Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 marzo 2020, n. 8168
Lavoratore, Lesioni personali gravi, Responsabilità
datoriale, Imperizia e imprudenza e per inosservanza delle norme
antinfortunistiche, Macchinario sprovvisto di adeguata protezione
Ritenuto in fatto
1. La Corte d’appello di Bologna ha confermato la
sentenza del Tribunale di Ravenna, con la quale B.G. e B.R.G.A. erano stati
condannati, nelle rispettive qualità di datore di lavoro – presidente del
C.d.A. e legale rappresentante della V. S.p.A. – e di direttore di
stabilimento, per il reato di cui all’art. 590,
commi 2 e 3, cod. pen. ai danni del lavoratore dipendente P.M.
Si è contestato agli imputati di avere causato al
predetto P. le lesioni personali gravi, meglio descritte in imputazione, per
imperizia e imprudenza e per inosservanza delle norme antinfortunistiche di cui
all’art. 71 comma 1, in
relazione all’art. 70 comma 2,
d.lgs. 81 del 2008. In particolare, nell’occorso, il P. stava svolgendo un
test di resistenza all’abrasione di un campione di materiale, utilizzando un
abrasimetro, macchinario costituito da un supporto fisso semicircolare (sul quale
si fissava il campione da testare) e da un carrellino a movimento alternato
(sul quale era applicata una striscia di materiale abrasivo). Nel corso del
test, il lavoratore aveva inavvertitamente appoggiato la mano sinistra nella
parte posteriore del carrellino che, nel completare la fase di ritorno, gli
aveva schiacciato l’apice del dito medio contro la parte fissa
dell’abrasimetro, causandogli le lesioni descritte in imputazione.
2. Avverso la sentenza d’appello hanno proposto
ricorsi entrambi gli imputati, con gli stessi difensori, ma con separati atti.
2.1. L’imputato B.G. ha formulato tre motivi.
Con il primo, ha dedotto inosservanza e violazione
di legge, oltre a vizio di mancanza, contraddittorietà e illogicità della
motivazione, con riferimento alla valutazione del comportamento tenuto
nell’occorso dalla vittima, che assume tale da avere eliso il nesso causale tra
le condotte omissive ascritte e l’evento verificatosi. Nel corso del giudizio
era infatti emerso, secondo la ricostruzione difensiva, che al lavoratore era
stato impartito un corso specifico generale sulle attrezzature da utilizzare in
laboratorio e che lo stesso aveva già utilizzato quel macchinario e lavorato in
precedenza in altri laboratori, cosicché egli doveva considerarsi lavoratore
esperto e formato rispetto all’utilizzo delle attrezzature di laboratorio.
Sotto altro profilo, la difesa ha contestato il
giudizio controfattuale operato dai giudici di merito, rilevando come fosse
stato lo stesso lavoratore ad affermare che, una volta avviata, la macchina non
necessitava di altri interventi umani.
Con il secondo motivo, la difesa ha dedotto
inosservanza e violazione della legge, nonché vizio di mancanza,
contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, avuto riguardo alla
valutazione della condotta ascritta all’imputato, tenuto conto delle
caratteristiche del macchinario, alla luce delle dichiarazioni del proprio
consulente di parte, il quale aveva affermato che la macchina aveva un’unica
velocità, che era decisamente lenta e che, in ogni caso, consentiva di
scongiurare eventi dannosi, trattandosi di attrezzo il cui funzionamento era
estremamente semplice.
Con il terzo motivo, infine, la difesa ha dedotto
inosservanza e violazione della legge, nonché vizio di mancanza e contraddittorietà
della motivazione in relazione al diniego delle attenuanti generiche e della
sostituzione della pena detentiva con quelle pecuniaria.
2.2. L’imputato B.R.G.A. ha formulato quattro
motivi.
Il primo, il secondo e il quarto motivo sono
sostanzialmente sovrapponibili ai motivi dedotti nell’interesse del coimputato
e ad essi si rinvia per comodità espositiva.
Con il terzo, invece, la difesa ha dedotto
inosservanza e violazione di legge, nonché vizio di mancanza, contraddittorietà
e manifesta illogicità della motivazione quanto alla riconosciuta posizione di
garanzia dell’imputato, nella qualità di direttore dello stabilimento.
In particolare, si è evidenziato come l’infortunio
fosse avvenuto all’interno di un laboratorio della V. che costituisce unità totalmente
autonoma, rispetto alla quale il B. non aveva alcuna posizione di effettivo
governo del rischio, né era mai stato investito di compiti attinenti alla
prevenzione degli infortuni sul lavoro, o di poteri di spesa, non essendo stato
mai delegato in ordine alla materia antinfortunistica aziendale. Né tali
compiti potevano ricavarsi dal mansionario aziendale, dal quale risultava la
sua investitura con compiti attinenti alla gestione dello stabilimento quanto
alle aree produttive, alla manutenzione, alla logistica e ai rimanenti servizi,
oltre che alla gestione delle risorse umane, ai rapporti sindacali e alla
partecipazione alle riunioni della direzione operativa.
Nella manutenzione delle aree assegnategli non
figurava il laboratorio teatro dell’infortunio, il responsabile di esso essendo
tale sig. B., come pure dichiarato dalla persona offesa. Sotto altro profilo,
la difesa ha rilevato il difetto di prova che il B. fosse stato destinatario di
comunicazioni o interventi da parte del responsabile per la sicurezza e
prevenzione, ing. A.
Considerato in diritto
1. I ricorsi sono inammissibili.
2. La Corte felsinea ha ritenuto infondati gli
appelli degli imputati, rilevando, con riguardo alla contestata prevedibilità
del fatto (argomentata, secondo quanto riportato nella sentenza impugnata,
sulla scorta: dell’imprudente comportamento della vittima, ammesso dallo stesso
P.; dell’eccentricità delle mansioni svolte, invero limitate alla preparazione
del macchinario, compresi accensione e spegnimento; della conoscenza del
macchinario da parte del P., lavoratore esperto e specificamente formato;
dell’adeguata segnalazione del pericolo derivante dalle componenti del
macchinario), che il comportamento della vittima non consentiva di escludere il
nesso causale tra le condotte contestate e l’evento, non avendo costui tenuto
un contegno assolutamente imprevedibile o esorbitante dalle sue mansioni, la
scarsa accortezza dimostrata nell’appoggiare l’arto sul carrello in movimento
rientrando ampiamente nel catalogo dei rischi preventivabili, come dimostrava
la stessa segnaletica di avvertimento apposta al macchinario.
Sotto altro profilo, quel giudice ha valorizzato
l’inesperienza del lavoratore, neoassunto, e l’inadeguatezza della formazione
ricevuta, avvenuta nella specie solo per affiancamento.
In ogni caso, la Corte di merito ha rilevato che il
comportamento non poteva considerarsi esorbitante rispetto alle ordinarie
mansioni della persona offesa, alla luce della prassi osservata in quel
laboratorio, in base alla quale si procedeva all’accertamento del corretto
svolgimento del test di resistenza subito dopo l’attivazione dell’abrasimetro,
cosicché la condotta della vittima non avrebbe potuto, in ogni caso, assurgere
a causa esclusiva delle gravi lesioni riportate.
Quanto al giudizio controfattuale, la Corte
bolognese ha precisato che gli accertamenti sul luogo dell’incidente avevano
consentito di acclarare che il macchinario era sprovvisto di un carter
protettivo, avente proprio la funzione di impedire il contatto tra le parti
meccaniche e gli operatori addetti al laboratorio e l’assoluta necessità di
tale dotazione di sicurezza era stata affermata dal tecnico ASL escusso quale
teste, il quale aveva convintamente sostenuto che la presenza di quel presidio
di sicurezza avrebbe sicuramente scongiurato l’evento.
Con specifico riferimento al trattamento
sanzionatorio, inoltre, i giudici territoriali hanno ritenuto debitamente
giustificate la mancata applicazione della pena pecuniaria alternativa alla
detentiva e la mancata conversione della pena detentiva in sanzione pecuniaria
alla stregua dei parametri di cui all’art. 133 cod.
pen. avuto riguardo all’entità delle lesioni cagionate, dalle quali era
derivata anche un’invalidità permanente, e al mancato risarcimento del danno.
Oltre a ciò, la Corte d’appello ha rilevato che le cautele pretermesse erano di
facile e immediata adozione, ciò che aveva reso l’omissione contestata
particolarmente censurabile, e, quanto alle attenuanti generiche, infine, l’assenza
di elementi positivi e l’attestazione della pena sui minimi edittali.
Con specifico riferimento, invece, alle censure
riguardanti il solo imputato B.R.G.A. e, segnatamente, alla qualità di garante
del medesimo, la Corte di Bologna ha ritenuto le stesse parimenti infondate,
avuto riguardo alla qualifica ricoperta, alla quale erano ricollegati, già
sulla scorta del mansionario aziendale, compiti riguardanti le aree produttive,
i servizi di manutenzione e le relazioni sindacali interne, elementi ritenuti
indicativi della sua posizione di soggetto in stretto e diretto contatto con
l’intera realtà aziendale. Alla luce di tali elementi fattuali, ha perciò
ritenuto del tutto ininfluente l’asserita autonomia del laboratorio ove era
avvenuto l’infortunio e la concorrente responsabilità datoriale. Rispetto a
quest’ultima, peraltro, ha osservato che essa valeva ad esonerare l’imputato
dai profili di responsabilità ricollegabili alla sua, diversa qualità di
garante: la posizione apicale rivestita avrebbe richiesto, infatti,
l’assolvimento dei propri obblighi mediante l’attivazione degli strumenti a
disposizione, eventualmente ponendo all’attenzione di chi aveva il potere di
spesa le problematiche che la sua costante presenza in azienda gli consentiva
di individuare prima di altri.
3. Tutti i motivi sono manifestamente infondati.
3.1. Richiamato il consolidato orientamento per il
quale sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di
fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di
nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati
dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità
esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr. sez. 6 n
47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482), stante la preclusione per questo
giudice di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a
quella compiuta nei precedenti gradi di merito (cfr. sez. 6 n. 25255 del
14/02/2012, Minervini, Rv. 253099), vanno ulteriormente calibrati i confini del
vizio della motivazione deducibile in sede di legittimità.
È vero che – a seguito della modifica apportata all’art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen.
dall’art. 8, comma primo, della
legge n. 46 del 2006 – il legislatore ha esteso l’ambito della deducibilità
di tale vizio anche ad altri atti del processo specificamente indicati nei
motivi di gravame, così introducendo il travisamento della prova quale
ulteriore criterio di valutazione della contraddittorietà estrinseca della
motivazione il cui esame nel giudizio di legittimità deve riguardare uno o più
specifici atti del giudizio, non il fatto nella sua interezza (cfr. sez. 3 n. 38341
del 31/01/2018, Ndoja, Rv. 273911); ma è altrettanto pacifico che, anche a
seguito di tale modifica, resta pur sempre non deducibile nel giudizio di
legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di
cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a
quella compiuta nei precedenti gradi di merito (cfr. sez. 3 n. 18521
dell’11/01/2018, Ferri, RV. 273217; sez. 6 n. 25255 del 14/02/2012, Minervini,
Rv. 253099, cit.).
In ogni caso, va ricordato che un ricorso per
cassazione che deduca il travisamento (e non soltanto l’erronea
interpretazione) di una prova decisiva, ovvero l’omessa valutazione di
circostanze decisive risultanti da atti specificamente indicati, impone di
verificare l’eventuale esistenza di una palese e non controvertibile difformità
tra i risultati obiettivamente derivanti dall’assunzione della prova e quelli
che il giudice di merito ne abbia inopinatamente tratto, ovvero di verificare
l’esistenza della decisiva difformità, fermo restando il divieto di operare una
diversa ricostruzione del fatto, quando si tratti di elementi privi di
significato indiscutibilmente univoco (cfr. sez. 4 n. 14732 dell’01/03/2011,
Molinari, Rv. 250133).
3.2. Quanto ai principi regolatori in materia
antinfortunistica, poi, deve premettersi che il datore di lavoro, quale
responsabile della sicurezza, ha l’obbligo non solo di predisporre le misure
antinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente sulla loro adozione
da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto, in virtù della
generale disposizione di cui all’art. 2087 cod. civ., egli è costituito garante
dell’incolumità fisica dei prestatori di lavoro [cfr. sez. 4 n. 4361 del
21/10/2014 Ud. (dep. 29/01/2015), Ottino, Rv. 263200].
Peraltro, in ordine alla ripartizione degli obblighi
di prevenzione tra le diverse figure di garanti nelle organizzazioni complesse,
il Supremo Collegio di questa Corte ha definitivamente chiarito che gli
obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di
lavoro possono essere sì trasferiti (con conseguente subentro del delegato
nella posizione di garanzia che fa capo al delegante), a condizione che il
relativo atto di delega ex art.
16 del d.lgs. n. 81 del 2008 riguardi un ambito ben definito e non l’intera
gestione aziendale, sia espresso ed effettivo, non equivoco ed investa un
soggetto qualificato per professionalità ed esperienza che sia dotato dei
relativi poteri di organizzazione, gestione, controllo e spesa (cfr. Sez. U. n.
33343 del 24/04/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261108).
Anche più di recente, del resto, si è affermato il
principio in materia di prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro,
diretto precipitato di quelli già richiamati, secondo cui, qualora vi siano più
titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario
dell’obbligo di tutela impostogli dalla legge per cui l’omessa applicazione di
una cautela antinfortunistica è addebitabile ad ognuno dei titolari di tale
posizione [cfr. sez. 4 n. 6507 dell’11/01/2018, Caputo, Rv. 272464; già in
precedenza cfr. sez. 4 n. 18826 del 09/02/2012,
Pezzo, Rv. 253850 (in un caso in cui era stata dedotta l’esistenza di un preposto
di fatto)].
3.3. Con specifico riferimento, poi, alla posizione
di garanzia del direttore di stabilimento, quale era incontestabilmente il
B.R.G.A., oltre ad apprezzarsi nella sentenza congrua risposta alle doglianze
difensive riproposte in ricorso, deve rilevarsene la coerenza con i principi
più volte ribaditi da questa Corte di legittimità.
In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro,
si è infatti ritenuto che, ai fini dell’individuazione del garante nelle
strutture aziendali complesse, occorre fare riferimento al soggetto
espressamente deputato alla gestione del rischio con la conseguenza che è
riconducibile alla sfera gestionale del direttore di stabilimento, con delega
in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, la sottoposizione
degli impianti a regolare manutenzione, al fine di rilevare ed eliminare
eventuali difetti pericolosi per la sicurezza e la salute dei lavoratori (cfr. sez. 4 n. 18409 del 28/03/2018, Oberti, Rv. 272802,
in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva
riconosciuto la responsabilità del direttore di stabilimento per l’infortunio
occorso a un lavoratore che aveva compiuto una pericolosa operazione per
supplire a un difetto di funzionamento di un macchinario, di cui il direttore
di stabilimento non era a conoscenza, per non avere predisposto e verificato
che il servizio di manutenzione ponesse in essere i necessari controlli e lo
tenesse costantemente informato sui loro esiti).
Deve, pertanto, ritenersi generalmente riconducibile
alla sfera di responsabilità del preposto l’infortunio occasionato dalla
concreta esecuzione della prestazione lavorativa, a quella del dirigente il
sinistro riconducibile al dettaglio dell’organizzazione dell’attività lavorativa
e a quella del datore di lavoro, invece, l’incidente derivante da scelte
gestionali di fondo (cfr. sez. 4 n. 22606 del 04/04/2017, Minguzzi, Rv.
269972).
Nella specie, la difesa ha asserito l’autonomia del
solo laboratorio a cui era addetto il lavoratore infortunato, rispetto a tutta
la realtà produttiva, laddove il richiamo al mansionario aziendale dava conto
delle conclusioni rassegnate dai giudici di merito in ordine alla posizione
apicale assunta dall’imputato rispetto a una realtà produttiva nella quale era
incontestabilemnte inserito anche quel laboratorio.
3.4. Anche per quanto riguarda il nesso eziologico,
con specifico riferimento al giudizio controfattuale che la difesa ha ritenuto
positivamente risolvibile in favore degli imputati e alla rilevanza del
comportamento imprudente del lavoratore, emerge una congrua risposta da parte
del giudice dell’appello. Questi ha, infatti, obiettato alle considerazioni
difensive fornendo del proprio convincimento una spiegazione in questa sede non
sindacabile, rispetto alla quale mette conto evidenziare la manifesta
infondatezza degli assunti difensivi (secondo cui i connotati del macchinario e
le mansioni del lavoratore rispetto ad esso avrebbero reso imprevedibile il
rischio di infortuni e il comportamento imprudente del lavoratore avrebbe
interrotto il nesso eziologico tra le omissioni contestate e l’evento) che si
annida nella semplice considerazione, chiaramente espressa dalla Corte
d’appello bolognese e con la quale la difesa ha omesso di confrontarsi, che la
dotazione del presidio di sicurezza omesso era inteso a prevenire proprio le
conseguenze di contatti accidentali tra macchinario e operatore, anche dovuti a
inaccortezza di quest’ultimo.
3.5. Alla stregua di tali principi, deve pertanto
concludersi nel senso che la Corte del merito ha debitamente svolto, attraverso
il richiamo alla prova orale assunta, la verifica demandatale, sulla scorta di
un giudizio meramente ipotetico, per verificare se il comportamento omesso
avrebbe, con un alto grado di probabilità logica, impedito o significativamente
ritardato il verificarsi dell’evento o comunque ridotto l’intensità lesiva
dello stesso (sui connotati del quale pare sufficiente, in questa sede, un
rinvio ai principi consolidatisi dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2002,
Franzese in avanti e più di recente con la sentenza delle Sezioni Unite
Espenhahn e altri del 2014, citata).
3.6. Con riferimento, poi, alla rilevanza – sotto il
profilo causale – della condotta imprudente o negligente del lavoratore, le
doglianze difensive sono infondate anche alla stregua dell’orientamento (cfr.,
sul punto, sez. 4 n. 8883 del 10/02/2016, Santini
e altro, Rv. 266073) secondo cui, in materia di prevenzione
antinfortunistica, si è passati da un modello “iperprotettivo”,
interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro investito di un
obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori (non soltanto fornendo i
dispositivi di sicurezza idonei, ma anche controllando che di questi i lavoratori
facessero un corretto uso, imponendosi contro la loro volontà), ad un modello
“collaborativo” in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti,
compresi i lavoratori, in tal senso valorizzando il testo normativo di
riferimento, il quale impone anche ai lavoratori di attenersi alle specifiche
disposizioni cautelari e agire con diligenza, prudenza e perizia (cfr. art. 20 d.lgs. 81/2008).
Orbene, pur dandosi atto che si è da tempo
individuato il principio di auto responsabilità del lavoratore, una volta
abbandonato il criterio esterno delle mansioni, sostituito con il parametro
della prevedibilità, intesa come dominabilità umana del fattore causale (cfr.,
in motivazione, sez. 4 n. 41486 del 2015,
Viotto), passandosi, a seguito dell’introduzione del d.lgs
626/94 e, poi, del T.U. 81/2008, dal
principio “dell’ontologica irrilevanza della condotta colposa del
lavoratore” al concetto di “area di rischio” (sez. 4, n. 21587
del 23.3.2007, Pelosi, Rv. 236721) che il datore di lavoro è chiamato a
valutare in via preventiva, tuttavia, deve pure osservarsi come resti in ogni
caso fermo il principio che non può esservi alcun esonero di responsabilità
all’interno dell’area di rischio, nella quale si colloca l’obbligo datoriale di
assicurare condizioni di sicurezza appropriate anche in rapporto a possibili
comportamenti trascurati del lavoratore (cfr. sez. 4 n. 21587 del 2007, Pelosi,
cit.).
All’interno dell’area di rischio considerata,
quindi, deve ribadirsi il principio per il quale la condotta del lavoratore può
ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta
del datore di lavoro e l’evento lesivo, non tanto ove sia imprevedibile,
quanto, piuttosto, ove sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante
dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di
garanzia (cfr. sez. 4 n. 15124 del 13712/2016, dep. 2017, Gerosa e altri, Rv.
269603; cfr. sez. 4 n. 5007 del 28/11/2018, dep. 2019, PMT c/ Musso Paolo, rv.
275017); oppure ove sia stata posta in essere del tutto autonomamente e in un
ambito estraneo alle mansioni affidategli e, come tale, al di fuori di ogni
prevedibilità da parte del datore di lavoro, oppure vi rientri, ma si sia
tradotta in qualcosa che, radicalmente quanto ontologicamente, sia lontano
dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore
nella esecuzione del lavoro (cfr. sez. 4 n. 7188 del 10/01/2018, Bozzi, Rv.
272222).
3.7. Parimenti, non si rinviene – nella risposta
approntata dalla Corte d’appello alle doglianze formulate con il gravame di
merito – alcuna lacuna motivazionale idonea a inficiare il complessivo
ragionamento probatorio svolto nella sentenza in questa sede censurata. In ogni
caso, questa Corte ritiene di ribadire il consolidato principio secondo cui non
è censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione
prospettata con il gravame, quando risulti che la stessa sia stata disattesa
dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata (cfr. sez. 1 n.
27825 del 22/05/2013, Caniello e altri, Rv. 256340; sez. 5 n. 6746 del
13/12/2018, dep. 2019, Currò Nicola, Rv. 275500). Trattasi di principi sui
quali è da ultimo ritornato il Supremo Collegio di questa Corte, ritenendo non
revocabile in dubbio la legittimità del ricorso alla motivazione implicita che
non costituisce l’opposto di quella esplicita, bensì «una particolare tecnica
espositiva, caratterizzata dal proporre un’argomentazione, espressa a
giustificazione di una determinata statuizione, in funzione di giustificazione
anche di altra statuizione, sul presupposto di una stretta conseguenzialità
logica e giuridica tra quanto affermato a riguardo della prima e quanto
valevole per la seconda». Cosicché, deve concludersi che, nella motivazione
implicita, manca il testo grafico ma non il discorso argomentativo [cfr., in
motivazione, Sez. Un. n. 20808 del 25/10/2018, dep. 2019, Schettino e altri (in
cui si è altresì precisato che il ricorso alla motivazione implicita, oltre a
trovare riscontro nella disciplina processuale, là dove essa impone che la
sentenza contenga “una concisa esposizione dei motivi di fatto e di
diritto” su cui è fondata (art. 544, primo
comma e 546, primo comma, lett. e, cod. proc
.pen.), è altresì compatibile con il diritto a un processo equo ex art. 6 della C.E.D.U., come
interpretato dalla Corte di Strasburgo (richiamando in motivazione la sentenza
della Quarta Sezione del 24.07.2015, nella causa Chipani ed altri c. Italia)].
3.8. Infine, la Corte territoriale ha adeguamente
giustificato la propria decisione in ordine al trattamento sanzionatorio,
attingendo a criteri a tal fine utilizzabili alla luce del disposto di cui all’art. 133 cod. pen. e assolvendo in tal modo
all’onere di fornire giustificazione dell’utilizzo del riconosciuto potere
discrezionale nella individuazione della pena. Quanto, poi, al diniego delle
circostanze attenuanti generiche, la stessa ratio della disposizione di cui
all’art. 62-bis cod. pen. non impone al giudice
di merito di esprimere una valutazione circa ogni singola deduzione difensiva,
essendo, invece, sufficiente l’indicazione degli elementi di preponderante
rilevanza ritenuti ostativi alla concessione delle attenuanti (cfr. sez. 2 n.
3896 del 20/01/2016, Rv. 265826; sez. 7 n. 39396 del 27/05/2016, Rv. 268475;
sez. 4 n. 23679 del 23/04/2013, Rv. 256201), rientrando la concessione delle
stesse nell’ambito di un giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del
giudice, il cui esercizio deve essere motivato nei soli limiti atti a far
emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l’adeguamento della
pena alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo (cfr. sez. 6
n. 41365 del 28/10/2010, Rv. 248737), non essendo neppure necessario esaminare
tutti i parametri di cui all’art. 133 cod. pen.,
ma sufficiente specificare a quale si sia inteso far riferimento (cfr. sez. 1
n. 33506 del 07/07/2010, Rv. 247959).
Da tale premessa, può ricavarsi, dunque, che una
simile funzione ha modo di esplicarsi efficacemente solo per rimuovere il
limite posto al giudice con la fissazione del minimo edittale, allorché questi
intenda determinare la pena al di sotto di tale limite, con la conseguenza che,
ove questa situazione non ricorra, perché il giudice valuta la pena da
applicare al di sopra del limite, il diniego della prevalenza delle generiche
diviene solo elemento di calcolo e non costituisce mezzo di determinazione
della sanzione e non può, quindi, dar luogo né a violazione di legge, né al corrispondente
difetto di motivazione (cfr. sez. 3 n. 44883 del 18/07/2014, Rv. 260627).
4. Alla inammissibilità dei ricorsi segue la
condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno della
somma di euro 2.000,00 in favore della cassa delle ammende, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., non ravvisandosi assenza
di colpa in ordine alla determinazione della causa di inammissibilità (cfr. C. Cost. n. 186/2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i
ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila
ciascuno a favore della Cassa delle ammende.