Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 febbraio 2020, n. 4392

INAIL, Differenze retributive maturate e non corrisposte,
Inquadramento lavoratore, Profilo di ricercatore

Rilevato che

 

1. la Corte d’Appello di Roma in parziale riforma
della sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva accolto solo in minima
parte il ricorso proposto da F. R. nei confronti dell’INAIL, ha condannato
l’istituto al pagamento della complessiva somma di euro 47.962,89, pari alle
differenze retributive maturate e non corrisposte per il periodo 1° agosto
1997/30 settembre 2002, dovute a seguito della delibera del 1° agosto 2002 con
la quale l’ISPEL, cui era succeduto l’INAIL a seguito di soppressione disposta
dal d.l. n. 78/2010, aveva inquadrato
l’appellante nella II fascia, profilo di ricercatore, con decorrenza dal 1°
luglio 1989;

2. la Corte territoriale, ritenuta la giurisdizione
del giudice ordinario anche in relazione ai crediti sorti nel periodo
antecedente al 30 giugno 1998, ha evidenziato che il Tribunale, con statuizione
non espressamente censurata, aveva ritenuto che il dipendente avrebbe potuto
agire per far riconoscere il suo diritto all’inquadramento superiore a
prescindere dal provvedimento adottato dal datore di lavoro e pertanto tale
statuizione, coperta da giudicato interno, escludeva che potesse essere
considerato quale dies a quo, ai fini della decorrenza della prescrizione, la
data del decreto direttoriale;

3. la Corte romana ha, però, aggiunto che aveva
errato il giudice di prime cure nell’escludere la rilevanza ricognitiva del
richiamato decreto emesso il 1° agosto 2002, perché l’atto riconosceva la
sussistenza del debito dell’Istituto derivante dall’inquadramento superiore
disposto ed indicava, nelle tabelle allegate al provvedimento, i criteri per la
quantificazione dello stesso;

4. sulla base delle richiamate argomentazioni il
giudice d’appello ha ritenuto prescritti solo i crediti maturati sino al 31
luglio 1997 ed ha condannato l’istituto al pagamento dell’importo sopra
indicato;

5. per la cassazione della sentenza ha proposto
ricorso F. R. sulla base di un unico motivo, al quale l’Inail ha resistito con
tempestivo controricorso;

6. entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 380 bis 1 cod. proc. civ..

 

Considerato che

 

1. il ricorrente denuncia con un unico motivo,
articolato in più punti e formulato ai sensi dell’art.
360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ., «violazione e falsa applicazione di norme di
diritto sulla prescrizione dei crediti azionati … omesso esame circa un fatto
decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti» e
censura il capo della sentenza impugnata che ha ritenuto prescritti i crediti
maturati sino al 31 luglio 1997 rilevando, innanzitutto, che ha errato la Corte
territoriale nell’affermare che il lavoratore avrebbe potuto agire in giudizio
a prescindere dall’emanazione del provvedimento dell’agosto 2002, perché, al
contrario, il diritto all’inquadramento superiore non poteva essere fatto
valere prima della valutazione comparativa avvenuta ad opera della commissione
solo nel dicembre del 2001;

1.1. rileva al riguardo che, contrariamente a quanto
asserito dalla Corte, il capo della sentenza del Tribunale relativo alla
decorrenza della prescrizione era stato oggetto di specifica censura ed insiste
nel sostenere che il diritto di credito era scaturito dal decreto direttoriale,
al quale doveva essere riconosciuto «carattere costitutivo, personale, unico ed
infrazionabile»;

1.2. aggiunge che nell’atto d’appello era stata
contestata l’interpretazione data dal Tribunale al decreto direttoriale del 1°
agosto 2002 e si era sostenuto che lo stesso costituiva riconoscimento di
debito, con la conseguenza che la prescrizione maturava solo il 31 luglio 2007
e, quindi, era stata validamente interrotta con la diffida del 16 maggio 2007;

1.3. infine addebita al giudice di appello di non
avere considerato che le spettanze retributive erano state richieste dal
dipendente in epoca antecedente all’emanazione del decreto ed infatti lo stesso
istituto aveva riconosciuto che il R. aveva presentato domanda per
l’inquadramento nel profilo di ricercatore ed aveva anche proposto ricorso al
Tribunale amministrativo;

2. il ricorso è inammissibile in tutte le sue
articolazioni, innanzitutto perché formulato senza il necessario rispetto degli
oneri di specificazione e di allegazione imposti dagli artt. 366 n. 6 e 369
n. 4 cod. proc. civ.;

3. è noto che nel giudizio di cassazione, a critica
vincolata ed essenzialmente basato su atti scritti, essendo ormai solo
eventuale la possibilità di illustrazione orale delle difese, i requisiti
imposti dall’art. 366 cod. proc. civ.
perseguono la finalità di consentire al giudice di legittimità di avere la
completa cognizione della controversia, senza necessità di accedere a fonti
esterne, e pertanto, qualora la censura si fondi su atti o documenti, è necessario
che di quegli atti il ricorrente riporti il contenuto precisando, inoltre, in
quale sede e con quali modalità gli stessi sono stati acquisiti al processo;

3.1. è poi richiesto alla parte di assolvere al
distinto onere previsto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 n. 4 cod. proc. civ., perché l’art. 366 cod. proc. civ., come modificato dall’art. 5 del d.lgs. n. 40 del 2006,
riguarda le condizioni di ammissibilità del ricorso, mentre la produzione è
finalizzata a permettere l’agevole reperibilità del documento, sempre che lo
stesso sia stato specificamente indicato nell’impugnazione (sulla non
sovrapponibilità dei due requisiti cfr. fra le tante Cass. 28.9.2016 n. 19048);

3.2. nel caso di specie il motivo, nelle sue diverse
articolazioni, è incentrato sul decreto direttoriale del 1° agosto 2002 ma il
ricorrente non riporta il contenuto dell’atto e non fornisce indicazioni in
merito alla sua allocazione nel fascicolo di parte, né produce il documento in
questa sede;

4.  si deve
poi aggiungere che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ. deve
essere dedotto, a pena d’inammissibilità ex art.
366, n. 4, cod. proc. civ., «non solo con l’indicazione delle norme che si
assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni
intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo
determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano
ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o
con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità,
diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito
istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione» ( Cass.
n. 24298/2016);

4.1. pertanto non soddisfa il requisito richiesto
dall’art. 366 n. 4 cod. proc. civ., da
intendersi nei termini sopra indicati, la generica censura di «violazione e
falsa applicazione di norme di diritto sulla prescrizione dei crediti
azionati», perché, non solo nella rubrica ma anche nell’illustrazione del
motivo, il ricorrente non individua le norme rilevanti nella fattispecie, non
indica le ragioni giuridiche per le quali la disciplina dettata dal codice
civile sarebbe stata elusa dalla Corte territoriale, confonde il tema
dell’individuazione del momento in cui il diritto può essere fatto valere in
giudizio, rilevante ex art. 2935 cod. civ., con
quello delle condizioni necessarie affinché un atto possa essere qualificato
riconoscimento di debito ex art. 2944 cod. civ.;

5. l’error in procedendo, nel quale sarebbe incorsa
la Corte territoriale nel ritenere non censurato il capo della sentenza di
primo grado relativo al dies a quo della prescrizione, è parimenti denunciato
senza il rispetto degli oneri richiamati nei punti che precedono, che si
estendono anche agli atti processuali, e senza individuare, nella rubrica e nel
corpo del motivo, le disposizioni del codice di rito violate dal giudice
d’appello;

6. infine la doglianza, oltre a prospettare
inammissibilmente il vizio di cui all’art. 360 n. 5
cod. proc. civ., al di fuori dei limiti indicati dalle Sezioni Unite con la
sentenza n. 8053/2014, accomuna questioni che
attengono alla ricostruzione dei fatti oggetto di causa, quali sono quelle
relative all’interpretazione degli atti adottati dal datore di lavoro, e
profili giuridici, questi ultimi richiamati, come si è detto, genericamente con
la deduzione del vizio di violazione delle norme di diritto sulla prescrizione;

6.1. anche sotto tale profilo la censura non sfugge
alla dichiarazione di inammissibilità, perché l’orientamento secondo cui un
singolo motivo può essere articolato in più profili di doglianza, senza che per
ciò solo se ne debba affermare l’inammissibilità (Cass.
S.U. n.9100/2015), trova applicazione solo qualora la formulazione permetta
di cogliere con chiarezza quali censure siano riconducibili alla violazione di
legge e quali, invece, all’accertamento dei fatti;

6.2. nel caso di specie, al contrario, le doglianze
sovrappongono e confondono profili di merito e questioni giuridiche, sicché
finiscono per assegnare inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito
di isolare le singole censure teoricamente proponibili, al fine di ricondurle a
uno dei mezzi d’impugnazione consentiti, prima di decidere su di esse (Cass. n.
26790/2018);

7. in via conclusiva il ricorso deve essere
dichiarato inammissibile con conseguente condanna del ricorrente al pagamento
delle spese del giudizio di legittimità liquidate nella misura indicata in
dispositivo;

7.1. sussistono le condizioni processuali di cui
all’art. 13 c. 1 quater d.P.R. n.
115 del 2002.

 

P.Q.M.

 

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in €
200,00 per esborsi ed € 5.500,00 per competenze professionali, oltre al
rimborso delle spese generali del 15% ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

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