Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 marzo 2020, n. 6948

Appalto illecito, Sussistenza di un rapporto di lavoro
subordinato,Prova

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 21
dicembre 2016, ha respinto l’appello proposto da F.C. avverso la pronuncia di
primo grado che aveva rigettato il ricorso di questi volto al riconoscimento
della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato intercorso con la
U.G.I.S. e (successivamente UBIS – S.C.p.A.), benché formalmente inquadrato
alle dipendenze della M. dal 1993 sino al 30 novembre 2008.

2. La Corte di Appello – in estrema sintesi – ha
ritenuto che l’istruttoria espletata in grado di appello permettesse di
“escludere che la fattispecie concreta integri l’appalto illecito di cui all’art. 1 I. n. 1369/60 o all’art. 29 comma 3 bis d. Igs. n.
276/2003”.

3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto
ricorso il soccombente con 4 motivi, cui ha resistito la società con
controricorso.

Entrambe le parti hanno comunicato memorie ex art. 378 c.p.c.

 

Ragioni della decisione

 

1. I motivi di ricorso possono essere come di
seguito sintetizzati.

Con il primo si denuncia “violazione e falsa
applicazione dell’art 1 della
legge n. 1369 del 1960” perché – a dire del ricorrente – la Corte
territoriale non avrebbe spiegato la ragione per cui nella specie non si sarebbe
realizzata “la presunzione assoluta” di cui alla disposizione
richiamata. Con il secondo motivo si denuncia “violazione e falsa
applicazione dell’art. 3 della
legge n. 1369 del 1960, degli artt. 116 e 434 c.p.c.” perché la Corte adita non avrebbe
fatto “un buon governo delle risultanze istruttorie”, in particolare
non esaminando adeguatamente i documenti prodotti, tanto da non pronunciare
“su tutta la domanda”.

Il terzo mezzo denuncia “erronea o
insufficiente indicazione della regola di diritto, violazione e falsa
applicazione degli articoli 20, 21
e 29 d. Igs. n. 276 del 2003”,
avuto riguardo alle testimonianze assunte nel processo.

Con il quarto motivo di ricorso si lamenta
“insufficiente motivazione, violazione e falsa applicazione della legge n. 1369 del 1960 e del d. Igs. n. 276 del 2003 in ordine al rischio
economico”, perché nella sentenza impugnata non sarebbe indicata “né
la fonte fattuale del convincimento né il ragionamento logico giuridico”
circa le modalità di erogazione dei corrispettivi dell’appalto.

2. I motivi di ricorso, congiuntamente esaminabili
per reciproca connessione, non meritano accoglimento, in continuità con quanto
già affermato da questa Corte in analoga vicenda con la medesima parte
datoriale (cfr. Cass. n. 251 del 2020).

Nell’impugnata sentenza risulta essere stato
coerentemente applicato il principio secondo cui in tema d’interposizione nelle
prestazioni di lavoro, l’utilizzazione, da parte dell’appaltatore, di capitali,
macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante dà luogo ad una presunzione
legale assoluta di sussistenza della fattispecie (pseudoappalto) vietata dall’art. 1, primo comma, della legge
n. 1369 del 1960 solo quando detto conferimento di mezzi sia di rilevanza
tale da rendere del tutto marginale ed accessorio l’apporto dell’appaltatore;
la sussistenza (o no) della modestia di tale apporto (sulla quale riposa una
presunzione “iuris et de jure”) deve essere accertata in concreto dal
giudice, alla stregua dell’oggetto e del contenuto intrinseco dell’appalto; con
la conseguenza che (nonostante la fornitura di macchine ed attrezzature da
parte dell’appaltante) l’anzidetta presunzione legale assoluta non è
configurabile ove risulti un rilevante apporto dell’appaltatore, mediante il
conferimento di capitale (diverso da quello impiegato in retribuzioni ed in
genere per sostenere il costo del lavoro), know how, software e, in genere,
beni immateriali, aventi rilievo preminente nell’economia dell’appalto (tra le
altre v. Cass. n. 25064 del 2013; Cass. n. 16488
del 2009; Cass. n. 4585 del 1994).

Detto criterio assume pregnanza ancora maggiore con
l’entrata in vigore del d. Igs. n. 276 del 2003
laddove la descritta presunzione della I. n. 1369
del 1960 – concepita peraltro in un’epoca non ancora pervasa dalla
automazione della produzione e dalle tecnologie informatiche – è stata oggetto
di abrogazione e “non è più richiesto che l’appaltatore sia titolare dei
mezzi di produzione, per cui anche se impiega macchine ed attrezzature di
proprietà dell’appaltante, è possibile provare altrimenti – purché vi siano
apprezzabili indici di autonomia organizzativa – la genuinità dell’appalto …
così, mentre in appalti che richiedono l’impiego di importanti mezzi o
materiali cd. “pesanti”, il requisito dell’autonomia organizzativa
deve essere calibrato, se non sulla titolarità, quanto meno sull’organizzazione
di questi mezzi, negli appalti cd. “leggeri” in cui l’attività si
risolve prevalentemente o quasi esclusivamente nel lavoro, è sufficiente che in
capo all’appaltatore sussista una effettiva gestione dei propri
dipendenti” (in termini, da ultimo, Cass. n. 21413 del 2019). In realtà,
in tutti i motivi di ricorso, sebbene formulati facendo riferimento a pretese
violazioni e false applicazioni di legge, che presupporrebbero una ricostruzione
della vicenda storica come narrata nella sentenza impugnata (v., tra molte,
Cass. n. 6035 del 2018; Cass. n. 18715 del 2016),
nella sostanza si invoca esplicitamente ed inammissibilmente una rivalutazione
delle risultanze istruttorie, testimoniali e documentali, non a caso
diffusamente richiamate, postulando un sindacato di merito chiaramente inibito
a questa Corte di legittimità, tanto più nel vigore del novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c., così come rigorosamente
interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del
2014 (con principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n.
19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni
semplici, principi di cui il ricorrente non tiene alcun conto, prospettando
anche vizi di “insufficiente” motivazione).

Il travalicamento nel giudizio di fatto è altresì
comprovato dall’improprio riferimento all’art. 116
c.p.c. di cui si assume nel secondo motivo la violazione: infatti la
violazione di detta disposizione sussiste solo quando il giudice di merito
disattenda il principio espresso dalla norma in assenza di una deroga
normativamente prevista, ovvero all’opposto valuti secondo prudente
apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime
(Cass. n. 11892 del 2016).

3. Conclusivamente il ricorso va respinto, con spese
che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Occorre altresì dare atto della sussistenza dei
presupposti processuali di cui all’art.
13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al
pagamento delle spese liquidate in euro 4.000,00, oltre euro 200,00 per
esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1
bis dello stesso art. 13, se
dovuto.

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