La giusta causa di licenziamento è una nozione legale che definisce solo un modello generico e di volta in volta richiede una specificazione in sede di interpretazione.
Nota a Cass. 13 gennaio 2020, n. 398
Jennifer Di Francesco
La legge configura la giusta causa di licenziamento con una disposizione di limitato contenuto (l’art. 2119 c.c., infatti, può essere ascritto alle c.d. clausole generali), delineando così un modello generico in grado di adeguarsi alla variegata e mutevole realtà da regolamentare.
La definizione in concreto del concetto di giusta causa deve quindi avvenire per via interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni, riguardanti la coscienza generale, sia di principi implicitamente richiamati dalla disposizione legislativa stessa.
È quanto affermato con l’ordinanza n. 398 del 13 gennaio 2020, con cui la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul concetto di giusta causa di licenziamento.
La Corte ha, inoltre, aggiunto che le specificazioni in via interpretativa del concetto di giusta causa hanno natura giuridica e, quindi, la loro disapplicazione integra una violazione di legge censurabile in sede di legittimità. Diversamente, l’accertamento della concreta ricorrenza degli elementi che integrano il parametro normativo nel fatto oggetto di giudizio e della loro attitudine a costituire giusta causa di licenziamento attengono al giudizio di fatto, che resta di competenza del giudice di merito e non è censurabile per cassazione se privo di errori logici o giuridici.
Nel caso di specie, la Cassazione era stata chiamata a sindacare la legittimità di un licenziamento di un lavoratore accusato di aver effettuato violazioni attinenti all’uso dell’auto personale ed alle modalità di trasmissione e giustificazione delle note spese relative alle trasferte, nonché di essersi discostato da disposizioni aziendali pur dopo i definitivi chiarimenti sul punto intervenuti con il superiore.
Il giudice del reclamo aveva ritenuto non proporzionata la sanzione espulsiva, “tenuto conto del numero di trasferte non corredate da regolare nota spese, dell’assenza di un danno economico per la società e della esistenza di un precedente aziendale di diversa portata (sanzione conservativa irrogata per un minor numero di episodi ad altro dipendente)” ed aveva determinato la misura massima della indennità risarcitoria, fondandola sul ruolo di quadro del dipendente, sulla durata ultraventennale del rapporto, sull’età del lavoratore che lo rendeva difficilmente ricollocabile nel mondo del lavoro e sulle dimensioni aziendali.
Sulla base delle considerazioni suesposte, la Corte si è uniformata alle conclusioni del giudice di merito ed ha rigettato l’appello incidentale proposto dal datore di lavoro, in quanto – pur apparentemente lamentando la violazione di norme di diritto – aveva ad oggetto la valutazione delle circostanze nel caso concreto, non sindacabili in sede di legittimità.