Per la Cassazione la plusvalenza conseguita dalla cessione di azioni derivanti da un piano di stock option è determinata secondo le norme in vigore alla data in cui il contribuente ha esercitato i suoi diritti di opzione.
Nota a Cass. (ord.) 29 gennaio 2020, n. 1955 e AdE Risp. 5 febbraio 2020, n. 23
Francesco Palladino
Il regime impositivo di una cessione di azioni derivanti da un piano di stock option va determinato in base alle norme in vigore al momento dell’esercizio del diritto di opzione e non in base a quelle in vigore al momento dell’assegnazione. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con ord. 29 gennaio 2020, n. 1955, in una vicenda processuale originata da un’istanza (sulla quale si formava il silenzio-rifiuto) che il contribuente aveva inoltrato all’Ufficio per ottenere il rimborso di quanto trattenuto dal datore di lavoro e di quanto da lui versato, con riferimento alla cessione di un pacchetto di azioni acquisite tramite l’esercizio di alcune stock option che gli erano state offerte. La concessione del diritto all’acquisto di azioni risaliva al 2004, mentre l’esercizio di tale diritto e la successiva vendita risalivano al 15 dicembre 2006.
Il contribuente riteneva errato il criterio impositivo applicatogli per effetto del quale aveva trovato applicazione il regime vigente nel 2006.
Tale regime, particolarmente restrittivo, derivava dalle modifiche apportate all’art. 51, co. 2-bis), TUIR, dal D.L. n. 262/2006, che ha previsto la tassazione della plusvalenza quale componente del reddito da lavoro dipendente secondo i modi ordinari.
Per il dipendente, ancorché tale regime fosse vigente alla data della cessione, non avrebbe dovuto applicarsi nel caso concreto giacché, in base all’art. 3, co.1, della L. n. 212/2000, le nuove disposizioni avrebbero dovuto aver efficacia solo a partire dal periodo d’imposta successivo a quello della loro entrata in vigore. Inoltre, a suo avviso, la modifica restrittiva non avrebbe dovuto esplicare i suoi effetti anche in ragione del fatto che i diritti derivanti dall’opzione si erano perfezionati al momento dell’offerta (avvenuta nel 2004) e non al momento in cui il dipendente li aveva esercitati (ovverosia nel 2006).
Dunque, per il periodo d’imposta 2006, doveva trovare applicazione il previgente art. 51, co. 2, lett. g-bis), TUIR in base al quale la plusvalenza avrebbe dovuto essere tassata con l’aliquota agevolata del 12,50%.
Di diverso avviso è l’Agenzia delle entrate che, proponendo ricorso avverso la sentenza dell’adita CTR, ha censurato sia la tesi secondo cui i diritti derivanti dall’opzione si perfezionano già al momento dell’offerta (e non al momento in cui il dipendente li ha esercitati), sia la tesi secondo cui le modifiche apportate all’art. 51 TUIR, disposte dal D.L. n. 262/2006, hanno efficacia solo dal periodo d’imposta successivo a quello di entrata in vigore delle modifiche normative.
La Corte di Cassazione, investita della questione, ha, in primo luogo, statuito che la data da considerare al fine di stabilire quale sia il regime fiscale cui assoggettare la plusvalenza è quella in cui il contribuente ha esercitato i suoi diritti di opzione (nel caso concreto il 15 dicembre 2016); inoltre, tenuto conto che il D.L. n. 262/2016 è entrato in vigore in data 3 ottobre 2016, trova applicazione il regime da esso previsto perché vigente già in data antecedente a quello di esercizio del diritto.
In merito alla violazione e falsa applicazione dell’art. 3, co.1, della L. n. 212/2000, la Corte di Cassazione ha ritenuto non condivisibili le argomentazioni prospettate dal contribuente, statuendo che “nella specie, è da ritenere non potesse il contribuente nutrire alcun affidamento sulla immutabilità del regime agevolativo vigente al momento dell’offerta del diritto di opzione, posto che non vi era alcuna certezza che, successivamente, e cioè all’atto dell’effettivo esercizio, il valore dei titoli avrebbe registrato un incremento rispetto a quello precedente. Il maturare di una plusvalenza era una mera eventualità, per cui egli non poteva confidare sulla persistenza di un regime impositivo (a lui più favorevole) in mancanza del presupposto che ne avrebbe determinato l’applicazione e senza la certezza che quel presupposto sarebbe intervenuto”. Su queste basi, la Suprema Corte ha quindi statuito che “le modifiche introdotte dalle innovazioni del 2006, già vigenti all’atto dell’esercizio dell’opzione, non confliggono, nella specie, con quanto disposto dalla L. n. 212 del 2000, art. 3, co. 1”.
In conclusione, dunque, nel caso di una cessione di partecipazioni derivanti da un piano di stock option, trova applicazione il regime vigente alla data dell’esercizio dei diritti dell’opzione e non quello della loro offerta. Pertanto, come evidenziato dalla Corte di Cassazione, è solo nel momento in cui i titoli vengono effettivamente “assegnati” ed entrano a far parte del patrimonio del beneficiario che insorge il presupposto impositivo (in senso conforme, Cass. n. 17695/2019).
In quest’ottica, anche l’Agenzia delle entrate, con la Risposta n. 23 del 5 febbraio 2020, ha affermato che “il momento rilevante ai fini impositivi è costituito dal momento di esercizio di tale diritto [di opzione], ossia alla data di exercising, indipendentemente dalla data di emissione o di consegna dei titoli stessi”.
In tema, v. anche, in questo sito, M. DE VITA, Stock option: le azioni assegnate ai dipendenti costituiscono reddito di lavoro dipendente; F. PALLADINO, Il regime fiscale delle stock option emesse dalle PMI innovative.