Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 06 marzo 2020, n. 6438

Licenziamento, Soppressione del posto di lavoro, Compiti
ridistribuiti tra gli altri dipendenti, Anzianità lavorativa

Ritenuto in fatto

 

1. Adito da D.P. con ricorso ai sensi della L. n. 92 del 2012 per sentir dichiarare
l’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatogli
il 20.2.2015 dalla società L. s.p.a, il Tribunale rigettava la domanda in sede
sommaria. La decisione veniva confermata in sede di opposizione dallo stesso
giudice con sentenza n. 388/2017. L’opponente veniva condannato alla rifusione
delle spese processuali.

2. Contro la citata sentenza del Tribunale di Verona
D.P. proponeva reclamo dinanzi alla Corte di appello di Venezia. La società
datrice di lavoro si costituiva per resistere all’impugnazione.

3. Con sentenza non definitiva pubblicata il
24.5.2018, la Corte di appello accoglieva parzialmente il reclamo e, per
l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, dichiarava l’illegittimità del
licenziamento e, ai sensi dell’art.
18, commi VII e V, della legge n. 300 del 1970, dichiarava risolto il
rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento, condannando la
società reclamata al pagamento in favore del lavoratore di un’indennità
risarcitoria omnicomprensiva determinata in misura di 18 mensilità dell’ultima
retribuzione globale di fatto, disponendo la prosecuzione della trattazione
della causa in ordine al calcolo della retribuzione globale di fatto.

4. Per quanto interessa in questa sede, la Corte
territoriale accertava la genuinità della soppressione del posto di lavoro di
Responsabile della filiale di Verona ricoperto dal P.. Tuttavia, rilevando che
il reclamante svolgeva primari compiti di vendita, da ritenersi prevalenti
anche dopo l’aggiunta dell’attività di coordinamento del personale della
filiale di Verona, peraltro costituito da sole due unità, la Corte territoriale
osservava che tali compiti non venivano soppressi, bensì distribuiti tra gli
altri dipendenti. Assumendo poi la fungibilità delle mansioni del P. con quelle
di altri dipendenti, e di conseguenza l’applicabilità per analogia dei criteri
di scelta di cui all’art. 5,
comma 1, l. n. 223 del 1991 al fine di valutare il rispetto dei criteri di
correttezza e buona fede, la Corte di appello rilevava che il dipendente Z.,
incaricato di compiti di vendita fungibili a quelli del reclamante, a parità di
condizioni familiari e “pretese esigenze tecnico-produttive” vantava
un’anzianità lavorativa decisamente inferiore, essendo stato assunto nel 2006,
mentre l’assunzione del P. risaliva al 1994. Ritenuta l’illegittimità del
recesso, ne traeva le conseguenze sopra indicate. L’ammontare dell’indennità
risarcitoria veniva stabilito in considerazione della significativa anzianità
di servizio del lavoratore e delle dimensioni dell’azienda.

5. Avverso la citata sentenza non definitiva della
Corte di appello di Venezia la società datrice di lavoro propone ricorso per
cassazione affidato a quattro motivi di ricorso illustrati da memoria. D.P.
resiste con controricorso e ricorso incidentale contenente “domanda
incidentale di parziale riforma” della sentenza impugnata presentata in
via subordinata.

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso principale è infondato. Quello
incidentale condizionato è assorbito.

2. Con il primo motivo del ricorso principale la
società L. deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della I. n. 604 del 1966
per avere la Corte territoriale ritenuto che la redistribuzione delle mansioni
del dipendente licenziato tra altri soggetti già in forza all’azienda non
costituisca una tipica fattispecie di giustificato motivo oggettivo di
licenziamento secondo l’orientamento oramai costante della giurisprudenza di
questa Corte.

3. In realtà il motivo, ad avviso del Collegio, non
coglie l’effettiva portata della motivazione della sentenza impugnata, che
riconosce da una parte la genuinità della soppressione della sede di Verona
della società ricorrente, ma osserva d’altra parte, sulla base delle risultanze
istruttorie acquisite, che l’attività del lavoratore fosse principalmente
quella di venditore, mentre solo marginalmente egli si occupava del
coordinamento degli altri due dipendenti della filiale (pag. 9 della sentenza
impugnata), per cui il licenziamento non poteva essere giustificato dalla
semplice soppressione della sede di Verona, giacché le mansioni prevalenti del
lavoratore erano quelle di venditore, posizione quest’ultima che non era stata
in realtà soppressa. A questo proposito la Corte distrettuale osserva che la
stessa società datrice di lavoro ha riconosciuto che i compiti di vendita che
svolgeva il P. non erano venuti meno; che l’azienda anche dopo il suo
licenziamento aveva continuato a vendere nelle zone di Veneto e Friuli e ha
continuato ad aver bisogno di venditori; che per tale motivo era stata offerta
al P., come possibile alternativa al licenziamento, la trasformazione del suo
rapporto di lavoro in un rapporto di agenzia per ridurre i costi (pag. 10 della
sentenza impugnata).

4. La Corte territoriale non ha quindi, in contrasto
con i principi invocati dalla ricorrente, ritenuto l’illegittimità della
redistribuzione delle mansioni già affidate al lavoratore come Direttore della
filiale di Verona in seguito alla soppressione di quest’ultima, ma ha
considerato che tale soppressione non incideva sul posto di venditore occupato
dal lavoratore, posto che assorbiva prevalentemente le sue energie lavorative.

5. Ne deriva l’inammissibilità della doglianza, che
non è diretta contro la reale motivazione della sentenza impugnata sul punto.

6. Con il secondo motivo si deduce dalla società
ricorrente principale la violazione e falsa applicazione degli art. 1362 e s. cod.civ., dell’art. 7 L. n. 604 del 1966,
come sostituito dall’art. 1, comma
40, l. n. 92 del 2012 e dall’art.
7, comma 4, D.L. n. 76 del 2013, dell’art. 18, comma VI, l. n. 300 del
1970, come sostituito dall’art.
1, comma 42, lett. b), l. n. 92 del 2012 per avere la Corte di appello
ritenuto che la motivazione del licenziamento non facesse riferimento alla
soppressione dei compiti commerciali svolti dal lavoratore, bensì solo al suo
ruolo di responsabile della filiale di Verona. Sia dall’istanza alla D.T.L. sia
dalla lettera con cui veniva comunicato il licenziamento emergeva invece che
quando la società aveva manifestato l’intenzione di sopprimere il posto di
lavoro del P. aveva inteso riferirsi al complesso dei compiti e delle mansioni
che lo caratterizzavano, ivi inclusi quelli di carattere commerciale o di
vendita.

7. Anche questa doglianza è inammissibile. Essa
consiste, infatti, in una diversa lettura del contenuto della lettera di
licenziamento in data 20.12.2015 e quindi del risultato interpretativo in sé.
Ma esso spetta esclusivamente al giudice di merito ed è pertanto insindacabile
in sede di legittimità, qualora sorretto da congrua motivazione, esente da vizi
logici e giuridici (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n.
6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694), come appunto nel caso di specie, nel quale
la Corte di merito ha inteso l’espressione “responsabilità commerciale
della relativa zona” contenuta nella lettera di licenziamento come non
riferita alle “rilevanti mansioni commerciali” che individualmente
facevano capo al lavoratore (pag. 11 sentenza impugnata). Né, d’altro canto, in
presenza di un’interpretazione ben plausibile del giudice di merito neppure
essendo necessario che essa sia l’unica possibile o la migliore in astratto
(Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178), può darsi ingresso ad una sostanziale
sollecitazione a revisione del merito, discendente dalla contrapposizione di
una interpretazione dei fatti propria della parte a quella della Corte
territoriale (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694).

8. Con il terzo motivo la ricorrente principale si
duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 5 l. n. 223 del 1991
nonché degli art. 1175 e 1375 cod.civ. in quanto l’applicazione analogica
dei criteri di scelta del personale da licenziare previsti dalla normativa sui
licenziamenti collettivi anche ai licenziamenti individuali per giustificato
motivo oggettivo può ritenersi ammissibile solo quando vi sia l’esigenza di
ridurre personale con posizioni lavorative omogenee e fungibili, quindi in una
fattispecie che non ricorreva nel caso di specie. Inoltre, si deduce l’omesso
esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di
discussione tra le parti, in quanto la Corte territoriale avrebbe omesso di
considerare che le posizioni lavorative dello Z. e del P. non erano fungibili
ed omogenee, in quanto il P. aveva una retribuzione che era più del triplo di
quella dello Z. e svolgeva compiti di coordinamento e responsabilità della
filiale di Verona che lo Z. non aveva mai espletato. Inoltre solo una parte dei
compiti di vendita che svolgeva il P. era stata redistribuita tra il personale
già in forza, mentre i compiti di responsabilità e coordinamento delle vendite
erano stati assunti direttamente da un amministratore della società.

9. Questo motivo è infondato.

10. La società ricorrente non nega che
l’applicazione analogica dei criteri di scelta del personale da licenziare
previsti dalla normativa sui licenziamenti collettivi anche ai licenziamenti
individuali per giustificato motivo oggettivo debba ritenersi ammissibile.
Tuttavia, essa fa valere che a tali criteri di scelta può farsi ricorso solo
quando vi sia l’esigenza di ridurre personale con posizioni lavorative omogenee
e fungibili, mentre nella fattispecie le posizioni dei due lavoratori che
venivano in rilievo, cioè l’attuale controricorrente e il dipendente Z., non
erano fungibili, per vari motivi.

11. Sul piano della corretta applicazione delle
norme di diritto, la sentenza impugnata non afferma un principio diverso da
quello invocato dalla ricorrente, perché, per l’appunto, lo applica sul
presupposto della fungibilità delle mansioni dei due lavoratori, entrambi
incaricati di compiti di vendita.

12. In ordine all’accertamento di fatto compiuto
dalla Corte di merito per giungere alla conclusione della fungibilità dei due
lavoratori, pur non evocando esplicitamente l’art.
360, comma 1, n. 5 cod.proc.civ. la ricorrente denuncia l’omesso esame
circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra
le parti, in quanto la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare che le
posizioni lavorative dello Z. e del P. non erano fungibili ed omogenee, in
quanto il P. aveva una retribuzione che era più del triplo di quella dello Z. e
svolgeva compiti di coordinamento e responsabilità della filiale di Verona che
lo Z. non aveva mai espletato. Inoltre, solo una parte dei compiti di vendita
che svolgeva il P. era stata redistribuita tra il personale già in forza,
mentre i compiti di responsabilità e coordinamento delle vendite erano stati
assunti direttamente da un amministratore della società.

13. Il motivo presenta sotto questo aspetto profili
di inammissibilità per mancato rispetto del principio di autosufficienza del ricorso
in cassazione, giacché non vengono trascritti né indicati gli atti nei quali
queste circostanze sarebbero state esposte.

14. In ogni caso si tratta, ad avviso del Collegio,
di circostanze che non hanno natura decisiva. La ricorrente fa leva sulle conclusioni
della sentenza di prime cure, che aveva effettivamente ritenuto il difetto di
fungibilità tra i due lavoratori. La sentenza impugnata giunge invece alla
conclusione opposta sulla base della considerazione della omogeneità delle
mansioni — di vendita – svolte dai due dipendenti.

15. Relativamente alle ultime due circostanze
invocate dalla ricorrente, esse si scontrano con l’accertamento di fatto della
Corte di merito sulle prevalenti mansioni di vendita del P., in tutto omologhe
a quelle dell’altro lavoratore. Quanto alla prima, la differenza di
retribuzione non incide sulla nozione di fungibilità dei dipendenti, anche se
può essere utilizzata, purché in modo non arbitrario e improntato a
razionalità, accanto allo standard fornito dall’art. 5 della I. n. 223 del 1991
come criterio per individuare il soggetto da licenziare tra dipendenti
fungibili secondo i principi di correttezza e buona fede (Cass. n. 25191 del
2016), prospettazione quest’ultima non sottoposta al giudice di merito, avendo
l’azienda negato in radice la fungibilità tra i due dipendenti interessati, e
che evidentemente non potrebbe essere esaminata per la prima volta in questa
sede di legittimità. La circostanza non ha dunque valore decisivo non potendo
funzionare da discrimine allo scopo di determinare la fungibiLità dei
dipendenti.

16. Con il quarto motivo del ricorso principale la
società datrice di lavoro lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 18, comma VI, L. n. 300 del
1970, dell’art. 2 della L.
n. 604 del 1966 e dell’art.
7 della L. n. 604 del 1966, in quanto, se anche si fosse ritenuto che
l’istanza prodromica al licenziamento o la motivazione del licenziamento
fossero manchevoli per non aver indicato la soppressione anche delle mansioni
commerciali svolte dal P., ciò non avrebbe potuto portare ad una declaratoria
di illegittimità del licenziamento secondo il quinto comma dell’art. 18 bensì avrebbe dovuto
portare, al più, ad una pronuncia di inefficacia del licenziamento per vizio
formale secondo il sesto comma dell’art. 18 citato.

17. Anche questo motivo è infondato.

18. Esclusa l’ipotesi di “manifesta
insussistenza del fatto” posto a fondamento del giustificato motivo
oggettivo di licenziamento, la Corte territoriale, trattandosi di “altra
ipotesi” nella quale era stata accertata l’assenza del giustificato motivo
oggettivo di licenziamento, ai sensi del settimo comma dell’art. 18 L. n. 300 del 1970,
applicabile ratione temporis, ha fatto corretta applicazione della tutela di
cui al quinto comma dello stesso articolo, non ricorrendo nella fattispecie
l’ipotesi di mero “vizio formale” del licenziamento, di cui al sesto
comma della medesima disposizione, invocata dalla società ricorrente.

19. Con l’unico motivo di ricorso incidentale
condizionato il lavoratore osserva che la Corte territoriale non si è
pronunciata sulla illegittimità del licenziamento per violazione dell’obbligo
di repéchage, e ripropone pertanto le sue difese sul punto, ribadendo la sua
domanda subordinata.

20. Il rigetto del ricorso principale comporta
evidentemente l’assorbimento di quello incidentale.

21. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate
come in dispositivo.

22. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma
del comma 1-bis dello stesso art.
13, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso principale, assorbito il ricorso
incidentale. Condanna la ricorrente principale al pagamento, in favore del
controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro
200,00 per esborsi, curo 5.000,00 per compensi, oltre spese generali nella
misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente principale, di un ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso
principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 06 marzo 2020, n. 6438
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