Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 marzo 2020, n. 6639

Volontà dimissionaria del dipendente non coartata, Ipotesi di
licenziamento non configurabile, Differenze retributive accertate alla luce
della tempestiva impugnazione della rinuncia alle stesse

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza in data 23 settembre 2014, la Corte
d’Appello di Roma ha parzialmente accolto l’impugnazione proposta da A.C.
avverso la sentenza di primo grado che aveva respinto la domanda volta ad
ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato al
ricorrente e sottoposto alla condizione sospensiva della eventuale declaratoria
di invalidità delle dimissioni da lui rassegnate.

1.1. Ha osservato in particolare il giudice di
secondo grado che nel ricorso introduttivo, parte ricorrente, che pure ne aveva
fatto richiesta in sede cautelare, non aveva proposto alcuna domanda di
annullamento o invalidità delle dimissioni che asseriva essergli state estorte,
essendosi limitata ad instare per la declaratoria di illegittimità del
licenziamento intimato in via subordinata rispetto alla ritenuta invalidità
delle dimissioni.

La Corte ha, quindi, ritenuto di condividere
l’assunto del primo giudice circa l’insussistenza di una coartazione della
volontà del C. le cui dimissioni ha reputato rassegnate consapevolmente quale
frutto di volontà transattiva ma ha poi ritenuto la inefficacia della rinuncia
al TFR e a tutte le spettanze retributive in quanto tempestivamente impugnate
ex art. 2113 cod. civ., ed ha così determinato
la complessiva somma di euro 53.087,35 ritenendo provate e dovute le trattenute
rispetto alla maggior somma richiesta dal ricorrente.

2. Avverso tale pronunzia propone ricorso, assistito
da memoria, A.C. affidandolo a quattro motivi.

2.1 Resiste con controricorso la N. italiana S.r.l.
e propone, altresì, ricorso incidentale affidato a due motivi.

 

Considerato in diritto

 

1. Con il primo motivo di ricorso si prospetta la
violazione degli artt. 416 comma 3 cod. proc. civ.
e dell’art. 2697 cod. civ. per non aver la
Corte riconosciuto le somme oggetto di allegazione e non contestazione da parte
della società, con il secondo motivo si deduce la violazione degli artt. 19 L. n. 218/1952 e 23 DPR 600/73 per aver la Corte
riconosciuto al ricorrente il TFR e le competenze di fine rapporto avendo
riguardo alle sole “trattenute” risultanti dalla busta paga del
dicembre 2001, mentre, con il terzo motivo, si deduce la violazione dell’art. 132 n. 4 cod. proc. civ.

1.1. Il primo motivo è infondato.

1.1.1. Con riguardo alla dedotta violazione del
principio di non contestazione inerente le somme pretese dal ricorrente, va
premessa l’assoluta genericità del motivo, che non consente allo stesso di
rispettare i canoni di cui all’art. 366 cod. proc.
civ., attesa la mancata produzione di atti difensivi della parte
controricorrente da cui possa evincersi la mancata contestazione ed alla luce,
anzi, della compiuta ed articolata contestazione della N. s.r.l. riportata in
ampi stralci nel controricorso.

Occorre, poi, rilevare che il principio di non
contestazione opera rispetto ai fatti costitutivi, modificativi o estintivi del
diritto azionato e non anche in relazione a fattispecie, come quella del
diritto al riconoscimento di voci retributive peculiari, in ordine alle quali
occorre la prova dei fatti costitutivi (per es., per le MPI, o le stock options
quella del raggiungimento degli obiettivi), il cui accertamento, richiedendo un
riscontro su aspetti ulteriori deve essere necessariamente ricondotto al
“thema probandum” come disciplinato dall’art.
2697 c.c., la cui verificazione spetta al giudice.

1.1.2. Va poi rilevato che, in tema di ricorso per
cassazione, la violazione dell’art. 2697 cod. civ.
si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere
della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare
secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza
tra fatti costitutivi ed eccezioni, (cfr., ex plurimis, sul punto, Cass.
23/10/2018 n. 26769).

2. Anche il secondo motivo è infondato.

2.1. Nessuna violazione delle disposizioni normative
in tema di contribuzione previdenziale può dirsi perpetrata nel caso di specie
mentre risulta evidente che parte ricorrente mira ad ottenere una diversa
ricostruzione fattuale inammissibile in sede di legittimità.

Né può dirsi che la Corte sia incorsa nella
violazione del principio consolidato secondo cui l’accertamento e la
liquidazione del credito spettante al lavoratore per differenze retributive
devono essere effettuati al lordo sia delle ritenute fiscali, sia di quella
parte delle ritenute previdenziali gravanti sul lavoratore. Quanto a queste
ultime, al datore di lavoro è consentito procedere alle ritenute previdenziali
a carico del lavoratore solo nel caso di tempestivo pagamento del relativo
contributo (ai sensi dell’art.
19 della legge 4 aprile 1952, n. 218); per quanto concerne, invece, le
ritenute fiscali, esse non possono essere detratte dal debito per differenze
retributive, giacché la determinazione di esse attiene non al rapporto
civilistico tra datore e lavoratore, ma a quello tributario tra contribuente ed
erario, e dovranno essere pagate dal lavoratore soltanto dopo che il lavoratore
abbia effettivamente percepito il pagamento delle differenze retributive
dovutegli (Cass. n. 19790 del 2011; conformi
successive: Cass. n. 21010 e 3525 del 2013, Cass.
n. 18044 del 2015). Tale principio risulta perfettamente rispettato.

A guardar bene, invero, il giudice di secondo grado
ha proceduto ad un accertamento di fatto conclusosi nel senso di ritenere
“provate e dovute le sole trattenute di cui all’allegato 1…”.

Si tratta, come è evidente, di un accertamento
fattuale in ordine al quale nessun elemento viene introdotto a scalfire l’iter
decisorio talché deve ritenersi che in base ad una valutazione di fatto,
sottratta ove non incongrua al sindacato di legittimità, il giudice abbia
ritenuto provate soltanto quelle somme rispetto alle quali sia stata offerta la
prova in giudizio, somme corrispondenti, nel caso di specie, alle “trattenute”
di cui all’allegato.

3. Il terzo motivo è infondato.

Va rilevato, al riguardo, che può ritenersi nulla,
ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc.
civ., per violazione dell’art. 132, comma 2, n.
4, cod. proc. civ., la sola motivazione apparente, quella, cioè che non
costituisce espressione di un autonomo processo deliberativo, quale la sentenza
di appello motivata “per relationem” alla sentenza di primo grado,
attraverso una generica condivisione della ricostruzione in fatto e delle
argomentazioni svolte dal primo giudice, senza alcun esame critico delle stesse
in base ai motivi di gravame (sul punto, ex plurimis, Cass. n. 27112 del
25/10/2018).

Non può ritenersi che, nel caso di specie, ci si
trovi di fronte ad una motivazione soltanto apparente, avendo dato conto il
giudice di secondo grado delle ragioni che lo hanno indotto a ritenere non
coartata la volontà dimissionaria del dipendente, non configurabile una ipotesi
di licenziamento ed infine dovute le differenze retributive accertate alla luce
della tempestiva impugnazione della rinuncia alle stesse, effettuata ex art. 2113 cod. civ.

4. Relativamente al quarto motivo, con cui si deduce
la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e 132 n. 4 cod. proc. civ., va ancora una volta
ribadita la genericità della deduzione cui va aggiunta l’infondatezza della
stessa vertendosi in ipotesi di rigetto implicito della domanda alla luce della
piana motivazione del giudice di secondo grado.

5. Il primo motivo del ricorso incidentale è
infondato.

La società ricorrente lamenta una violazione di
legge con riguardo agli artt. 1965, 1362, 1363, 1364 e 2113 cod. civ.
deducendo l’erronea interpretazione delle dichiarazioni rese dal dipendente
nella comunicazione tesa a voler risolvere il rapporto e riconoscere la
rifusione dei danni cagionati con rinuncia alle spettanze retributive.

La configurazione di tale dichiarazione come
rinuncia è questione rientrante nel prudente apprezzamento del giudice di
secondo grado e sottratta ad una diversa valutazione del giudice di
legittimità.

D’altro canto, la parte che, con il ricorso per
cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento
nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a
richiamare genericamente le regole di cui agli artt.
1362 e ss. cod. civ., avendo l’onere di specificare i canoni che in
concreto assuma violati ed il punto ed il modo in cui il giudice del merito si
sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera
contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella
sentenza impugnata, e dovendo i rilievi contenuti nel ricorso essere
accompagnati, in ossequio al principio di autosufficienza, dalla trascrizione
delle clausole individuative dell’effettiva volontà delle parti, al fine di
consentire alla Corte di verificare l’erronea applicazione della disciplina
normativa (Cass. 15/11/2013, n. 25728).

5. Con il secondo motivo di ricorso incidentale si
denunzia la violazione degli artt. 2934, 2943 e 2948 cod. civ.
nonché l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti.

Per costante giurisprudenza di legittimità, (cfr.,
fra le più recenti, Cass. n. 20335 del 2017,
con particolare riguardo alla duplice prospettazione del difetto di motivazione
e della violazione di legge) il vizio relativo all’incongruità della
motivazione di cui all’art. n. 360, n. 5, cod.
proc. civ., comporta un giudizio sulla ricostruzione del fatto
giuridicamente rilevante e sussiste quando il percorso argomentativo adottato
nella sentenza di merito presenti lacune ed incoerenze tali da impedire
l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione, o
comunque, qualora si addebiti alla ricostruzione di essere stata effettuata in
un sistema la cui incongruità emerge appunto dall’insufficiente,
contraddittoria o omessa motivazione della sentenza. Invece, attiene alla
violazione di legge la deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del
provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di
legge implicando necessariamente una attività interpretativa della stessa.
Nella specie, la stessa piana lettura delle modalità di formulazione dei motivi
considerati induce ad escludere, ictu oculi, la deduzione di una erronea
sussunzione nelle disposizioni normative mentovate della fattispecie
considerata, apparendo, invece, chiarissima l’istanza volta ad ottenere una
inammissibile nuova valutazione del fatto.

La parte si sofferma, invero, sostanzialmente sulla
ricostruzione in fatto della vicenda e delle sue conseguenze – deducendo
l’omesso esame di circostanze rilevati – e mira ad ottenere una rivisitazione
del merito in ordine all’interpretazione della maturazione della prescrizione,
pacificamente rimessa al giudice di secondo grado. Relativamente alla dedotta
violazione dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.,
va rilevato che, in seguito alla riformulazione dell’art.
360, comma 1, n. 5 del cod. proc. civ., disposto dall’art. 54 co 1, lett. b), del DL 22
giugno 2012 n. 83, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 2012 n. 134 è stata limitata la
impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di
motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per
il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la
conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di
legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del
requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale”
richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. ed
individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della
Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note
ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del
provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile
contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono
nella violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4),
c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del
prescritto requisito di validità ( fra le più recenti, Cass. n. 23940 del
2017); non ricorrendo alcuna di dette ipotesi, la censura risulta
inammissibile.

6. Alla luce delle suesposte argomentazioni,
entrambi i ricorsi vanno respinti.

6.1. La reciproca soccombenza suggerisce di disporre
l’integrale compensazione delle spese relative al giudizio di legittimità.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente
principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il relativo ricorso, a norma
dell’art. 1 -bis dell’articolo 13
comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Respinge il ricorso principale e quello incidentale.
Compensa integralmente le spese di lite. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente principale e incidentale, dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso
principale e incidentale, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 marzo 2020, n. 6639
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