Impugnare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo in ritardo non ne determina l’estinzione per abuso. Il recesso deve rispettare i criteri previsti per le riduzioni di personale e, in caso di cessazione dell’attività aziendale, vi è impossibilità sopravvenuta della reintegrazione.
Nota a Cass. ord. 28 gennaio 2020, n. 1888
Daniele Magris
“Il solo ritardo nell’esercizio del diritto, per quanto imputabile al titolare del diritto stesso e per quanto tale da far ragionevolmente ritenere al debitore che il diritto non sarà più esercitato, non può costituire motivo per negare la tutela giudiziaria dello stesso, salvo che tale ritardo sia la conseguenza fattuale di un’inequivoca rinuncia tacita….” (così, Cass. n. 23382/2013, in motivaz.).
Questo il primo principio affermato dalla Corte di Cassazione (28 gennaio 2020, n. 1888, parz. difforme, quanto al terzo principio, da App. Catania n. 705/2017) relativamente al ricorso di una società che aveva ravvisato l’abuso del diritto per il fatto che un lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo avesse agito giudizialmente, in prossimità della scadenza del termine quinquennale di prescrizione del diritto all’annullamento del licenziamento, ingenerando così un affidamento della controparte nell’abbandono della relativa pretesa.
Il secondo principio ribadito dalla Cassazione riguarda i criteri del recesso. Al riguardo, il Collegio rileva che nel caso in cui il giustificato motivo oggettivo si identifichi nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, la scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare non è totalmente libera, ma è limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. (v. anche Cass. n. 19732/2018, annotata in questo sito da F. DURVAL, Appalto di pulizie e riduzione di personale e Cass. n. 7046/2011).
Nello specifico, i criteri da considerare sono quelli previsti dall’art. 5, L. n. 223/1991 per i licenziamenti collettivi per riduzione di personale (nell’ipotesi in cui l’accordo sindacale non abbia indicato criteri di scelta diversi), vale a dire i carichi di famiglia e l’anzianità, “non assumendo rilievo le esigenze tecnico – produttive e organizzative, ove ricorra una situazione di totale fungibilità tra i dipendenti” (v. Cass. n. 19732/2018, cit.).
In particolare, nella fattispecie, i giudici hanno stabilito che, qualora l’azienda ritenga più conveniente mantenere in servizio lavoratori part-time, non è conforme a buona fede il comportamento datoriale che non proponga ai lavoratori full-time la conversione del rapporto di lavoro prima di procedere al licenziamento.
Il terzo principio espresso dalla Corte concerne l’impossibilità sopravvenuta della reintegrazione. Secondo i giudici, nella fattispecie in esame, non era possibile disporre la reintegra del dipendente per impossibilità sopravvenuta poiché la società aveva richiesto il concordato preventivo. Infatti, “la tutela reale del posto di lavoro non può spingersi fino ad escludere la possibile incidenza di successive vicende determinanti l’estinzione del vincolo obbligatorio. Tra queste ultime rientra certamente la sopravvenuta materiale impossibilità totale e definitiva di adempiere l’obbligazione, non imputabile a norma dell’art. 1256 c.c., che è ravvisabile nella sopraggiunta cessazione totale dell’attività aziendale, da accertare, caso per caso, anche ove l’imprenditore sia stato ammesso alla procedura di concordato preventivo con cessione dei beni ai creditori…“in quanto l’azienda ceduta potrebbe essere conservata o nuovamente ceduta come complesso per la continuazione di un’attività di impresa” (v. Cass. n. 7267/1998 e Cass. n. 1476/1997).
La sopraggiunta impossibilità totale della prestazione costituisce, dunque, una causa impeditiva dell’ordine di reintegrazione e della tutela ripristinatoria apprestata dall’art. 18, Stat. Lav., precludendo al lavoratore illegittimamente licenziato la possibilità di ottenere – sia pure per equivalente, con la corresponsione delle retribuzioni – il soddisfacimento del suo diritto alla continuazione del rapporto (v. Cass. n. 7189/1996 e Cass. n. 1815/1993). In altre parole, “qualora nelle more del giudizio promosso dal lavoratore per la declaratoria dell’illegittimità di un licenziamento precedentemente intimato, sopravvenga un mutamento della situazione organizzativa e patrimoniale dell’azienda, tale da non consentire la prosecuzione di una sua utile attività, il giudice che accerti l’illegittimità del licenziamento non può disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ma deve limitarsi ad accogliere la domanda di risarcimento del danno, con riguardo al periodo compreso tra la data del licenziamento e quella della sopravvenuta causa di risoluzione del rapporto” (nel senso che la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro può essere disposta anche nei confronti di tali società, ma solo se l’attività sociale non sia definitivamente cessata e non vi sia stato l’azzeramento effettivo dell’organico del personale, v. Cass. n. 16136/2018 e Cass. n. 2983/2011).