Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 marzo 2020, n. 7407
Evasione contributiva, Plurimi rapporti di lavoro irregolari
– Verbale ispettivo, Sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, Prova
Rilevato che
la Corte di Appello di Milano ha respinto il gravame
proposto dalla società R.S. S.R.L., nei confronti dell’INPS, avverso la
decisione di primo grado con cui le era stato ingiunto, in solido con la
società E. S.R.L., appaltante, il pagamento di € 236.391,45, a titolo di
contributi evasi, interessi e sanzioni civili di cui alla legge nr. 388 del 2000;
per quanto solo rileva in questa sede, la Corte
territoriale, all’esito dell’istruttoria orale richiesta sia dall’INPS che
dalla società appellante, ha ritenuto che la stessa confermasse la
ricostruzione dei fatti come operata nel verbale ispettivo (in cui risultavano
accertati plurimi rapporti di lavoro irregolari), posto a base del decreto ingiuntivo
opposto;
ha proposto ricorso per cassazione, la società R.S.
SRL in liquidazione, fondato su due motivi, cui ha resistito l’INPS con
controricorso;
è stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis cod.proc.civ., ritualmente comunicata
alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in Camera di
consiglio;
Considerato che
con il primo motivo – ai sensi dell’art. 360 nr. 4 cod.proc.civ. – è dedotta
violazione e falsa applicazione dell’art. 115
cod.proc.civ.;
secondo la parte ricorrente, difetterebbero, anche
all’esito delle testimonianze assunte in grado di appello, fatti specifici e
dettagliati idonei a dimostrare l’esistenza di rapporti di lavoro subordinato,
in relazione ai lavoratori indicati nel verbale ispettivo; il motivo è
inammissibile;
le censure complessivamente svolte investono la
sentenza in relazione all’operata ricostruzione della fattispecie concreta, di
modo che la deduzione della violazioni di legge scherma in realtà deduzione di
vizio di motivazione;
il ricorrente incorre nell’equivoco di ritenere che
la violazione o la falsa applicazione della norma processuale dipenda o sia ad
ogni modo dimostrata dall’erronea valutazione del materiale istruttorio,
laddove, al contrario, una questione di malgoverno dell’art. 115 cod.proc.civ. può porsi solo se il giudice
di merito abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti
ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è
consentito dalla legge;
nel caso in esame, il giudice d’appello non è
incorso in un tale errore; semplicemente ha valutate le circostanze di causa in
modo diverso da quanto auspicato dalla parte ricorrente;
con il secondo motivo – ai sensi dell’art. 360 nr. 3 cod.proc.civ. – è dedotta
violazione e falsa applicazione dell’art. 2697
cod.civ., per avere la Corte territoriale attribuito l’onere della prova ad
una parte diversa da quella che ne era gravata; la critica investe il passaggio
motivazionale in cui la Corte ha osservato che «del resto la maggioranza degli
autisti erano inquadrati come lavoratori dipendenti e (che) non (era) stata
neppure dedotta alcuna differenza che avrebbe caratterizzato la prestazione di
coloro che non erano regolarmente assunti»; in tal modo, ponendo a carico della
società la prova della natura non subordinata della prestazione e non , invece,
a carico dell’INPS quella (id est: la prova) della subordinazione (come fatto
costitutivo della pretesa contributiva);
anche il secondo motivo si arresta ad un rilievo di
inammissibilità;
esso (id est: il motivo) investe argomentazioni che
sono rese ad abundantiam (come reso evidente dalla locuzione introduttiva della
frase: «del resto […]»), rispetto alla principale ratio decidendi che si
incentra tutta sulla considerazione che «non vi era alcun margine di autonomia
nella concreta prestazione lavorativa che avveniva in modo totalmente
eterodiretto circa orari, luoghi di consegna della merce, utilizzo di mezzi del
datore di lavoro, giustificazione delle assenze [..]» e che sorregge il rigetto
del motivo di appello relativo alla qualificazione del rapporto dei lavoratori
(v. pag. 4, ult. cpv. della sentenza impugnata); la statuizione impugnata,
dunque, in quanto non vincolante e improduttiva di effetti giuridici, non è
suscettibile di gravame, né di censura in sede di legittimità (Cass. nr. 11160 del 2004; Cass. nr. 23635 del 2010; Cass. nr. 1815 del
2012; in motiv., Cass. nr. 28923 del 2018, §
4.5.);
sulla base delle esposte considerazioni, il ricorso
va dichiarato inammissibile, con le spese liquidate, come da dispositivo,
secondo soccombenza.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna parte
ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in
euro 5.000,00 per compensi professionali, in euro 200,00 per esborsi oltre
spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. nr. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per
il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello
stesso art. 13, comma 1 bis, se
dovuto.