Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 marzo 2020, n. 10084

Omesso versamento ritenute, Crisi di liquidità, Circostanza
attenuante dell’aver agito per motivi di particolare valore sociale,
Mantenimento dei livelli occupazioneli

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza del 5 marzo 2019, la Corte d’appello
di Trieste, decidendo il gravame proposto da A.G.S. e rilevando l’intervenuta
prescrizione del reato più risalente (relativo all’omesso versamento delle
ritenute certificate per l’anno d’imposta 2010), con conseguente
rideterminazione della pena, ha per il resto confermato la sentenza con cui lo
stesso è stato ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 10-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74
per aver omesso, quale legale rappresentante di una società, il versamento
delle ritenute certificate negli anni d’imposta 2011 e 2012.

2. Avverso la sentenza di appello, ha proposto
ricorso il difensore dell’imputato, deducendo, con il primo motivo, il vizio di
motivazione per essere stato affermato che non poteva essere escluso il dolo
del reato avendo l’imputato un margine di scelta per gestire diversamente la
crisi di liquidità che si protraeva da tre anni, senza tuttavia specificare in
cosa tale margine sarebbe consistito.

In secondo luogo si lamenta l’omessa considerazione
delle prove dichiarative e documentali allegate nel gravame a sostegno
dell’assenza di dolo: la notifica della formale contestazione degli omessi
versamenti per gli anni 2011 e 2012 era avvenuta soltanto alla fine del 2013 e
la società aveva predisposto un piano di risanamento che ragionevolmente
avrebbe consentito di adempiere l’obbligazione tributaria; a metà del 2012 una
società finanziaria era pronta ad intervenire con un apporto di capitale di due
milioni di Euro, ma uscì inopinatamente di scena poco prima che anche l’ultima
banca formalizzasse la sua condivisione del piano di risanamento; la società di
famiglia dell’imputato aveva messo a disposizione della società debitrice tutto
il proprio patrimonio tanto da essere posta in liquidazione; lo stesso imputato
aveva rinunciato al proprio compenso quale amministratore e aveva rilasciato
garanzie personali alle banche per ottenere nuovo credito; la crisi fu dovuta
da un’avversa congiuntura economica e si poteva ragionevolmente confidare in
una ripresa.

3. Con il secondo motivo si deducono la violazione
dell’art. 581, lett. a),
cod. proc. pen. ed il
vizio di motivazione per essere stato dichiarato inammissibile il motivo
aggiunto proposto con memoria tempestivamente depositata, relativo alla dedotta
insussistenza dell’elemento oggettivo del reato – per mancanza di prova che ai
dipendenti fossero stati consegnati i certificati fiscali mod. 770 –
sull’erroneo rilievo che con l’atto di gravame si era contestata la sola
sussistenza dell’elemento soggettivo del reato. Poiché l’impugnazione aveva
avuto riguardo all’intero capo della sentenza di primo grado concernente la
penale responsabilità, si dovevano ritenere ricompresi nel gravame tutti i
punti relativi a tale capo.

4. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta
l’erronea applicazione della legge penale con riferimento agli artt. 62 n. 1) e 133
cod. pen., non avendo la Corte territoriale preso
in considerazione il motivo di gravame con cui si richiedeva la circostanza
attenuante dell’aver agito per motivi di particolare valore sociale – avendo il
ricorrente tentato, senza incorrere in reati fallimentari, di proseguire
l’attività d’impresa per mantenere l’occupazione dei 55 dipendenti della
società – sull’errato rilievo che il trattamento sanzionatorio era più che
benevolo. In tal modo – si lamenta -era stata negata autonomia alla previsione
di cui all’art. 62 n. 1) cod. pen.
rispetto a quella di cui al successivo art. 133.

 

Considerato in diritto

 

1. Sulla base della consolidata giurisprudenza di
questa Corte, il primo motivo di ricorso è inammissibile per genericità e
manifesta infondatezza, avendo la sentenza impugnata non illogicamente
affermato la sussistenza del dolo, richiamando integralmente, peraltro, quella,
conforme, di primo grado, che già adeguatamente rispondeva alle doglianze proposte
con il gravame e qui nuovamente dedotte senza formulare rilievi suscettibili di
sindacato in sede di legittimità.

1.1. A quest’ultimo proposito, va ricordato che la
genericità è causa di inammissibilità che ricorre non solo quando i motivi
risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della
necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento
impugnato (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco,
Rv. 255568). In particolare, i motivi del ricorso per
cassazione – che non possono risolversi nella pedissequa reiterazione di quelli
già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito – si
devono considerare non specifici, ma soltanto apparenti, quando omettono di
assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza
oggetto di ricorso (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone e aa., Rv. 243838), sicché è inammissibile il ricorso per
cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni
argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto
d’impugnazione, atteso che quest’ultimo non può ignorare le affermazioni del
provvedimento censurato (Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425).

1.2. Alle doglianze nuovamente riproposte in ricorso
i giudici di merito hanno dato non illogica risposta, rilevando che: il
ricorrente aveva per ben tre anni sfruttato l’illecito profitto del reato
tributario per gestire la crisi di impresa di una società già insolvente, senza
interrompere prima l’attività (tale essendo il margine di scelta alternativo
alla commissione del reato di cui il ricorrente, omettendo il confronto con
quanto chiaramente affermato al foglio 5 della sentenza, lamenta la mancata
indicazione); la crisi d’impresa, quand’anche non imputabile all’imprenditore,
non esclude il dolo del reato tributario, soprattutto quando, come nella specie
accertato, la stessa si trascini per alcuni anni senza che le iniziative
adottate per il risanamento sortiscano effetto; l’utilizzo di risorse patrimoniali
di famiglia e la rinuncia ai compensi spettanti al ricorrente quale
amministratore erano marginali rispetto alle necessità finanziarie dell’impresa
e, comunque, quelle risorse non erano state utilizzate, neppure parzialmente,
per pagare i debiti fiscali. Si aggiunga che è del tutto generico il rilievo
circa il momento della formale contestazione degli omessi versamenti,
trattandosi di debito ben noto all’imprenditore.

1.3. La sentenza, rispondendo logicamente alle
censure dedotte con il gravame, ha fatto dunque corretta applicazione della
consolidata giurisprudenza di questa Corte in tema di reati di omesso
versamento di ritenute certificate ed IVA, previsti dagli artt. 10-bis e 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000,
secondo cui l’elemento soggettivo richiesto per l’integrazione del delitto è il
dolo generico (Sez. 3, n. 3098 del 05/11/2015, dep. 2016, Vanni, Rv. 265939), configurabile anche nella forma del dolo
eventuale (Sez. 3, n. 34927 del 24/06/2015, Alfieri, Rv.
264882), integrato dalla condotta omissiva posta in essere nella consapevolezza
della sua illiceità, a nulla rilevando i motivi della scelta dell’agente di non
versare il tributo (Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, dep. 2015, Schirosi, Rv. 263127).
L’inadempimento della obbligazione tributaria può escludere la punibilità ed
essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili
all’imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause
indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (Sez.
3, n. 8352/2015 del 24/06/2014, Schirosi, Rv. 263128), ciò che la sentenza impugnata ha
convincentemente escluso, anche in relazione alla pluriennale protrazione
dell’inadempimento, osservando che se l’irrimediabilità si sarebbe potuta
semmai prospettare per il reato relativo all’anno d’imposta 2010 (dichiarato
prescritto) essa certamente non era predicabile per le due annualità successive
oggetto della conferma della sentenza di condanna.

2. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente
infondato. Correttamente la sentenza impugnata ha richiamato il consolidato
orientamento di questa Corte secondo cui i motivi nuovi proposti a sostegno
dell’impugnazione devono avere ad oggetto, a pena di inammissibilità, i capi o
i punti della decisione impugnata già investiti dall’atto di impugnazione
originario (Sez. 2, n. 17693 del 17/01/2018, Corbelli, Rv.
27282, ove si è affermato che costituisce motivo nuovo non ammissibile la
doglianza riguardante l’affermazione dell’elemento oggettivo nel caso in cui
con il ricorso originario era stata contestata la sola sussistenza
dell’elemento soggettivo; Sez. 2, n. 53630 del 17/11/2016, Braidic,
Rv. 268980; Sez. 6, n. 27325 del 20/05/2008,
D’Antino, Rv. 240367). Contrariamente a quanto allega
il ricorrente, quando – come nel caso di specie – l’impugnazione riguardi,
nell’ambito dell’affermazione della penale responsabilità per il capo della
sentenza avente ad oggetto il reato continuato oggetto di addebito, il solo
punto concernente l’elemento soggettivo (oltre che, come di seguito si dirà, il
subordinato profilo del trattamento sanzionatorio con particolare riguardo
all’applicazione di una circostanza attenuante), i motivi nuovi proponibili a
norma dell’art. 585, comma 4, cod. proc. pen. possono riguardare
esclusivamente il punto fatto oggetto dell’originario gravame. Non essendo
stata contestata, nel termine previsto per la proposizione dell’appello, la
sussistenza dell’elemento oggettivo del reato ritenuto, è dunque stata
correttamente ritenuta inammissibile la tardiva devoluzione di tale nuovo, e
diverso, punto della decisione, essendo necessaria la sussistenza di una
connessione funzionale tra i motivi nuovi e quelli originari (Sez. 6, n. 6075
del 13/01/2015, Comitini, Rv. 262343; Sez. 6, n.
45075 del 02/10/2014, Sabbatini, Rv. 260666; Sez. 1,
n. 5182 del 15/01/2013, Vatavu, Rv.
254485). Ed invero, proprio al fine del rispetto dei tassativi termini per
l’impugnazione, la facoltà dell’impugnante di presentare motivi nuovi incontra
il limite del necessario riferimento ai motivi principali dei quali i motivi
ulteriori devono rappresentare mero sviluppo o migliore esposizione, anche per
ragioni eventualmente non evidenziate, ma sempre ricollegabili ai capi e ai
punti già dedotti, con la conseguenza che sono ammissibili soltanto motivi
aggiunti con i quali, a fondamento del petitum dei
motivi principali, si alleghino ragioni di carattere giuridico diverse o
ulteriori, ma non anche motivi con i quali si intenda allargare l’ambito del
predetto petitum, introducendo censure non
tempestivamente formalizzate entro i termini per l’impugnazione (Sez. 2, n.
1417 del 11/10/2012, dep. 2013, Platamone e a., Rv. 254301).

3. Il terzo motivo di ricorso è invece fondato.

La sentenza impugnata, dopo aver dato atto che
l’appellante aveva richiesto, in via subordinata, l’applicazione della
circostanza attenuante dell’aver agito per motivi di particolare valore sociale
(vale a dire, in un contesto “difficilissimo”, rinunciando ai propri
compensi e orientando il proprio comportamento a garantire diritti
costituzionalmente garantiti, in particolare quello al lavoro), non analizza le
allegazioni addotte per verificare se le stesse integrino oppure no la
circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 1),
cod. pen., ma si limita a sostenere che il
trattamento sanzionatorio era congruo e che il primo giudice aveva concesso le
circostanze attenuanti generiche tenendo già conto di “tutte le
motivazioni addotte dalla difesa” e “della particolarità della
vicenda e del comportamento dell’imputato”.

3.1. Rileva il Collegio che l’art. 62 bis, primo comma, cod. pen.
Individua le circostanze attenuanti generiche che possono essere prese in
considerazione dal giudice al fine di diminuire la pena innanzitutto con una
definizione in negativo rispetto alle circostanze attenuanti comuni già
enucleate dal legislatore: «il giudice, indipendentemente dalle circostanze
previste nell’articolo 62, può prendere in
considerazione altre circostanze diverse…». Si aggiunge che l’attenuante di
cui all’art. 62 bis cod. pen.
«può anche concorrere con una o più delle circostanze indicate nel predetto articolo 62».

Dalla disposizione, dunque, si ricava l’ontologica
differenza e l’autonomia concettuale tra le circostanze attenuanti comuni (o
speciali) e quelle generiche di cui all’art. 62 bis
cod. pen., con l’inevitabile conseguenza che
laddove sussistano elementi che integrano le diverse ipotesi circostanziate le
stesse concorrono, mentre se i fattori considerati sono idonei ad integrare una
circostanza attenuante comune o speciale si deve comunque ritenere la
sussistenza di quest’ultima, quand’anche – secondo una tesi non incontroversa –
i medesimi elementi possano magari essere valutati pure al fine di concedere le
circostanze attenuanti generiche (in quest’ultimo senso, con precisazione dei
relativi limiti, Sez. 1, n. 9950 del 06/05/1994, Licata, Rv,
199739; più di recente, Sez. 3, n. 31832 del 04/05/2018, Ozzimo,
Rv. 273763; contra, Sez. 6, n. 10376 del 02/07/1992,
Castiglia e a., Rv. 192109; più di recente, Sez. 6,
n. 49820 del 05/12/2013, Billizzi e aa., Rv. 258136; Sez. 6, n. 43890 del 21/06/2017, Aruta e aa., Rv. 271099). Se per
il riconoscimento dell’attenuante di cui all’art.
62 bis cod. pen. possono essere utilizzate anche
ragioni che, pur non bastevoli a determinare l’integrazione di un’ipotesi
circostanziata altrimenti codificata per difetto di tutti i suoi elementi
costitutivi, sono comunque valorizzabili sul piano delle circostanze generiche
(v., ad es., quanto al parziale risarcimento del danno, Sez. 6, n. 34522 del
27/06/2013, Vinetti, Rv.
256134), l’ipotesi residuale – in quanto sussidiaria – non potrà mai valere ad
escludere l’applicazione di una fattispecie circostanziale di cui sussistano
tutti i presupposti.

3.2. Calando questi principi nella valutazione del
caso di specie, deve allora ritenersi che la sentenza impugnata sarebbe
conforme a diritto se gli elementi addotti dalla difesa non fossero sufficienti
ad integrare la circostanza dell’aver agito per motivi di particolare valore
sociale. Laddove, invece, lo fossero, occorrerebbe riconoscere la sussistenza
della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n.
1), cod. pen., indipendentemente dal fatto che
gli stessi elementi siano stati considerati anche nel più ampio giudizio
relativo alla ritenuta sussistenza delle circostanze attenuanti generiche, non
essendovi peraltro stato, sul punto, appello del pubblico ministero, neppure
incidentale (in allora proponibile, alla luce degli artt.
593, comma 1, e 595, comma 1, cod. proc. pen., prima delle
modifiche apportate con d.lgs. 6 febbraio 2018, n.
11).

L’accertamento di cui sopra necessita di una
valutazione di merito che nella specie è mancata e rispetto alla quale la
sentenza impugnata non reca motivazione. Non essendo i reati prescritti, deve
dunque procedersi all’annullamento della sentenza limitatamente al punto in
esame, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Trieste.

Dovendosi nel resto rigettato il ricorso, ai sensi
dell’art. 624, comma 2, cod. proc.
pen., va dichiarata l’irrevocabilità dell’accertamento
di responsabilità.

 

P.Q.M.

 

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al punto
concernente l’attenuante di cui all’art. 62 n. 1
cod. pen., con rinvio ad altra sezione della
Corte di appello di Trieste.

Rigetta il ricorso nel resto.

Visto l’art. 624 cod. proc. pen. dichiara la
irrevocabilità della sentenza in ordine alla affermazione della penale
responsabilità dell’imputato.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 marzo 2020, n. 10084
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