Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 febbraio 2020, n. 5241

Licenziamento, Firma indotta conciliazione sindacale,
Dimostrazione di eventuali artifici e raggiri, Volontà di entrambe le parti
desumibile dal verbale di conciliazione

Rilevato che

 

1. Con ricorso ex art. 1 co. 48 legge n. 92 del 2012
Z.F. ha adito il Tribunale di Roma al fine di sentire dichiarare inesistente o
nullo il licenziamento comunicatole, telefonicamente, dalla U.E. srl, nella
serata del 31.7.2005 e reiteratole oralmente il 3.8.2015, con ogni condanna
consequenziale.

2. La ricorrente aveva dedotto che il 30.7.2015 era
stata invitata a recarsi presso un ufficio sito in Roma alla via C. per
ricevere alcuni pagamenti arretrati e, quando il giorno successivo era giunta
sul posto, aveva scoperto che si trattava della sede di una associazione
sindacale; in quella occasione era stata tratta in inganno perché indotta a
firmare una conciliazione sindacale “senza essere stata posta nelle
condizioni di leggere il contenuto del documento” e senza sapere che dal
giorno seguente sarebbe rimasta priva di occupazione.

3. Il giudice del lavoro di Roma, sia in fase
sommaria che in sede di opposizione ex art. 1 co. 51 della legge n. 92 del
2012, ha respinto le domande della lavoratrice, ivi compresa quella
subordinata volta ad ottenere l’annullamento della transazione sindacale
eccepita dalla società.

4. La Corte di appello di Roma, con la sentenza n.
1729 del 2018, ha confermato la pronuncia di prime cure, precisando che: a)
sebbene l’accordo sottoscritto da entrambe le parti in sede sindacale non
presentasse una esplicita e distinta clausola sulla cessazione del rapporto,
tuttavia lo stesso conteneva clausole inequivocabilmente riferibili a detto
evento; b) le clausole n. 3 e n. 4 dell’accordo conciliativo non erano nulle
perché non contenevano alcuna rinuncia a diritti futuri, neppure indicati dalla
Z.; c) non era credibile la tesi della lavoratrice secondo cui ella avrebbe
sottoscritto sia il mandato alla UIL TUCS, per l’assistenza di una sindacalista
in sede di conciliazione sia l’atto di conciliazione senza avvedersi di ciò che
firmava, tenuto conto che da tutto il comportamento adottato non poteva certo
desumersi che fosse una persona sprovveduta, né erano state allegate
circostanze da cui evincere che fosse stata oggetto di artifici e raggiri.

5. Avverso la decisione di secondo grado ha proposto
ricorso per la cassazione Z.F. affidato a quattro motivi cui ha resistito con
controricorso la Unica Elle srl, illustrato con memoria.

6. Il PG non ha rassegnato conclusioni scritte.

 

Considerato che

 

1. I motivi possono essere così sintetizzati.

2. Con il primo motivo la ricorrente denunzia la
violazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c., in
relazione agli artt. 2113, 1965, 1362 e ss cc
e all’art. 112 c.p.c., per avere erroneamente i
giudici del merito interpretato il verbale di conciliazione come diretto a
regolare la cessazione del rapporto e per non avere la Corte territoriale
deliberato con argomentazioni pertinenti rispetto alle censure mosse. Deduce
che, al di là dei richiami formali, cui i giudici di seconde cure avevano fatto
riferimento, si sarebbe dovuto indagare se effettivamente le dichiarazioni
imputate ad essa lavoratrice fossero il frutto della sua volontà ovvero
rappresentassero clausole di stile prive di efficacia negoziale. Ribadisce che
l’oggetto della conciliazione non era la cessazione del rapporto ma la
richiesta delle differenze retributive, come risultanti dalla premessa del
verbale e che durante le trattative non era mai stata trattata la risoluzione
al 31.7.2015 del rapporto. Conclude nel sottolineare che le modalità di
conduzione delle trattative, della redazione del verbale sindacale ed il
contegno, successivamente assunto dalle parti, erano tutti elementi che
facevano presumere il raggiro subito che le era costato il posto di lavoro.

3. Con il secondo motivo si censura la violazione
dell’art. 360 n. 3 c.p.c., in relazione agli artt. 1418 e 1419 cc,
per non avere la pronuncia gravata, nel giudicare il secondo motivo di reclamo,
colto nel segno dell’eccezione circa la nullità dei punti 3 e 4 della
conciliazione, avente ad oggetto esclusivo diritti ed azioni non ancora sorti
né maturati al momento in cui la lavoratrice aveva sottoscritto l’atto. Si
precisa, infatti, che, non regolando la conciliazione la cessazione del
rapporto di lavoro, le rinunce all’impugnazione del licenziamento e alle azioni
connesse alla cessazione del rapporto, riguardavano diritti futuri e, in quanto
tali, erano nulli.

4. Con il terzo motivo la Z. lamenta la violazione
dell’art. 360 n. 5 c.p.c., in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c.
e all’art. 2697 cc, perché la motivazione della
sentenza impugnata, in relazione al terzo motivo di reclamo, era apparente,
frutto per lo più di congetture e convincimenti personali e privi di riscontro
probatorio: in particolare, si sostiene che, senza attività istruttoria, era
stato erroneamente affermato che la sindacalista aveva puntualmente svolto il
proprio ruolo e che non era credibile che la lavoratrice avesse sottoscritto
due atti negoziali senza avvedersi di ciò che firmava.

5. Con il quarto motivo la ricorrente si duole della
violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c., in
relazione agli artt. 1427 e ss. cc e agli artt. 112 e 99 c.p.c.,
per avere erroneamente la Corte territoriale rilevato un difetto di allegazione
in ordine ad una eventuale impugnazione della conciliazione per vizi della
volontà, con riguardo alle condizioni proprie della violenza e dell’errore
quando, invece, indipendentemente dal nomen iuris essa lavoratrice aveva
esposto le circostanze poste a base della dedotta truffa che assumeva avere
subito anche attraverso il deposito della denuncia- querela che valeva ad
integrarne il contenuto della domanda avanzata in sede civile.

6. I primi due motivi, da trattarsi congiuntamente
per connessione logico-giuridica, non sono fondati.

7. E’ opportuno premettere, avendo il ricorrente
denunziato il vizio ex art. 112 c.p.c. in
relazione ad una mancata deliberazione, da parte della Corte territoriale,
rispetto alle censure mosse, che la differenza tra l’omessa pronuncia di cui
all’art. 112 c.p.c. e l’omessa motivazione su
di un punto decisivo della controversia di cui all’art.
360 co. 1 n. 5 (nuova formulazione) si coglie nel senso che, mentre nella
prima è ravvisabile la totale carenza di considerazione della domanda e dell’eccezione
sottoposta all’esame del giudicante, il quale manchi completamente perfino di
adottare un qualsiasi provvedimento, quand’anche solo implicito, di
accoglimento o di rigetto, invece indispensabile alla soluzione del caso
concreto, la seconda, invece, presuppone una “totale pretermissione di uno
specifico fatto storico”, oppure la “mancanza assoluta di motivazione
sotto l’aspetto materiale e grafico”, una “motivazione
apparente”, il “contrasto irriducibile tra affermazioni
inconciliabili, una “motivazione perplessa ed obiettivamente
incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di
“sufficienza” della motivazione (cfr. Cass. n. 21257 del 2014).

8. Entrambi i vizi non sono ravvisabili nella
pronuncia impugnata la quale, con argomentazioni congrue ed adeguatamente
motivate, ha interpretato il verbale di conciliazione pervenendo alla
conclusione che lo stesso si riferiva anche alla cessazione del rapporto
intercorso tra le parti e che la nullità delle clausole di cui ai punti 3 e 4
dell’accordo conciliativo non sussistevano perché non riguardanti la rinuncia
ad alcun diritto futuro.

9. Parimenti non sono meritevoli di accoglimento
neanche le doglianze sulle asserite violazioni degli artt.
2113, 1965, 1362
e ss. cod. civ. in quanto con le stesse la ricorrente si è limitata ad
offrire solo una diversa opzione interpretativa delle risultanze documentali.

10. Invero, in tema di ermeneutica contrattuale,
l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio
si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice del merito e
censurabile in sede di legittimità solo nell’ipotesi di violazione dei canoni
legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt.
1362 e ss. cod. civ., con la conseguenza che il ricorrente per cassazione
deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione
mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate e ai principi
in esse contenute, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali
considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai richiamati canoni
legali (cfr. Cass. n. 873 del 2019; Cass. n. 27136 del 2017).

11. La Suprema Corte ha pure ripetutamente chiarito
che “per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data dal
giudice di merito ad un contratto non deve essere l’unica possibile o la
migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni:
sicché in tema di sindacato sulla interpretazione dei contratti, la parte che
ha proposto una delle opzioni ermeneutiche possibili di una clausola
contrattuale non può contestare, quindi, in sede di giudizio di legittimità la
scelta alternativa alla propria effettuata dal giudice di merito se non con le
condizioni sopra indicate (Cass. n. 24539 del 2009; Cass. n. 6125 del 2014).

12. La Corte territoriale ha argomentato le ragioni
per le quali ha ritenuto che la volontà di entrambe le parti, desumibile dal
verbale di conciliazione, fosse quella di addivenire, sia dal comportamento
tenuto nella fase delle trattative sia dagli elementi oggettivi riscontrabili
nella redazione della scrittura, alla risoluzione del rapporto di lavoro e la
ricorrente non ha indicato con esattezza perché la suddetta motivazione
contrasti con i criteri legali letterali e logico-sistematici, insistendo,
invece, unicamente per una diversa interpretazione delle clausole:
interpretazione che, per quanto sopra detto, si sostanzia unicamente in una
inammissibile richiesta di riesame del merito in sede di legittimità (Cass. n. 17168 del 2012).

13. Il terzo e quarto motivo sono inammissibili.

14. Con essi, infatti, si lamenta un vizio ex art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c. che, ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., riguardante questioni in
fatto, è inammissibile perché si verte in ipotesi di cd. “doppia
conforme”.

15. In ogni caso, va osservato che la violazione del
precetto di cui all’art. 2697 cod. civ. si
configura soltanto nell’ipotesi che il giudice abbia attribuito l’onere della
prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate
da quella norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle
acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte
onerata abbia assolto tale onere, poiché in questo caso vi è soltanto un erroneo
apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo
per il vizio di cui all’art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c.

16. In tema di ricorso per cassazione, poi, una
questione di violazione e falsa applicazione degli artt.
115 e 116 c.p.c. non può porsi per una
erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito,
ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a
base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio
al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo
prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come
facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova
soggetti, invece, a valutazione (cfr. Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014 n. 13960).

17. In realtà le censure di cui ai motivi, sebbene
articolate sotto il profilo di plurime violazioni di legge, tendono a fare
valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di
merito al diverso convincimento soggettivo della parte. Al riguardo va
osservato che non può essere proposto un preteso migliore e più appagante
coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del
giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli
elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento
del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento
giacché, diversamente, il motivo di ricorso per cassazione si risolverebbe in
una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti
del giudice di merito, e cioè di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla
natura e alla finalità del giudizio di legittimità.

18. Infine, va richiamato il principio consolidato
nella giurisprudenza di questa Corte, alla stregua del quale l’interpretazione
operata dal giudice di appello, riguardo al contenuto e all’ampiezza della
domanda giudiziale, è assoggettabile al controllo di legittimità limitatamente
alla valutazione della logicità e congruità della motivazione e, a tal
riguardo, il sindacato della Corte di Cassazione comporta la identificazione
della volontà della parte in relazione alle finalità dalla medesima perseguite,
in un ambito in cui, in vista del predetto controllo, tale volontà si
ricostruisce in base a criteri ermeneutici assimilabili a quelli propri del
negozio, diversamente dall’interpretazione riferibile agli atti processuali
provenienti dal giudice, ove la volontà dell’autore è irrilevante e l’unico
criterio esegetico applicabile è quello della funzione obiettivamente assunta
dall’atto giudiziale (Cass. n. 17947 del 2006; Cass. n. 2467 del 2006); inoltre
è stato sottolineato che il giudice del merito, nell’indagine diretta
all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla
sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore letterale degli atti nei
quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto
sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle
vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante (Cass. n. 21087 del 2015).

19. Ciò posto, del tutto correttamente i giudici di
seconde cure hanno affermato che alla conclusione del Tribunale, circa la
mancata allegazione delle condizioni proprie della violenza (vis compulsiva) e
dell’eventuale errore, non era stata mossa alcuna censura né il reclamo
proposto aveva offerto elementi contrari. I medesimi giudici hanno, poi,
avvalorato tale interpretazione specificando che tale mancanza di allegazione
era stata rilevata pure in sede penale ove il GIP -nel provvedimento di rigetto,
emesso all’esito dell’opposizione avverso la richiesta di archiviazione del PM
per il reato di truffa- aveva evidenziato come, in concreto, non era stato in
alcun modo possibile individuare in che cosa fossero consistiti gli assunti
raggiri ed artifici costituenti l’essenza del reato di truffa invocato dalla
querelante: il tutto avallato dalle risultanze delle deposizioni degli
informatori escussi in sede penale e dalla genericità della prova per testi
articolata in sede civile.

20. Con la censura la ricorrente, pertanto, lungi
dallo specificare i modi e le forme dell’eventuale scostamento della pronuncia
gravata dai canoni ermeneutici legali che ne orientano il percorso
interpretativo della domanda giudiziale, risulta essersi limitata ad
argomentare unicamente il proprio dissenso dall’interpretazione fornita dai
giudici di merito sul contenuto della domanda, così risolvendo le doglianze
proposte ad una questione di fatto non proponibile in sede di legittimità.

21. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve,
pertanto, essere rigettato.

22. Al rigetto del ricorso segue la condanna della
ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si
liquidano come da dispositivo.

23. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n.
115/02, nel testo risultante dalla legge
24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti
processuali, sempre come da dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al
pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio
di legittimità che liquida in complessivi euro 4.000,00 per compensi, oltre
alle spese forfetarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro
200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n.
115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1 bis dello stesso art. 13, se
dovuto.

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