Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 marzo 2020, n. 5897
Licenziamento disciplinare, Arresto disposto per detenzione a
fini di spaccio di sostanze stupefacenti, Fatti storici accertati con sentenza
penale di cui all’art. 444 c.p.p., Idoneità ad
acquisire rilevanza in sede disciplinare, Natura e qualità del singolo
rapporto, della posizione delle parti, dell’oggetto delle mansioni e del grado
di affidamento che queste richiedono, Potenzialità del fatto di porre in
dubbio la futura correttezza dell’adempimento
Fatti di causa
La Corte d’Appello di Roma, in riforma della
pronuncia di prime cure, annullava il licenziamento disciplinare intimato in
data 13/11/2015 da A. s.p.a. nei confronti di R.D. a seguito dell’arresto
disposto per detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti e condannava
la società a reintegrare il D. nel posto di lavoro nonché alla corresponsione
dell’indennità risarcitoria prevista dall’art. 18 c. 4 l. 300/70 pro
tempore vigente.
A fondamento del decisum la Corte di merito
argomentava, per quanto qui rileva, che il lavoratore era stato licenziato ai
sensi dell’art. 6 del codice disciplinare, in base al quale è sancita la
destituzione del dipendente nel caso in cui abbia subito condanne penali in
conseguenza di delitti che non consentono la prosecuzione del rapporto di
lavoro in ragione della loro specifica gravità.
La Corte negava, tuttavia, che i fatti in relazione
ai quali il D. era stato tratto a giudizio, con procedimento conclusosi ex art. 444 e segg. c.p.p., fossero suscettibili di
essere qualificati in termini di specifica gravità secondo la previsione
codicistica.
Riteneva innanzitutto non applicabile alla
fattispecie il disposto di cui all’art. 653 c.1 bis
c.p.p. secondo cui la sentenza penale irrevocabile, e quindi, quella di
patteggiamento ad essa equiparata, ha efficacia di giudicato nel giudizio per
responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità; ciò in quanto non
si verteva in tema di rapporto di lavoro di pubblico impiego o di rapporto ad
esso equiparato. Pur muovendo, poi, dalla considerazione che – come emerso dai
dati istruttori acquisiti in giudizio – il ricorrente era abituale consumatore
di stupefacenti, osservava come tale dato non potesse costituire presupposto
logico-giuridico su cui fondare l’accusa di detenzione a fini di spaccio,
ostando a tale conclusione una serie di elementi fattuali di natura indiziaria;
escludeva, quindi che, sotto il profilo soggettivo, la pur esecrabile condotta
ascrivibile al reclamante – limitata all’uso abituale di sostanze stupefacenti
senza finalità di spaccio – fosse connotata da peculiare intensità.
Avverso tale decisione la società A. interpone
ricorso per cassazione sostenuto da tre motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c.
Resiste con controricorso la parte intimata.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia violazione e
falsa applicazione degli artt. 445 c. 1 bis, 653 c. 1 bis e 654 c.p.p.in relazione all’art. 360 comma primo n.3 c.p.c.
Si critica la statuizione con la quale è stato
escluso che la sentenza di patteggiamento faccia stato nel presente giudizio,
non vertendosi in tema di rapporto di pubblico impiego. Si sostiene per contro,
che in forza del combinato disposto di cui agli artt.
445 c. 1 bis, 653 c. 1 bis c.p.p.- secondo cui la sentenza di
patteggiamento ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità
disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della
sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e della affermazione che
l’imputato lo ha commesso – la sentenza di patteggiamento emessa nei confronti
del D., passata in giudicato, fa stato anche nel presente giudizio, quanto alla
realizzazione della condotta di detenzione a fini di spaccio di sostanze
stupefacenti, che non può, pertanto essere oggetto di ulteriore valutazione in
sede di giudizio civile; ciò tenendo conto anche del requisito di specialità che
connota il rapporto degli autoferrotranvieri più volte rimarcato dalla
giurisprudenza di legittimità che si è espressa nel senso della sussunzione di
detto rapporto nell’ambito della disciplina del pubblico impiego.
2. Il secondo motivo prospetta violazione e falsa
applicazione dell’art. 2119 c.c. nonché dell’art. 18 c. 4 I. 300 del 1970
in relazione all’art. 360 comma primo n.3 c.p.c.
Si stigmatizzano gli approdi ai quali è pervenuto il
giudice del gravame in relazione alla accertata insussistenza della specifica
gravità del fatto, tale da non consentire la continuazione, neanche in via
provvisoria, del rapporto.
Si deduce che la Corte di merito, nell’esaminare gli
stessi fatti, sia pure nella autonomia di giudizio ad essa spettante,
“riconosciuti dal Tribunale penale”, non abbia fatto “corretta
applicazione delle norme poste a base del recesso, non considerando che la condotta
posta in essere dal D. era tale da aver irrimediabilmente leso il vincolo di
fiducia con la società convenuta”, stante l’obiettivo disvalore del fatto
contestato, alla stregua degli standards valutativi invalsi nella realtà
sociale.
3. Con la terza censura si denuncia omesso esame
circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra
le parti ex art. 360 comma primo n.5 c.p.c.
Ci si duole che il giudice del gravame, nel valutare
il requisito della specifica gravità del fatto, abbia tralasciato di
considerare un fatto decisivo, costituito dalla detenzione da parte del
dipendente, di sostanze stupefacenti a fini di spaccio, nonostante ciò
risultasse dal procedimento penale e fosse stato evidenziato negli atti difensivi
del giudizio di appello.
4. Avuto riguardo alla ratio decidendi della
sentenza impugnata, il secondo motivo di ricorso va esaminato in via
preliminare perché potenzialmente decisivo. Tanto in applicazione del principio
della ragione più liquida, che, imponendo un nuovo approccio interpretativo con
la verifica delle soluzioni sul piano dell’impatto operativo, piuttosto che su
quello tradizionale della coerenza logico-sistematica, consente di sostituire
il profilo di evidenza a quello dell’ordine di trattazione delle questioni cui
all’art. 276 cod. proc. civ., con una soluzione
pienamente rispondente alle esigenze di economia processuale e di celerità del
giudizio, ormai anche costituzionalizzata (ex multis, vedi Cass. 9/1/2019 n.
363, Cass. 30/3/2016 n. 6165).
5. Esso è fondato e va accolto per le ragioni di
seguito esposte.
Deve premettersi che la giusta causa di
licenziamento, così come il giustificato motivo, costituiscono una nozione che
la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da
disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con disposizioni
(ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato
contenuto, delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in
sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi
alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente
richiama.
Tali specificazioni del parametro normativo hanno
natura di norma giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede
di legittimità come violazione di legge.
L’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto
dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le
sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa o
giustificato motivo di licenziamento, è quindi sindacabile in cassazione, a
condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e
meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di
incoerenza rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento,
esistenti nella realtà sociale ( vedi ex aliis, Cass.
20/5/2019 n. 13534; Cass. 23/9/2016 n. 18715).
Nell’approccio che è stato definito dalla dottrina
«multifattoriale», secondo il quale la condotta disciplinarmente rilevante
dev’essere collocata nel contesto complessivo in cui è avvenuta, possono poi
emergere una serie di circostanze, soggettive od oggettive, che consentano al
giudice di valutare, in concreto, la portata della condotta ascritta al
lavoratore, definendone i profili di conformità al modello legale.
Infatti, come questa Corte insegna (per tutte: Cass. 15/4/2005 n. 7838, Cass. 12/8/2009 n. 18247), il modulo generico che
identifica la struttura aperta delle disposizioni di limitato contenuto
ascrivibili alla tipologia delle cd. clausole generali richiede di essere
specificato in via interpretativa, allo scopo di adeguare le norme alla realtà
articolata e mutevole nel tempo.
La specificazione può avvenire mediante la
valorizzazione o di principi che la stessa disposizione richiama o di fattori esterni
relativi alla coscienza generale ovvero di criteri desumibili dall’ordinamento
generale, a cominciare dai principi costituzionali ma anche dalla disciplina
particolare, collettiva.
Dette specificazioni del parametro normativo hanno
natura giuridica e la loro errata individuazione è deducibile in sede di
legittimità come violazione di legge (tra le innumerevoli: Cass. 8/4/2016 n. 6901); non si sottrae, dunque,
al controllo di questa Corte il profilo della correttezza del metodo seguito
nell’individuazione dei parametri integrativi, perché, pur essendo necessario
compiere opzioni di valore su regole o criteri etici o di costume o propri di
discipline e/o di ambiti anche extragiuridici, “tali regole sono tuttavia
recepite dalle norme giuridiche che, utilizzando concetti indeterminati, fanno
appunto ad esse riferimento” (per tutte v. Cass.
18/1/1999 n. 434), traducendosi in un’attività di interpretazione giuridica
e non meramente fattuale della norma.
E’ stato poi evidenziato che l’attività di
integrazione del precetto normativo di cui all’art.
2119 c.c. compiuta dal giudice di merito è sindacabile in cassazione a
condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede
di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma
contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio
rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella
realtà sociale (cfr. Cass. 20/5/2019 n. 13534,
Cass. 17/1/2017 n. 985); solo l’integrazione a
livello generale e astratto della clausola generale si colloca, infatti, sul piano
normativo e consente una censura per violazione di legge. Poiché poi gli
elementi da valutare ai fini dell’integrazione della giusta causa di recesso
sono, per consolidata giurisprudenza, molteplici (gravità dei fatti addebitati,
portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, circostanze in cui sono state
commessi, intensità dell’elemento intenzionale, etc.) occorre guardare, nel
sindacato di legittimità, alla rilevanza dei singoli parametri ed al peso
specifico attribuito a ciascuno di essi dal giudice del merito, onde
verificarne il giudizio complessivo che ne è scaturito dalla loro combinazione
e saggiarne la coerenza e la ragionevolezza della sussunzione nell’ambito della
clausola generale (vedi Cass. S.U. n. 23287 del
2010).
6. Orbene, nello specifico, l’attività valutativa
svolta dalla Corte di merito, si è articolata muovendo dalla individuazione
della disposizione di legge in base alla quale è stata irrogata la massima
sanzione disciplinare.
L’art. 6 del codice disciplinare commina infatti la
destituzione del dipendente “in relazione a condanne penali subite in
conseguenza di delitti che non consentano la prosecuzione del rapporto in
ragione della loro specifica gravità”.
Il giudice del gravame ha tuttavia ritenuto che non
potesse ricondursi la condotta posta in essere dal D., all’archetipo normativo
della giusta causa di licenziamento, ritenendo i fatti oggetto di condanna in
sede penale, non assistiti dalla connotazione di specifica gravità del fatto.
E’ pervenuto a tale convincimento sul preliminare
rilievo della inidoneità della sentenza di patteggiamento, – equiparata ad una
pronuncia di condanna ai sensi dell’art. 445 c.p.p.
c. 1 bis – ad estendere gli effetti del giudicato nel giudizio per
responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto
all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale ed
all’affermazione che l’imputato lo ha commesso ai sensi dell’art. 653 c. 1 bis c.p.p.; ciò in quanto non si
verteva in tema di rapporto di lavoro di pubblico impiego o ad esso equiparato.
Ha quindi osservato, nello scrutinio della condotta
posta in essere dal lavoratore, che “non era stato visto nell’atto
concreto di spacciare”, “non era stato reperito materiale alcuno atto
al confezionamento di dosi singole”…apparendo insufficiente “il
rinvenimento di un coltellino intriso di diversa sostanza stupefacente” ed
“insignificante il possesso sulla propria persona…della somma di euro
105…”; non vi era prova di commistione fra lavoro e tossicodipendenza
perché la circostanza (pur riferita da un sottufficiale dei carabinieri) che
egli aveva ricevuto una busta verosimilmente contenente marjuana da uno
sconosciuto mentre si trovava a bordo della autovettura aziendale dal medesimo
condotta ” non poteva ritenersi provata ai sensi dell’art. 203 c.p.p. in quanto riferita da un
informatore non esaminato come teste in sede penale”.
7. Al riguardo, non può tralasciarsi di considerare
che – diversamente da quanto opinato dai giudici del gravame – questa Corte ha
affermato il principio alla cui stregua la sentenza penale di applicazione
della pena ex art. 444 c.p.p. ben può essere
utilizzata come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede
civile, atteso che in tal caso l’imputato non nega la propria responsabilità e
accetta una determinata condanna, chiedendone o consentendone l’applicazione,
il che sta univocamente a significare che il medesimo ha ritenuto di non
contestare il fatto e la propria responsabilità (vedi ex multis, Cass.
18/12/2017 n. 30328, Cass. 5/5/2005 n. 9358).
La sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. costituisce indiscutibile
elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere
tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui
l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice
penale abbia prestato fede a tale ammissione; detto riconoscimento, pertanto,
pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall’efficacia del giudicato,
ben può essere utilizzato come prova nel corrispondente giudizio di
responsabilità in sede civile (vedi Cass. cit. n. 30328/2017).
Nell’ottica descritta ed in applicazione del
ricordato insegnamento, devono ritenersi dimostrati i fatti storici accertati
con la sentenza penale di cui all’art. 444 c.p.p.
e la loro idoneità ad acquisire rilevanza in sede disciplinare e, di
conseguenza, lo svolgimento della attività di detenzione di sostanze
stupefacenti a fini di spaccio (in concorso con il collega Centra) oggetto della
sentenza di condanna penale.
Incongruo, alla luce delle summenzionate
considerazioni, è, dunque, da ritenersi il successivo giudizio espresso dalla
Corte di merito sul tema della specifica gravità del delitto per il quale era
stata subita condanna, perché muove da una premessa giuridica non corretta, e
si dipana con ragionamento valutativo conseguentemente errato.
La condotta posta in essere dal D., come definita in
sede penale nel giudizio concluso con sentenza di patteggiamento, deve essere
oggetto di valutazione, con specifico riferimento al giudizio di sussunzione
del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale; la società ha
infatti correttamente formulato specifica denuncia di non coerenza del predetto
giudizio espresso dalla Corte di merito rispetto agli standard, conformi ai
valori dell’ordinamento ed esistenti nella realtà sociale, in base ai quali
l’uso e la detenzione, anche a fini di spaccio, di sostanze stupefacenti, non
sonò consoni allo svolgimento di una prestazione lavorativa implicante contatto
con gli utenti da parte di un dipendente (esplicante mansioni di operatore
della mobilità addetto alla verifica del pagamento parcheggio per le vetture in
sosta) inserito in un ufficio di rilevanza pubblica.
In tal senso appaiono significativi anche i recenti
approdi ai quali è pervenuta questa Corte di legittimità in ordine a
fattispecie non dissimile da quella in questa sede scrutinata, laddove ha
affermato il principio alla cui stregua, viola certamente il “minimo
etico” la condotta extralavorativa di consumo di sostanze stupefacenti ad
opera di un lavoratore adibito a mansioni di conducente di autobus, definite
“a rischio”, a prescindere dal mancato riferimento, nell’ambito del r.d. n. 148 del 1931, alla descritta condotta
(vedi Cass. 24/5/2018 n. 12994).
7. Alla luce delle sinora esposte considerazioni le
doglianze formulate dalla società A. col secondo motivo vanno accolte entro i
termini descritti (restando logicamente assorbite le censure formulate con il
primo e terzo motivo di ricorso).
La sentenza va pertanto cassata con rinvio, ex art. 384 comma 2 c.p.c., alla Corte distrettuale
indicata in dispositivo che provvederà a scrutinare compiutamente la vicenda
considerata, attenendosi ai principi di diritto innanzi enunciati e tenendo
presente che nella operazione di sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa,
è differenziata l’intensità della fiducia richiesta, a seconda della natura e
della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell’oggetto
delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono; che la
valutazione del fatto concreto deve investire la sua portata oggettiva e
soggettiva; che deve essere conferito rilievo determinante, ai fini in esame,
alla potenzialità del medesimo di porre in dubbio la futura correttezza
dell’adempimento.
Al giudice del rinvio è demandato infine di
provvedere anche in ordine alle spese inerenti al presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione;
cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Roma in diversa
composizione cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del presente
giudizio.