ex art. 157 2° comma c.p.c.
per le nullità riguardanti la prova testimoniale>>, per non avere i
giudici di merito disposto una c.t.u. per determinare gli importi e per non
avere ammesso la testimonianza del P.; ed infine <<la violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c.>>, per non avere i
giudici di merito espresso una valutazione adeguata in merito all’attendibilità
dei testi;

che il primo motivo è inammissibile sotto diversi e
concorrenti profili; innanzitutto, infatti, la parte ricorrente non ha indicato
analiticamente quali norme, e sotto quale profilo, sarebbero state violate, in
spregio alla prescrizione di specificità dell’art.
366, primo comma, n. 4, c.p.c., che esige che il vizio della sentenza previsto
dall’art. 360, primo comma, n. 3, del codice di
rito, debba essere dedotto, a pena di inammissibilità, mediante la puntuale
indicazione delle disposizioni asseritamente violate ed altresì con specifiche
argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate
affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in
contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie o con
l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di
legittimità (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015;
Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009); inoltre, nel corso dello stesso motivo, si
deduce che l’ammontare delle somme riconosciute dalla Corte distrettuale sarebbe
stato errato, in quanto parametrate al CCNL
Abbigliamento-Piccola Industria, non applicabile alla fattispecie, non
avendo la ditta datrice di lavoro mai aderito a forme associative di categoria;
al riguardo (v. pag. 5 della sentenza impugnata), i giudici di seconda istanza
hanno condivisibilmente affermato che <<l’applicabilità diretta, per
adesione di fatto, del CCNL, è comprovata dalla
busta paga agli atti, redatta conformemente alle previsioni del CCNL (con indicazioni del livello di inquadramento
e delle voci tipicamente contrattuali, come scatti, EDR, festività
ecc.)>> ed altresì, che <<In merito alle voci, va considerato che
con la memoria di costituzione in giudizio, non sono stati specificamente
contestati i fatti costitutivi delle varie pretese (mancata fruizione dei
permessi e delle ferie, prestazione di lavoro festivo) sicché gli stessi devono
ritenersi provati ex art. 416, comma 3, c.p.c.>>;

che, peraltro, nel ricorso in sede di legittimità,
tale ultima affermazione dei giudici di Appello non è neppure stata oggetto di
censura, né sono stati prodotti gli atti, dai quali, eventualmente, potesse
evincersi che la contestazione era stata sollevata nei gradi di merito; infine,
il CCNL di cui si tratta non è stato prodotto,
né trascritto, in violazione del principio, più volte ribadito da questa Corte
(v. combinato disposto degli artt. 366, primo
comma, n. 6, c.p.c. e 369 c.p.c.), che
definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico
atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di
legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni
prima di esaminare il merito della questione (Cass. n. 14541/2014). Il ricorso
per cassazione deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a
costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito
ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia
necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti
concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013). Per
la qual cosa, questa Corte non è stata messa in grado di poter apprezzare la
veridicità delle doglianze svolte dalla parte ricorrente e, dunque, le censure
mosse al procedimento di sussunzione operato dai giudici di seconda istanza si
risolvono in considerazioni di fatto del tutto inammissibili e sfornite di
qualsiasi delibazione probatoria (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011);

che, infine, anche prescindendo dalla genericità
delle contestazioni formulate in merito alla valutazione delle emersioni
probatorie operata dalla Corte di Appello, peraltro prive di riferimenti ad
alcuna documentazione a sostegno delle deduzioni formulate e senza che venga
focalizzato il momento di conflitto, rispetto ad esse, dell’accertamento
concreto operato dalla Corte di merito all’esito delle risultanze istruttorie
(cfr., ex plurimis, Cass. n. 24374 del 2015; Cass.
n. 80 del 2011), il motivo tende, all’evidenza, ad una nuova valutazione
delle prove – in particolare delle dichiarazioni di alcuni testi, peraltro,
neppure trascritte -, pacificamente estranea al giudizio di legittimità (cfr.,
ex plurimis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass.
n. 14541/2014); che il secondo motivo è pure inammissibile relativamente alla
dedotta violazione dell’art. 366-bis del codice
di rito, in quanto, innanzitutto inconferente rispetto alla lamentata non
ammissione di una c.t.u., da parte dei giudici di merito; inoltre, tale norma –
(che atteneva alla <<Formulazione dei quesiti>> di diritto),
inserita dall’art. 6 del D. Lg.vo 2 febbraio 2006,
n. 40, è stata abrogata dall’art.
47, comma 1, lett. d), della legge 18 giugno 2009, n. 69. Ai sensi dell’art. 58, comma 5, della medesima
legge “Le disposizioni di cui all’art. 47 si applicano alle
controversie nelle quali il provvedimento impugnato con il ricorso per
Cassazione è stato pubblicato ovvero, nei casi in cui non sia prevista la
pubblicazione, depositato successivamente alla data di entrata in vigore della
presente legge” – non avrebbe potuto essere applicata nella fattispecie,
perché, come riferito in narrativa, la sentenza oggetto del presente giudizio è
stata pubblicata il 19.12.2016;

che, per quanto poi attiene alla pretesa violazione
dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., come
sottolineato dalle Sezioni Unite di questa Corte (con la sentenza n. 8053 del 2014), per effetto della
riforma del 2012, per un verso, è denunciarle in Cassazione solo l’anomalia
motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente
rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il
vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto
con le risultanze processuali (tale anomalia si esaurisce nella
<<mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e
grafico>>, nella <<motivazione apparente>>, nel <<contrasto
irriducibile tra affermazioni inconciliabili>> e nella
<<motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile>>,
esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di <<sufficienza>>
della motivazione); per l’altro verso, è stato introdotto nell’ordinamento un
vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un
fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo
della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di
discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se
esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Orbene,
poiché la sentenza oggetto del giudizio di legittimità è stata depositata, come
riferito in narrativa, in data 19.2.2016, nella fattispecie si applica, ratione
temporis, il nuovo testo dell’art. 360, comma
1, n. 5), come sostituito dall’art.
54, comma 1, lettera b), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83,
convertito, con modificazioni, nella legge 7
agosto 2012, n. 134, a norma del quale la sentenza può essere impugnata con
ricorso per cassazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio
che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ma nel caso in esame, il
motivo di ricorso che denuncia il vizio motivazionale non indica il fatto
storico (Cass. n. 21152 del 2014), con carattere di decisività, che sarebbe
stato oggetto di discussione tra le parti e che la Corte di Appello avrebbe
omesso di esaminare; né, tanto meno, fa riferimento, alla stregua della
pronunzia delle Sezioni Unite, ad un vizio della sentenza <<così radicale
da comportare>> in linea con <<quanto previsto dall’art. 132, n. 4, c.p.c., la nullità della sentenza
per mancanza di motivazione>>. E, dunque, non potendosi più censurare,
dopo la riforma del 2012, la motivazione relativamente al parametro della
sufficienza, rimane il controllo di legittimità sulla esistenza e sulla
coerenza del percorso motivazionale dei giudici di merito (cfr., tra le molte, Cass. n. 25229 del 2015), che, nella specie, è
stato condotto dalla Corte territoriale con argomentazioni logico-giuridiche
del tutto congrue poste a fondamento della decisione impugnata;

che, in ordine alle altre censure sollevate, il
motivo non è fondato, in quanto, relativamente ai conteggi – lo si ribadisce -,
i giudici di seconda istanza hanno sottolineato (v. ancora pag. 5 della
sentenza impugnata) che, mancando qualsiasi contestazione dei medesimi nei
gradi di merito, deve reputarsi che il quantum sia rimasto delibato, con
riferimento a tutte le voci per le quali sia stata fondatamente e
condivisibilmente raggiunta la prova, visto che l’art.
416 c.p.c., di cui si censura la violazione, impone al convenuto di
prendere posizione in maniera precisa e non limitata ad una generica
contestazione dei fatti posti dall’attore a fondamento della propria pretesa
(cfr., ex plurimis, Cass. n. 2832/2016);
correttamente, inoltre, i giudici di merito hanno reputato che il P., essendo
il titolare della omonima ditta e, quindi, parte nel giudizio, potesse rendere
l’interrogatorio libero e l’interrogatorio formale, ma non potesse essere
considerato un testimone;

che per tutto quanto in precedenza esposto, il
ricorso va rigettato;

che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono
la soccombenza;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla
data di proposizione del ricorso sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.200,00,
di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed
accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento,
da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello
stesso articolo 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 febbraio 2020, n. 4097
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