Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 febbraio 2020, n. 4620
Rapporto di lavoro subordinato, Accertamento, Distinzione
tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato, Assoggettamento del prestatore
all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare, Criteri
distintivi sussidiari, Prova orale espletata,Liquidazione del dovuto, Somme
escluse, Conteggi elaborati
Fatto
Considerato che:
Il Tribunale di Catanzaro rigettava la domanda,
proposta da A.C. nei confronti di S.C., di condanna al pagamento della somma
complessiva di € 33.168,50 a vario titolo imputabile al rapporto di lavoro
subordinato intercorso tra le medesime dal 16.4.2001 al 4.4.2003;
la Corte d’appello di Catanzaro, con sentenza nr.
1997 del 2016, in accoglimento dell’appello di A.C., ha condannato S.C. al
pagamento della somma di € 25.343,41, di cui € 2.618,95 a titolo di TFR, oltre
accessori e spese di lite;
la Corte territoriale ha ritenuto accertato, sulla
base della prova orale espletata, il rapporto di lavoro subordinato nel periodo
indicato dalla lavoratrice; a tale riguardo, la Corte territoriale ha espresso
un giudizio di maggiore attendibilità, coerenza e convergenza delle
dichiarazioni rese dai testi della parte appellante (id est: della
lavoratrice);
quanto alla liquidazione del dovuto, la Corte di
appello ha escluso le somme richieste a titolo di compensi per lavoro
straordinario e quelle domandate in ragione del mancato godimento delle ferie;
per il resto, ha posto a base della decisione i conteggi elaborati dalla
lavoratrice, in quanto corretti e «conformi alle previsioni contrattuali di
settore oltre che non fatti oggetto di specifica contestazione»;
avverso la pronuncia, ha proposto ricorso per
cassazione S.C., affidato a tre motivi
ha resistito, con controricorso, A.C.;
Diritto
Considerato che:
con il primo motivo – ai sensi dell’art. 360 nr. 3 cod.proc.civ. – è dedotta
violazione o falsa applicazione degli artt. 2697
e 2094 cod. civ. per aver la Corte d’appello
ritenuto raggiunta la prova della sussistenza, tra le parti, di un rapporto di
lavoro subordinato;
secondo la parte ricorrente, la Corte territoriale
avrebbe omesso di considerare che la ricorrente non aveva allegato – e quindi
provato – gli elementi costitutivi del rapporto di lavoro subordinato, primo
tra tutti la cd. eterodirezione; si censura la valutazione delle risultanze
istruttorie ed il giudizio di credibilità come espresso in relazione ai testimoni
escussi;
il motivo presenta profili sia di inammissibilità
che di infondatezza;
deve premettersi che «la valutazione delle
risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la
scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a
sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al
giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da
quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita
confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati
dalle parti» (ex plurimis, Cass. nr. 17753 del 2017);
la valutazione in tal senso espressa dalla Corte di
appello di Catanzaro, con il conseguente accertamento in termini di sussistenza
di un rapporto di lavoro di natura subordinata, non è adeguatamente censurata
secondo gli enunciati di Cass., sez. un., nn. 8053
e 8054 del 2014; essa, dunque, non è sindacabile in questa sede; inconferente è
il richiamo all’art. 2697 cod.civ.;
la violazione dell’art.
2697 cod.civ. viene in rilievo nelle sole fattispecie in cui il giudice del
merito, in assenza della prova del fatto controverso, applichi la regola di
giudizio basata sull’onere della prova, individuando come soccombente la parte
onerata della stessa; tale eventualità non ricorre nella fattispecie concreta;
la Corte territoriale ha accertato il fatto controverso (id est: la natura del
rapporto di lavoro) sulla base degli elementi di giudizio, sicché non ha
influito sulla decisione la regola di distribuzione dell’onere probatorio;
infondata e la dedotta violazione dell’art. 2094 cod.civ.;
va qui ribadita la regula iuris (ex plurimis, Cass. nr. 1536 del 2009; in motivazione, più
diffusamente, Cass. nr. 7681 del 2010, §§ 4 e ss) secondo la quale, nel caso in
cui la prestazione sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata
nelle sue modalità di esecuzione (ovvero all’opposto, dotata di notevole
elevatezza e contenuto intellettuale e creativo) al fine della distinzione tra
rapporto di lavoro autonomo e subordinato, il criterio rappresentato
dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo,
organizzativo e disciplinare può non risultare significativo per la
qualificazione del rapporto di lavoro, legittimando il ricorso a criteri
distintivi sussidiari (tra questi, la continuità e la durata del rapporto, le
modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario di lavoro,
la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale);
invero, in presenza di mansioni elementari e, per
cosi dire, rigide, il potere direttivo del datore di lavoro può anche non
assumere una concreta rilevanza esterna, per manifestarsi solo in determinate
occasioni, come, per esempio, quando il prestatore incorra in una inosservanza
dei propri doveri;
tali principi sono stati puntualmente osservati dal
giudice del merito e correttamente applicati alla realtà di fatto accertata; la
sentenza impugnata dimostra di aver considerato, ai fini dell’operato
accertamento ed a fronte di una mansione (quella di commessa) semplice e
ripetitiva, elementi diversi ed ulteriori rispetto all’estrinsecazione del
potere direttivo del datore di lavoro; in particolare, valorizzando
l’osservanza di un orario di lavoro e la continuità della prestazione
lavorativa;
con il secondo motivo – ai sensi dell’art. 360 nr. 3 cod.proc.civ. – è dedotta
violazione o falsa applicazione degli artt. 115
e 116 cod.proc.civ. per avere i giudici
espresso un giudizio aprioristico in ordine alla inattendibilità e non
credibilità delle dichiarazioni rese dai testimoni di parte resistente (id est:
della parte datoriale), motivato sulla base del solo vincolo di parentela e di
dipendenza con la parte datoriale;
il motivo è inammissibile, non confrontandosi con il
decisum;
in disparte il profilo di non pertinente richiamo
delle norme processuali indicate in rubrica, le censure non considerano affatto
che la Corte territoriale ha selezionato i testimoni (in termini di maggiore o
minore credibilità) non esclusivamente in ragione dei rapporti personali
intercorrenti con la parte processuale (familiari e/o di lavoro) ma piuttosto
per il fatto che alcuni di essi (quelli cioè giudicati non attendibili)
avessero insistito su alcune circostanze fattuali (per giustificare la presenza
quotidiana della lavoratrice nell’esercizio commerciale della appellante)
ritenute, motivatamente, non plausibili;
con il terzo motivo – ai sensi dell’art. 360 nr. 3 cod.proc.civ. – è dedotta
violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 cod.civ., 36 Cost.e 2099
cod.civ. laddove, ai fini del quantum di retribuzione dovuto, la sentenza
impugnata ha considerato anche gli importi richiesti a titolo di
quattordicesima mensilità e di festività;
il motivo, nei termini in cui è sviluppato, è
inammissibile;
l’attribuzione della quattordicesima mensilità è
censurata in relazione all’art. 36 Cost.;
secondo la parte ricorrente, trattandosi di applicazione parametrica del
contratto collettivo, la Corte di appello, ai fini della determinazione della
retribuzione parametro, non avrebbe dovuto riconoscerla, per rappresentare un
istituto di natura contrattuale;
a tale riguardo, merita senz’altro di essere
ribadito il principio per cui, in tema di adeguamento della retribuzione ai
sensi dell’art. 36 Cost., il giudice del
merito, il quale assuma come criterio orientativo un contratto collettivo non
vincolante per le parti, non può fare riferimento a tutti gli elementi e gli
istituti retributivi che concorrono a formare il complessivo trattamento
economico ma deve prendere in considerazione solo quelli che costituiscono il cosiddetto
minimo costituzionale con esclusione, in linea di principio, degli istituti
retributivi legati all’autonomia contrattuale;
l’esame complessivo di tali istituti, tuttavia,
resta possibile al fine della determinazione della «giusta retribuzione» ai
sensi della norma costituzionale (Cass. nr. 12528 del 1998) e l’eventuale
considerazione (in particolare della quattordicesima mensilità) nel caso
concreto da parte del giudice di merito postula una specifica ed adeguata
motivazione (Cass. nr. 15148 del 2008);
fermi i principi che precedono, le censure mosse,
limitate ad un generico richiamo dell’art. 36 Cost.,
senza nulla argomentare in punto di adeguatezza o meno degli emolumenti
riconosciuti dal giudice di merito ai fini del rispetto del canone
costituzionale, non sono sufficienti ad incrinare il fondamento giustificativo
della decisione assunta e si arrestano ad una valutazione di inammissibilità;
quanto, invece, all’attribuzione di importi a titolo
di «festività», osserva il Collegio come la sentenza abbia operato un implicito
accertamento di sussistenza, in fatto, dei relativi presupposti, come dimostra
l’esclusione, in via espressa, di quelli che sorreggevano la domanda di
condanna al pagamento di somme a titolo di lavoro straordinario e di ferie non
godute; diviene, di conseguenza, per le ragioni già esposte in relazione al
primo motivo, non pertinente il richiamo alla violazione dell’art. 2697 cod.civ.;
in definitiva, in base alle considerazioni svolte,
il ricorso va, nel complesso, rigettato;
le spese seguono la soccombenza e si liquidano come
da dispositivo; sussistono i presupposti processuali per il versamento, da
parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ai sensi del D.P.R. nr. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità che liquida in Euro 4500,00 per compensi professionali,
in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed
accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, nr. 115, art.
13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1,
comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del
medesimo art. 13, comma 1 bis,
se dovuto.