Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 febbraio 2020, n. 4624

Patologie di origine professionale, Danno biologico
permanente, Inabilità temporanea assoluta, Indennità, Licenziamento per
giustificato motivo oggettivo

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza n. 705/2014 il Tribunale di Monza
riconosceva il diritto di O.H. a una rendita e ad una somma a titolo di
indennità temporanea assoluta da parte dell’INAIL avendo accertato che le
patologie di cui egli soffriva erano di origine professionale e comportavano un
danno biologico permanente nella misura del 33% e un’inabilità temporanea
assoluta di 130 giorni. Con la stessa sentenza il Tribunale di Monza respingeva
la domanda dello stesso O.H. relativa all’illegittimità del licenziamento per
giustificato motivo oggettivo che gli era stato intimato il 26.11.2010 dal suo
datore di lavoro, la società S.A. s.p.a.

2. Avverso la detta sentenza il lavoratore proponeva
appello dinanzi alla Corte di appello di Milano, limitatamente alla parte
relativa al licenziamento. La S.A. s.p.a. si costituiva in giudizio per
resistere all’impugnazione. L’INAIL si costituiva, pur non essendovi domande
spiegate nei suoi confronti.

3. Con sentenza pubblicata il 14.2.2018 la Corte di
appello di Milano respingeva l’appello con condanna dell’appellante alla
rifusione delle spese del grado nei confronti della società S.A. s.p.a. e
compensava le altre spese del grado.

4. La Corte di appello considerava corrette le
conclusioni del giudice di prime cure e quanto alla genuinità della soppressione
del posto di lavoro dell’appellante, vicecapo del reparto logistica, in seguito
alla eliminazione dello stesso reparto logistica e alla esternalizzazione alla
società E. di parte delle relative operazioni, e, quanto all’obbligo di
repechage, a causa dell’insussistenza di mansioni alternative assegnabili al
ricorrente nell’ambito delle figure presenti in azienda. Il giudice di appello
da ultimo confermava l’esistenza di limitazioni lavorative dovute alla
condizione fisica del ricorrente, limitazioni compatibili con il soppresso
ruolo di responsabile tecnico logistica, ma non con lavori gravosi o pesanti.

5. Avverso la citata sentenza della Corte di appello
di Milano O.H. propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi. La
società S.A. s.p.a. resiste con controricorso. Il ricorrente è stato ammesso al
patrocinio a spese dello Stato successivamente alla proposizione del ricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.

6. Il ricorrente ha depositato vari documenti, ai
sensi dell’art. 372 cod.proc.civ., a sostegno
dell’ammissibilità del ricorso, a fronte dell’eccezione di inammissibilità del
gravame sollevata dalla società controricorrente, informandone quest’ultima.
L’INAIL non ha svolto attività difensiva in questa sede.

 

Considerato in diritto

 

1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la
violazione degli art. 437 cod.proc.civ. e dell’art. 345, stesso codice, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ., per avere
la sentenza impugnata accolto l’eccezione di inammissibilità dei documenti
prodotti in appello dall’odierno ricorrente.

2. Con il secondo motivo il lavoratore deduce
nullità della sentenza impugnata per carenza di motivazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 cod.proc.civ., giacché le
ragioni offerte dalla Corte territoriale a sostegno della propria decisione
sarebbero affette da “illogicità e incongruenza delle conclusioni da essa
tratte rispetto sia agli elementi di fatto in essa presi in considerazione, sia
alle sue premesse logico-giuridiche.”

3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la
violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della l. n. 604 del 1966,
ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ.,
in quanto la Corte territoriale avrebbe considerato legittima la soppressione
del reparto logistica, con la sua (non completa) esternalizzazione per il
risparmio dei costi di gestione, in contrasto con l’orientamento costante della
giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il licenziamento non è
oggettivamente giustificato se comporta la sostituzione del lavoratore con un
altro meno costoso. Inoltre la sentenza impugnata non sarebbe rispettosa del
principio secondo cui l’onere del datore di lavoro di dimostrare l’effettiva
sussistenza del giustificato motivo oggettivo addotto nella lettera di
licenziamento non si esaurisce nella prova della sussistenza del fatto posto a
base del licenziamento, ma implica anche che il datore di lavoro dimostri la
sussistenza del nesso causale tra l’accertata ragione, come dichiarata da lui,
e l’intimato licenziamento in termini di riferibilità e di coerenza rispetto
all’operata ristrutturazione, dimostrazione che sarebbe mancata.

4. Con il quarto motivo il lavoratore si duole di
nuovo della violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della l. n. 604 del 1966,
ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ.,
questa volta sotto il profilo dell’allegata violazione dell’obbligo di
repechage. Richiamati i principi enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte
in materia di onere della prova incombente sul datore di lavoro in materia di
repechage, il ricorrente assume, alla luce delle risultanze istruttorie, che
sarebbe “rimasta dimostrata la possibilità di un’altra utilizzatone del
lavoratore licenziato”, possibilità che però non gli era offerta.

5. Con il quinto e ultimo motivo O.H. deduce, sotto
un ulteriore profilo, la violazione e falsa applicazione sempre dell’art. 3 della l. n. 604 del 1966,
ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod.proc.civ.,
rimproverando alla sentenza impugnata di non aver ritenuto l’illegittimità del
suo licenziamento per violazione dei principi di correttezza e buona fede, ai
sensi dell’art. 1175 cod.civ., nella scelta del
ricorrente come destinatario del provvedimento di recesso.

6. In chiusura del ricorso il lavoratore “reitera”
la domanda di accertamento della nullità di un secondo licenziamento,
intimatogli con lettera del 16.2.2011 per superamento del periodo di comporto,
domanda della quale il giudice di prime cure aveva ritenuto superfluo l’esame e
che era stata ritenuta assorbita dalla Corte di appello di Milano con la
sentenza impugnata.

7. Preliminarmente occorre esaminare l’eccezione di
inammissibilità del ricorso sollevata dalla datrice di lavoro per la mancata
osservanza del termine breve per la proposizione dell’impugnazione. L’eccezione
è basata sulla notifica telematica della sentenza di appello, avvenuta il
18.2.2018, mentre il ricorso in cassazione è stato notificato il 10.8.2018,
quindi oltre i sessanta giorni di cui all’art. 325
comma 2 cod.proc.civ.

8. Dai documenti depositati dal ricorrente ai sensi
dell’art. 372 cod.proc.civ., produzione
consentita trattandosi di elementi riguardanti l’ammissibilità del ricorso,
emerge quanto segue. Una relazione dell’avv. M.R., difensore dell’odierno
ricorrente nel giudizio dinanzi alla Corte di appello di Milano, attesta che
alla data indicata nel controricorso, 18.2.2018, non risultava pervenuta alcuna
notifica telematica dall’Avv. A.R., difensore della società datrice di lavoro,
all’indirizzo PEC (…).

Risultava una notifica telematica effettuata
dall’avv. A.R. in data 19.2.2018, ma con allegato illeggibile. Dalla schermata
del computer appariva la seguente dicitura: “Acrobat Reader: errore durante
l’apertura del documento. Il file è danneggiato e non può essere riparato”.
Nella stessa data risultava altra comunicazione proveniente dal medesimo legale
e dal medesimo indirizzo (…) relativa alla sola richiesta di pagamento delle
spese legali, inerenti alla medesima sentenza n. 2217/2017 della Corte di
appello di Milano, comunicazione, questa, andata a buon fine.

9. Il ricorrente ne trae argomento per sostenere che
la notifica “asseritamente effettuata da controparte il 18.2.2018” non potrà
essere ritenuta validamente effettuata, dovendosi riconoscere la possibilità,
in tema di contestazione dell’avvenuta notificazione di un atto digitale, di
deduzione di problemi tecnici ovvero inerenti alla contestazione della
corrispondenza tra quanto eventualmente indicato nella ricevuta di consegna
telematica e quanto realmente pervenuto al destinatario nella propria casella
di posta elettronica certificata. In subordine parte ricorrente chiede la
rimessione in termini per errore scusabile.

10. Premesso che l’esame della relazione telematica
di notifica della sentenza impugnata – anche se erroneamente indicata nel
controricorso come “sentenza di primo grado” – in data 18.2.2018 non rivela
alcuna anomalia, l’inerzia del difensore del ricorrente in seguito alla
constatazione dei problemi di ricezione dell’atto da notificare, secondo la
giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal Collegio, conduce a ritenere il
perfezionamento della notifica litigiosa.

11. Secondo la sentenza di questa Corte n. 25819 del
2017, si può ritenere che nel momento in cui il sistema genera la ricevuta di
accettazione della PEC e di consegna della stessa nella casella del
destinatario si determina una presunzione di conoscenza della comunicazione da
parte del destinatario analoga a quella prevista, in tema di dichiarazioni
negoziali, dall’articolo 1335 cod.civ. Spetta
quindi al destinatario, in un’ottica collaborativa, rendere edotto il mittente
incolpevole delle difficoltà di cognizione del contenuto della comunicazione
legate all’utilizzo dello strumento telematico. Il principio è stato
recentemente ribadito dalla sentenza di questa Corte n 21560 del 2019. Di
conseguenza, nel caso di specie, sarebbe stato dovere del difensore
dell’odierno ricorrente informare il mittente della difficoltà nella presa
visione degli allegati trasmessi via PEC, onde fornirgli la possibilità di
rimediare a tale inconveniente. L’avv. R., per sua stessa ammissione, rimasto
inerte, il che conduce a ritenere il perfezionamento della notifica della
sentenza di appello e quindi la decorrenza del termine breve di sessanta giorni
per la proposizione del ricorso per cassazione.

12. Quanto all’istanza di rimessione in termini, il
Collegio osserva che questo istituto, ai sensi dell’art.
153, comma 2, cod.proc.civ., è strumentale al valido e tempestivo compimento
dell’atto processuale dal quale la parte istante sia deceduta per causa ad essa
non imputabile, sicché non può essere concesso in favore del ricorrente che
abbia colpevolmente dato causa alla decorrenza del termine (cfr., tra molte,
Cass. S.U. n. 32725 del 2018), in questo caso per la mancata osservanza dei
suoi doveri di collaborazione.

13. Ritenuta l’applicabilità del termine breve per
la proposizione del ricorso per cassazione, si deve constatare
l’inammissibilità del ricorso per il mancato rispetto del suddetto termine,
come dedotto dalla parte controricorrente, giacché, come rilevato, la sentenza
impugnata è stata notificata il 18.2.2018, mentre il ricorso per cassazione lo
è stato il 10.8.2018.

14. Resta assorbita l’ulteriore eccezione di parte controricorrente
relativa alla dedotta improcedibilità del ricorso per mancato deposito
dell’istanza di trasmissione del fascicolo di ufficio, ai sensi dell’art. 369, comma 3, cod.proc.civ.

15. L’inammissibilità del ricorso esime la Corte
dell’esame dei motivi proposti con il gravame.

16. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate
come in dispositivo, in favore della controricorrente.

17. Non ritiene il Collegio che ricorrano le
condizione per l’applicazione, richiesta dalla controricorrente, dell’art. 96 cod.proc.civ.

18. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma
del comma 1-bis dello stesso art.
13, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in
euro 200,00 per esborsi, euro 4.000,00 per compensi, oltre spese al 15% ed
accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002. dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso art. 13, se
dovuto.

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