L’obbligo di controllo del datore di lavoro circa l’applicazione delle misure di sicurezza non può consistere in una sorveglianza continua del lavoratore, non potendo essere richiesta al titolare della posizione di garanzia una persistente attività di costante verifica dell’utilizzo dello strumento di sicurezza.
Nota a Cass. (ord.) 11 febbraio 2020, n. 3282
Francesco Belmonte
L’obbligo di sicurezza incombente sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c. non comporta “sempre ed in ogni caso, una sorveglianza ininterrotta o la costante presenza fisica del controllore accanto al lavoratore, ma può anche sostanziarsi in una vigilanza generica, seppure continua ed efficace, intesa ad assicurare nei limiti dell’umana efficienza, che i lavoratori seguano le disposizioni di sicurezza impartite ed utilizzino gli strumenti di protezione prescritti”.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (ord. 11 febbraio 2020, n. 3282, conforme ad App. Venezia 22 ottobre 2014 – v. anche Cass. 26 novembre 1994, n. 10066), relativamente ad una fattispecie in cui, posto il puntuale assolvimento da parte datoriale di tutti gli obblighi previsti dalla legge, la condotta del lavoratore era stata caratterizzata da assoluta “imprevedibilità, inopinabilità ed esorbitanza” rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi quale causa esclusiva dell’evento.
La Corte rileva anche che, in base alla norma codicistica, il datore di lavoro, in ragione della responsabilità di natura contrattuale che grava su di lui, è tenuto a predisporre un ambiente ed una organizzazione di lavoro idonei alla protezione del bene fondamentale della salute, “funzionale alla stessa esigibilità della prestazione lavorativa, con la conseguenza che è possibile per il prestatore di eccepirne l’inadempimento e rifiutare la prestazione pericolosa” (art. 1460 c.c.).
L’art. 2087 c.c., in particolare:
– è volto a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione di tutte quelle misure e cautele atte a salvaguardare l’integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto sia della concreta realtà aziendale che “della maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico” (v., tra tante, Cass. n. 24742/2018 e Cass. n. 644/2015);
– opera anche in assenza di specifiche regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate;
– e mira a dare impulso al datore di lavoro affinché attui nell’organizzazione produttiva un’efficace attività di prevenzione, mediante “la continua e permanente ricerca delle misure suggerite dall’esperienza e dalla tecnica più aggiornata, al fine di garantire, nel migliore dei modi possibili, la sicurezza dei luoghi di lavoro”.
La responsabilità datoriale non può tuttavia essere ampliata fino al punto da comprendere, sotto il profilo meramente oggettivo, ogni ipotesi di lesione dell’integrità psicofisica dei dipendenti e di correlativo pericolo. L’art. 2087 c.c. non configura infatti un’ipotesi di responsabilità oggettiva “essendone elemento costitutivo la colpa, intesa quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore” (v. Cass. n. 14066/2019, annotata, in questo sito, da S. GIOIA, Infortuni sul lavoro e responsabilità datoriale).
Più specificamente, non si può desumere dalla norma in questione “un obbligo assoluto in capo al datore di lavoro di rispettare ogni cautela possibile e diretta ad evitare qualsiasi danno al fine di garantire così un ambiente di lavoro a “rischio zero” quando di per sé il pericolo di una lavorazione o di un’attrezzatura non sia eliminabile, neanche potendosi ragionevolmente pretendere l’adozione di strumenti atti a fronteggiare qualsiasi evenienza che sia fonte di pericolo per l’integrità psicofisica del lavoratore, ciò in quanto, ove applicabile, avrebbe come conseguenza l’ascrivibilità al datore di lavoro di qualunque evento lesivo, pur se imprevedibile ed inevitabile”.
Conseguentemente, dal semplice verificarsi del danno non si può presumere l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di specifici obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione alla prestazione svolta (v. Cass. n. 12347/2016 e n. 11981/2016).