Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 19 febbraio 2020, n. 4199

Natura di ” impresa industriale”, Sgravi
contributivi, Diritto alla fruizione, Inps, Ulteriore indebito oggettivo

Rilevato che

 

Il Tribunale di Salerno in funzione di giudice del
lavoro riconobbe il diritto di I. s.p.a ( già I. soc. coop. a.r.I.) alla
fruizione degli sgravi contributivi di cui agli artt. 18 della L. n. 1089 del
1968 e della L. n. 589 del 1971, art. 1
essendo stata accertata in capo alla società la natura di ” impresa
industriale” e dando atto che non era più in discussione se i centri di
riabilitazione senza ricovero – come la ricorrente – fossero da ricomprendere
tra i soggetti cui spettavano gli sgravi previsti per le imprese che operavano
nel Mezzogiorno, tanto che l’INPS aveva erogato, in due parti, un importo pari
a complessivi Euro 1.865.248,86, che l’istante aveva imputato prima agli
interessi e poi al capitale;

il punto ancora controverso riguardava l’esistenza o
meno di un ulteriore indebito oggettivo, anche alla luce della diversa
imputazione che le parti avevano effettuato, nonché della decorrenza degli
eventuali interessi;

il Tribunale, espletata c.t.u. contabile, riteneva
applicabili le norme generali di imputazione, prima agli interessi e poi alla
sorta capitale, decorrendo gli ulteriori interessi su quest’ultima dal 91°
giorno dalla scadenza di ciascun credito, con la maggiorazione prevista ex lege
dal 181° giorno;

proponeva appello l’INPS e la Corte di Appello di
Salerno, riformando la sentenza di primo grado, condannava l’INPS a pagare gli
interessi legali sul capitale dalla data della domanda amministrativa
(13.3.1997), osservando che, trattandosi di indebito oggettivo, gli interessi
decorrono dal giorno del pagamento, se il creditore è in mala fede, oppure dal
giorno della domanda, se egli è in buona fede; nella specie, la questione
relativa al diritto alla fruizione degli sgravi era stata risolta solo dopo un
lungo iter giudiziale che di per sé dimostrava la buona fede dell’Istituto nel
ricevere la contribuzione per intero, di conseguenza il diritto della società a
percepire gli interessi legali doveva farsi decorrere dalla data di deposito
della domanda amministrativa ( 13.3.1997) e non certo dalla data di insorgenza
del credito giacché la buona fede al momento del pagamento era presunta e la
società non aveva superato tale presunzione; la Corte territoriale disattendeva
l’ulteriore motivo d’appello con il quale l’Inps aveva criticato la sentenza di
primo grado in quanto aveva riconosciuto alla società anche la somma di euro
833.067,21 a titolo di interessi ex art. 1, comma 5, I. n. 33 del 1980,
posto che si trattava di una questione nuova, non avendo l’INPS contestato, in
primo grado, l’applicabilità della citata disposizione; avverso tale sentenza
I. s.p.a. ricorre per cassazione deducendo due motivi;

Resiste con controricorso l’INPS.

 

Considerato che

 

con il primo motivo del ricorso, la ricorrente
deduce violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art.2033 cod.civ. in relazione alla legge n. 33 del 1980, nonché omessa, insufficiente
e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia; in
particolare, sostiene di aver superato la presunzione di buona fede circa
l’incameramento delle somme da parte dell’INPS, come si poteva evincere dal
contenuto del messaggio n. 22805 del 28 marzo 1986 della Direzione dell’INPS,
che dimostrava, nel caso specifico dei centri di riabilitazione, che gli stessi
andavano inquadrati nel settore industria;

con il secondo motivo di ricorso, si deduce la
violazione e o falsa applicazione del messaggio INPS n. 2805 del 22 marzo 1986
e della circolare n. 210/1994 in relazione agli
artt. 1362 e ss. c.c. e 2033 e ss. c.c. , in ragione del fatto che la
sentenza impugnata avrebbe omesso di fare applicazione del principio di diritto
riveniente dagli atti sopra indicati, secondo il quale i centri di
riabilitazione devono essere considerate aziende industriali ex art. 2195 e, quindi, ricomprese tra le imprese
aventi diritto a fruire degli sgravi in discussione sin dal 1986 e o dal 1994;

i motivi, da trattarsi congiuntamente in quanto
connessi, sono inammissibili;

la ricorrente osserva che le regole in tema di
ripetizione di indebito e di decorrenza degli interessi sono quelle esattamente
esposte nella sentenza di appello, ma che il giudice di merito avrebbe
erroneamente accertato che l’INPS non può essere ritenuto in mala fede solo
perché la società ha contestato in giudizio il diniego opposto dall’Istituto
alla fruizione degli sgravi contributivi; di contro, dimostrebbero la malafede
gli stessi atti interni ( messaggio INPS n. 2805 del 22 marzo 1986 e circolare n. 210/1994) di riconoscimento della
natura industriale dei centri di riabilitazione;

in sostanza, si prospetta come violazione di legge (artt. 2033 c.c. in relazione al contenuto di
circolari ed atti interni dell’INPS) il frutto di un mero apprezzamento
effettuato dalla Corte territoriale al fine di valutare se, in concreto,
potesse dirsi superata la presunzione di buona fede dell’INPS al momento in cui
ricevette il pagamento della contribuzione, poi rivelatasi indebita;

la parte ricorrente non contesta l’interpretazione
dell’art. 2033 c.c. accolta dalla sentenza
impugnata che ha, in effetti, fatto corretta applicazione dell’insegnamento
espresso da questa Corte di cassazione (Cass. n. 23543 del 2016) secondo il
quale, in materia di indebito oggettivo, la buona fede
dell'”accipiens”, rilevante ai fini della decorrenza degli interessi
dal giorno della domanda, va intesa in senso soggettivo, quale ignoranza
dell’effettiva situazione giuridica, derivante da un errore di fatto o di
diritto, anche dipendente da colpa grave, non trovando applicazione l’art. 1147, comma 2, c.c., relativo alla buona fede
nel possesso, sicché, essendo essa presunta per principio generale, grava sul
“solvens”, che intenda conseguire gli interessi dal giorno del
pagamento, l’onere di dimostrare la malafede “dell’accipiens” all’atto
della ricezione della somma non dovuta, quale consapevolezza della insussistenza
di un suo diritto a conseguirla;

la verifica circa la sussistenza di tali condizioni
impone un accertamento di fatto, riservato, come tale, al giudice del merito,
il cui apprezzamento è incensurabile in sede di legittimità se scevro da vizi
di illogicità della motivazione;

questa Corte di legittimità, peraltro, ha avuto modo
di precisare (Cass. n. 23851 del 2019; Cass.
n. 10320 del 2018; Cass. n. 640 del 2019; Cass. n. 24155 del 2017) che in tema
di ricorso per cassazione, il vizio di cui all’art.
360, comma 1, n. 3, c.p.c., ricomprende tanto quello di violazione di
legge, ossia l’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato,
della fattispecie astratta recata da una previsione normativa, implicante un
problema interpretativo della stessa, quanto quello di falsa applicazione della
legge, consistente nella sussunzione della fattispecie concreta in una
qualificazione giuridica che non le si addice, perché la fattispecie astratta
da essa prevista non è idonea a regolarla, oppure nel trarre dalla norma, in
relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che ne
contraddicono la pur corretta interpretazione;

non rientra, invece, nell’ambito applicativo dell’art. 360, comma 1, n. 3), l’allegazione di
un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di
causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce
alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di
legittimità; deve osservarsi che l’esclusione della malafede in capo all’INPS,
in ragione della complessa attività processuale che aveva preceduto il
definitivo accertamento del diritto allo sgravio, costituisce apprezzamento in
fatto, sorretto da motivazione adeguata e coerente, tale da non essere soggetta
a censura in sede di legittimità; il ricorso, articolato su due motivi riferiti
a violazioni di legge ma, nella sostanza, orientati ad ottenere una diversa e
favorevole valutazione delle concrete circostanze dedotte in causa, al fine di
provare la malafede dell’Inps, è, dunque, inammissibile;

le spese seguono la soccombenza nella misura
liquidata in dispositivo;

 

P.Q.M.

 

dichiara inammissibile il ricorso; condanna la ricorrente
al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro
4000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese forfetarie nella
misura del 15% e spese accessorie di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater, sussistono i presupposti processuali per il versamento, a
carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo
unificato, pari a quello previsto per il ricorso ex art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

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