Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 02 marzo 2020, n. 5673
Licenziamento per giusta causa, Contenuto di e-mail
asseritamente denigratorie riguardanti i colleghi, Rilevanza disciplinare,
Selezione e valutazione di una pluralità di elementi, Vizio di sussunzione,
Non sufficiente invocare una diversa combinazione dei parametri ovvero diverso
rilievo di ciascuno di essi, ma la combinazione ed il peso dei dati fattuali
Rilevato che
– con sentenza in data 26 febbraio 2018, la Corte
d’Appello di Palermo ha confermato la sentenza resa dal giudice di primo grado
che aveva respinto l’opposizione proposta avverso l’ordinanza con cui il
medesimo Tribunale aveva accolto l’impugnazione del licenziamento per giusta
causa intimato a L.M. dalla società S.C. S.p.A. con nota del 23.11.2016;
– in particolare, il giudice di secondo grado,
confermando, sul punto, quanto reputato dal Tribunale, ha ritenuto che il
contenuto di email asseritamente denigratorie riguardanti i colleghi mandate
dal dipendente, non rivestiva alcuna rilevanza disciplinare;
– avverso tale pronunzia propone ricorso la società
con un unico complesso motivo;
– resiste, con controricorso, il M..
Considerato che
– con l’unico motivo di ricorso si propongono, in
realtà, oltre dieci censure che attengono violazioni di legge, vizi di
motivazione e nullità della sentenza;
– il motivo per come è formulato deve ritenersi del
tutto inammissibile;
– giova premettere al riguardo, che, per consolidata
giurisprudenza di legittimità (cfr., fra le più recenti, Cass. n. 6519 del
06/03/2019, nonché, Cass. n. 11603 del 14/05/2018), il giudizio di cassazione è
un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito
devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte
di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un
controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di
riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa;
– ne consegue che la parte non può limitarsi a
censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta
nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione,
al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti; va in
primo luogo rilevato che parte ricorrente omette di considerare che il presente
giudizio di cassazione, ratione temporis, è soggetto non solo alla nuova
disciplina di cui all’art. 360, co. 1, n. 5,
cod.proc.civ., in base alla quale, le sentenze possono essere impugnate
“per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto
di discussione fra le parti”, ma anche a quella di cui all’art. 348 ter, ult. co. cod.proc.civ., secondo cui
il vizio in questione non può essere proposto con il ricorso per cessazione
avverso la sentenza d’appello che confermi la decisione di primo grado, qualora
il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di
secondo grado, ossia non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d,
doppia conforme (v. sul punto, Cass. n. 4223 del 2016; Cass. n. 23021 del 2014);
– quindi, non possono trovare ingresso nel presente
giudizio di legittimità tutte quelle censure che attengono alla ricostruzione
della vicenda storica come operata dai giudici di merito, anche in ordine alla
tempestività della procedura disciplinare, e che lamentano una errata
ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo della critica alla valutazione
giudiziale delle risultanze di causa, sia perché formulate in modo difforme
rispetto ai principi enunciati da Cass. SS.UU. n.
8053 del 2014, che ha rigorosamente interpretato il novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. limitando la
scrutinabilità al c.d. “minimo costituzionale”, sia nella parte in
cui attingono questioni di fatto in cui la sentenza di appello ha confermato la
pronuncia di primo grado;
– quanto alle censure con cui, in varie forme, si
denuncia la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in particolare
dell’art. 2119 c.c., occorre ribadire i confini
del sindacato di questa Corte a mente dell’art.
360, co. 1, n. 3, c.p.c., ove si controverta della giusta causa o del
giustificato motivo di licenziamento;
– infatti, l’attribuzione di un contenuto precettivo
ad una norma è operazione da effettuarsi anche per le norme contenenti le cd.
clausole generali o, comunque, concetti giuridici indeterminati, anche se non
se ne possono negare le peculiarità legate alla circostanza che in tali
disposizioni si richiamano concetti elastici, che necessitano di una
integrazione che accentua lo spazio lasciato all’interprete, delegato ad
effettuare un giudizio di valore che concretizza la norma oltre i rigidi
confini dell’ordinamento positivo;
– le necessarie specificazioni del parametro
normativo hanno natura giuridica e la loro errata individuazione, per consolidata
giurisprudenza di questa Corte, è deducibile in sede di legittimità come
violazione di legge (ex plurimis, Cass. n. 18715
del 2016; Cass. n. 6901 del 2016; Cass. n. 6501 del 2013; Cass. n. 6498 del 2012; Cass. n. 25144 del 2010);
– nondimeno, l’attività di integrazione del precetto
normativo di cui all’art. 2119 c.c. compiuta
dal giudice di merito è sindacabile in sede di legittimità a condizione, però,
che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si
limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga,
invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto
agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti
nella realtà sociale (cfr. Cass. n. 5095 del 2011; Cass.
n. 9266 del 2005);
– invece, nella specie, parte ricorrente non
identifica quali siano i parametri integrativi della clausola generale che
sarebbero stati violati dai giudici di merito, limitandosi esclusivamente a
ribadire che secondo il suo giudizio ed alla luce della giurisprudenza
anteatta, il fatto addebitato non costituirebbe giusta causa di licenziamento,
talché, anche per questo profilo, la sentenza impugnata non risulta
efficacemente censurata;
– d’altro canto, le Sezioni Unite di questa Corte,
hanno affermato (sent. n. 5 del 2001) che il controllo di legittimità non si
esaurisce in una verifica dell’attività ermeneutica diretta a ricostruire la
portata precettiva di una norma, ma il vizio di cui al n. 3, dell’art. 360, co. 1, c.p.c.comprende
anche l’errore di sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa;
– tale vizio si riferisce ad un momento successivo a
quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta
regolatrice del caso concreto ed investe immediatamente la regola di diritto,
risolvendosi nell’affermazione erronea
dell’esistenza o dell’insussistenza di una norma,
ovvero della attribuzione ad essa di un contenuto che non ha riguardo alla
fattispecie in essa delineata (violazione di legge in senso proprio); la falsa
applicazione consiste invece nell’assumere la fattispecie concreta sotto una
norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista –
pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla (così,
Cass. n. 18782 del 2005; v. pure Cass. n. 15499 del 2004);
– il vizio di sussunzione è configurabile anche in
caso di norme che contengano clausole generali o concetti giuridici
indeterminati ma, per consentirne lo scrutinio in sede di legittimità, è
indispensabile, così come in ogni altro caso di dedotta falsa applicazione di
legge, che si parta dalla ricostruzione della fattispecie concreta così come
effettuata dai giudici di merito; altrimenti si trasmoderebbe nella revisione
dell’accertamento di fatto di competenza di detti giudici;
– in ordine agli elementi fattuali che il giudice
deve valutare per verificare la sussistenza o meno di una giusta causa di
licenziamento, la giurisprudenza di legittimità è consolidata nell’affermare
che, per stabilire in concreto l’esistenza di una causa che non consenta la
prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro e che deve dunque avere
la natura di grave negazione degli elementi essenziali di tale rapporto, ed in
particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato, la gravità dei
fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e
soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed
all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra
tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento
fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in
concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare;
– l’accertamento in ordine alla ricostruzione di
detti fatti e del come si siano realizzati nella vicenda storica che origina la
controversia compete ai giudici di merito, tenuti anche ad effettuare la
valutazione di tali fatti al fine di esprimere un giudizio complessivo dei
medesimi che spieghi le ragioni per cui da essi si sia tratto il convincimento
circa la sussistenza o meno della giusta causa di licenziamento;
– poiché si tratta di giudizi di fatto, gli stessi
possono essere scrutinati in sede di legittimità solo nei limiti consentiti da
una prospettazione del vizio di cui all’art. 360,
co. 1, n. 5, c.p.c., nella formulazione temporalmente appropriata ed
inoltre, il giudice di cassazione può sindacare la sussunzione operata
dall’impugnata sentenza della fattispecie concreta nell’alveo dell’art. 2119 c.c. correttamente interpretato e,
tuttavia, i dati fattuali dì partenza non possono essere che quelli accertati e
valutati dal giudice del merito, rispetto ai quali può essere verificata in
sede di legittimità la corretta riconduzione alla fattispecie astratta;
– atteso che gli elementi da valutare ai fini
dell’integrazione della giusta causa di recesso sono molteplici è necessario
verificare, in sede di legittimità la rilevanza dei singoli parametri ed il
peso specifico attribuito a ciascuno di essi dal giudice del merito, onde
saggiare l’adeguatezza del giudizio complessivo che ne è scaturito dalla loro
combinazione e la coerenza della sussunzione nell’ambito della clausola
generale;
– quest’ultima si presenta come una decisione
fondata sulla selezione e valutazione di una pluralità di elementi e, pertanto,
la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata sotto
il profilo del vizio di sussunzione, non può limitarsi ad invocare una diversa
combinazione dei parametri ovvero un diverso rilievo di ciascuno di essi, ma
deve piuttosto denunciare che la combinazione e il peso dei dati fattuali, per
come definito dal giudice del merito, non consente comunque la riconduzione
alla nozione legale di giusta causa di licenziamento, deducendosi, altrimenti,
che è stato omesso l’esame di un parametro tra quelli individuati dalla
giurisprudenza ai fini dell’integrazione della giusta causa avente valore
decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe potuto condurre ad un
diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera
probabilità (in termini Cass. n. 18715 del 2016);
– in tal caso, tuttavia, il vizio è attratto nella
sfera di applicabilità dell’art. 360, co. 1, n. 5,
con i limiti che ne derivano, e solo in un momento successivo potrà essere
eventualmente argomentato che l’errata ricostruzione in fatto della fattispecie
concreta, determinata dall’omesso esame di un parametro decisivo, ha cagionato
altresì un errore di sussunzione rilevante ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per falsa
applicazione di legge;
– nella specie, invece, parte ricorrente, oltre a
contestare l’accertamento degli addebiti come operato dai giudici di merito, in
alcun modo specifica perché quanto accertato e ritenuto da costoro non sarebbe
sussumibile nell’ambito dell’art. 2119 c.c.
limitandosi ad allegare aspetti da cui dovrebbe rilevare una sanzione
espulsiva, aspetti questi, non rilevanti per la giurisprudenza di questa Corte
(cfr. Cass. n. 6901 del 2016; Cass, n. 16682
del 2015; Cass. n. 2018 del 1995);
– nessuno di tali fatti, anche per la loro stessa
pluralità, può ritenersi autonomamente decisivo nel senso già specificato,
talché le censure al riguardo si risolvono nella prospettazione di una generica
rivisitazione del giudizio di merito, non consentita in questa sede;
– alla luce delle suesposte argomentazioni, quindi,
il ricorso deve essere dichiarato inammissibile;
– le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate
come da dispositivo;
– sussistono i presupposti processuali di cui all’art. 13, Co. 1 quater, d.P.R. n. 115
del 2002, come modificato dall’art.
1, co. 17, I. n. 228 del 2012;
P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile. Condanna la parte
ricorrente alla rifusione, in favore della parte controricorrente, delle spese
di lite, che liquida in complessivi euro 5000,00 per compensi ed euro 200,00
per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art.
1 – bis dello stesso articolo 13 (ndr comma 1 – bis dello stesso articolo 13),
se dovuto.