Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 marzo 2020, n. 6643
Pensione di anzianità, Domanda amministrativa, Situazione
contributiva, Art. 54, I. n.
88/1989, Certificazione
Fatti di causa
Con sentenza depositata il 4.12.2013, la Corte
d’appello di Venezia ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva
rigettato la domanda di P.Z. volta a condannare l’INPS a corrispondergli la
pensione di anzianità con decorrenza dalla domanda amministrativa e a
risarcirgli i danni patrimoniali e non patrimoniali derivanti dal ritardo,
nonché, in subordine, ad autorizzarlo ai versamenti volontari utili a coprire
la contribuzione mancante e ad obbligare l’INPS a riceverseli, riconoscendogli
conseguentemente il diritto ad averli computati ai fini della pensione, nonché,
in ulteriore subordine, a condannare l’INPS a corrispondergli la rendita ex art. 13, I. n. 1338/1962, in
relazione ai contributi omessi e prescritti.
La Corte, in particolare, ha ritenuto che l’estratto
conto certificativo inviato all’assicurato in data 13.9.2006 non potesse
fondare in costui alcun ragionevole affidamento, evidenziando un periodo in
relazione al quale erano ancora in corso accertamenti circa i redditi da lui
percepiti, e che, di conseguenza, nessun danno risarcibile egli poteva
lamentare a causa della condotta dell’Istituto; sotto altro profilo, ha
ritenuto che, essendosi i contributi relativi all’anno 1998 irrimediabilmente prescritti,
nessun diritto poteva l’assicurato vantare a versarli volontariamente.
Ha ricorso per la cassazione di tali statuizioni P.
Z., formulando quattro motivi di censura, illustrati con memoria. L’INPS ha
resistito con controricorso.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo, il ricorrente denuncia
violazione e falsa applicazione dell’art. 54, I. n. 88/1989, per
non avere la Corte di merito riconosciuto valore certificativo alla
comunicazione inoltratagli dall’INPS il 13.9.2006, con la quale gli era stata
indicata la sua situazione contributiva, e avere piuttosto attribuito valore di
riserva circa il suo contenuto ad una mera clausola di stile, quale doveva
ritenersi la dizione «reddito da verificare» genericamente riferita ai
contributi relativi ad alcuni periodi.
Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta
violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 9, I. n. 335/1995,
per avere la Corte territoriale ritenuto che la prescrizione dei contributi a
percentuale, pur essendo imputabile al ritardo dell’INPS nell’attivarsi per
richiederli, dovesse ridondare in danno pensionistico a suo carico.
Con il terzo motivo, il ricorrente si duole di
violazione e falsa applicazione dell’art. 2935 c.c.
per avere la Corte di merito ritenuto l’infondatezza della sua richiesta di
condannare l’INPS a riceversi i contributi prescritti.
Con il quarto motivo, infine, il ricorrente deduce
violazione e falsa applicazione degli artt. 112
c.p.c. e 2043 c.c., per non avere la Corte
territoriale provveduto alla quantificazione del danno pure riconosciutogli.
Detto che tale ultimo motivo appare inammissibile
per manifesta estraneità al decisum, non avendo la Corte di merito riconosciuto
alcun danno in concreto risarcibile per aver attribuito autonoma efficacia
causale, rispetto al suo verificarsi, al comportamento non diligente dell’odierno
ricorrente, che ha riposto affidamento su una certificazione non completa in
ordine ad un dato (i.e., il reddito prodotto nell’anno 1998) che egli stesso
era in grado di controllare (cfr. pagg. 6-7 della sentenza impugnata), il primo
motivo è infondato.
Va premesso che, con riguardo alla certificazione di
cui all’art. 54, I. n. 88/1989,
questa Corte ha avuto modo di precisare anzitutto che si tratta di
certificazione che fa piena prova, fino a querela di falso, dei dati in
possesso dell’ente previdenziale nonché degli accertamenti compiuti in
occasione del rilascio del certificato medesimo, e che, tuttavia, il suo valore
certificativo non si estende alla verità della situazione sostanziale: il
diritto alle prestazioni previdenziali sorge infatti solo in presenza dei
requisiti previsti dalla legge, che vanno provati nei modi ordinari, e
argomentare diversamente equivarrebbe ad attribuire alla certificazione de qua
un’efficacia costitutiva del diritto alla prestazione, che logicamente non può
possedere (Cass. n. 7291 del 2008).
Piuttosto, il contenuto della certificazione può
fondare il diritto al risarcimento dei danni in favore dell’assicurato che si
sia visto rigettare la domanda della prestazione previdenziale sulla scorta
della discordanza tra il contenuto della certificazione rilasciatagli e la
realtà del rapporto contributivo (così, tra le tante, Cass. n. 16044 del 2004): fermo restando che la
responsabilità dell’ente può configurarsi soltanto ove le informazioni siano
rese oppure omesse su specifica domanda dell’interessato e si riferiscano a
dati di fatto concernenti la sua posizione assicurativa (così da ult. Cass. n. 2498 del 2018) e che l’ammontare del
risarcimento dei danni può essere limitato nell’ipotesi in cui l’assicurato,
con il proprio comportamento non diligente, abbia concorso al verificarsi
dell’evento dannoso, ai sensi dell’art. 1227, comma
1°, c.c. (Cass. n. 23114 del 2019),
l’esonero dell’ente previdenziale dalla responsabilità risarcitoria, che ha
natura contrattuale, consegue soltanto alla prova che la causa dell’errore
fosse esterna alla sua sfera di controllo e affatto inevitabile nonostante
l’applicazione della normale diligenza (Cass. n. 26925 del 2008).
Reputa, nondimeno, il Collegio che il valore
propriamente certificativo delle comunicazioni rese ex art. 54, I. n. 88/1989 (che,
com’è noto, stabilisce che «è fatto obbligo agli enti previdenziali di
comunicare, a richiesta esclusiva dell’interessato o di chi ne sia da questi
legalmente delegato o ne abbia diritto ai sensi di legge, i dati richiesti
relativi alla propria situazione previdenziale e pensionistica» e che «la
comunicazione da parte degli enti ha valore certificativo della situazione in
essa descritta») possa logicamente predicarsi, sia pure ai limitati fini
risarcitori di cui dianzi s’è detto, soltanto per le comunicazioni concernenti
i dati di fatto della posizione assicurativa che siano state rilasciate ad
assicurati che siano terzi rispetto al rapporto contributivo sulla cui base è
modulato il loro rapporto previdenziale, non anche per le comunicazioni
rilasciate ad assicurati che siano anche parte del rapporto contributivo
stesso: l’attività amministrativa di certazione di fatti giuridicamente
rilevanti si risolve infatti nell’obbligo di assumere come certo ciò che è
enunciato nell’atto di certazione e in tanto quest’obbligo può avere un senso
in quanto la certezza venga attribuita ad un fatto di cui colui che di
quell’atto si avvale nel commercio giuridico non ha (perché non può avere) conoscenza
alcuna, non anche allorché si tratti di un fatto che rientra nella sua sfera di
diretta conoscibilità; diversamente, dovrebbe ritenersi che un soggetto sia
obbligato a tenere per certo il contenuto di un certificato riportante notizie
erronee sul suo conto e di cui egli stesso è a conoscenza, il che, oltre ad
essere logicamente assurdo, è contrario alle regole proprie dell’ordinamento,
che appresta all’interessato specifici rimedi, amministrativi e
giurisdizionali, affinché il fatto giuridico venga riconosciuto nella sua
effettiva storicità e produca i suoi effetti.
In altri termini, la qualità tipica dell’atto di
certazione, secondo cui nessuno può assumere che il fatto che vi è documentato
è diverso da come è ivi raffigurato, può fondare un affidamento meritevole di
tutela soltanto in colui che rispetto a quel fatto sia terzo, perché è solo
costui che può essere realmente obbligato a tener per certo ciò che nell’atto è
descritto come accaduto. Il che, manifestamente, non è nel caso di specie, in
cui l’odierno ricorrente, essendo parte del rapporto contributivo rispetto al
quale si è verificata l’omissione, così come non poteva ritenersi obbligato a
tener per certo quanto dichiaratogli dall’INPS circa la consistenza del proprio
rapporto contributivo, allo stesso modo non poteva fondare alcun affidamento
meritevole di tutela su eventuali errori che l’INPS avesse compiuto nel
comunicargli i dati relativi a tale parte del rapporto assicurativo: per
principio generale dell’ordinamento, solo i terzi in buona fede e senza colpa
possono giovarsi dell’apparenza determinatasi in relazione ad una situazione di
fatto che non sia corrispondente all’effettiva situazione giuridica (cfr., fra
le numerose, Cass. nn. 3029 del 1976, 742 del 1983 e, più recentemente, Cass.
n. 14636 del 2014).
Parimenti infondato è il secondo motivo.
Benché questa Corte abbia avuto modo di affermare
che appare conforme al diritto far gravare sull’ente previdenziale,
istituzionalmente deputato alla tutela di interessi di rango costituzionale, le
conseguenze negative della mancata attivazione per la riscossione del credito
per contributi previdenziali, trattandosi di un credito che, ancorché proprio,
vale a soddisfare altro diritto inerente alle esigenze di vita del lavoratore
in caso di invalidità, vecchiaia, ecc. (così Cass.
n. 7459 del 2002), tale principio, della cui tenuta su un piano sistematico
non mette conto in questa sede occuparsi, è stato enunciato in una fattispecie
in cui il lavoratore assicurato aveva dato comunicazione dell’omissione
contributiva del datore di lavoro al competente ente previdenziale e
quest’ultimo non aveva tempestivamente provveduto alle azioni necessarie per
conseguire i contributi omessi, determinandone la prescrizione. E trattandosi
di fattispecie strutturalmente diversa da quella per cui qui è causa, dal
momento che riguardava un lavoratore subordinato e dunque un soggetto terzo
rispetto al rapporto contributivo, è evidente che non può essere esteso a chi,
come l’odierno ricorrente, abbia invece dato causa, col proprio inadempimento,
all’omissione contributiva: vuoi perché, in difetto di esplicite norme di legge
o di legittima fonte secondaria che eccezionalmente dispongano in senso
contrario, il principio di automatismo delle prestazioni previdenziali di cui
all’art. 2116 c.c. , non trova applicazione nel
rapporto tra lavoratore autonomo ed ente previdenziale (così, tra le tante,
Cass. n. 6340 del 2005), vuoi perché, più in generale, non è consentito a
nessuno di giovarsi delle conseguenze dei propri inadempimenti.
Infondato, infine, è anche il terzo motivo.
Questa Corte ha da tempo consolidato il principio
secondo cui il fatto costitutivo dell’obbligazione contributiva dei contributi
a percentuale è costituito dall’avvenuta produzione, da parte del lavoratore
autonomo, di un determinato reddito, con la conseguenza che il momento di
decorrenza della prescrizione dei contributi in questione, ai sensi dell’art.
3, I. n. 335/1995, deve identificarsi con la scadenza del termine per il loro
pagamento (Cass. nn. 13463 del 2017, 19640 e 27950 del 2018); e poiché l’art. 3, comma 9, I. n. 335/1995,
stabilisce che, a far data dal 1°.1.1996, le contribuzioni di previdenza e di
assistenza sociale obbligatoria si prescrivono e non possono essere versate con
il decorso del termine di cinque anni, non può ammettersi alcuna possibilità di
adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva.
Il ricorso, pertanto, va rigettato, provvedendosi
come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, che seguono la
soccombenza.
Tenuto conto del rigetto del ricorso, sussistono i
presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove
dovuto, previsto per il ricorso.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla
rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in €
5.200,00, di cui € 5.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari
al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n.
115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del
comma 1-bis dello stesso art. 13.