Nei confronti del lavoratore disabile è legittimo il recesso solo se il datore di lavoro dimostri di aver adottato ogni adeguamento ragionevole – ivi inclusa la modifica della struttura organizzativa – in relazione alle esigenze del dipendente in questione.

Nota a Trib. Milano 24 dicembre 2019, n. 2843

Francesco Belmonte

Ai fini della legittimità del licenziamento del lavoratore divenuto definitivamente inidoneo alla mansione specifica, il datore di lavoro deve “adottare provvedimenti di natura organizzativa al fine di mutare il contesto lavorativo in funzione delle esigenze del lavoratore disabile”, individuando eventualmente “nell’ambito della propria organizzazione lavorativa, mansioni che il lavoratore disabile, possa utilmente disimpegnare, fermo restando che tale obbligo non può arrivare a comportare lo stravolgimento del contesto organizzativo”.

A stabilirlo è il Tribunale di Milano (24 dicembre 2019, n. 2843), in relazione ad una fattispecie concernente il licenziamento di un dipendente divenuto definitivamente inidoneo alla mansione cui era adibito, come attestato dalle due visite mediche effettuate presso l’USL di Milano.

In particolare, in seguito al giudizio di inidoneità dei sanitari (“non idoneo al lavoro notturno … non idoneo al controllo varchi in via definitiva”), la società datrice risolveva il rapporto di lavoro per impossibilità sopravvenuta ai sensi degli artt. 1463 c.c. e 3, L. n. 604/66, in quanto l’inidoneità non consentiva la sua “proficua utilizzazione” e non si ravvedevano possibilità di una sua diversa assegnazione lavorativa in azienda.

Il Giudice di primo grado, però, ha dichiarato nullo il licenziamento, perché intimato in ragione della disabilità fisica del lavoratore, condannando la società alla reintegrazione del dipendente illegittimamente licenziato, oltre al risarcimento del danno, come sancito dall’art. 2, co. 4, D.LGS. n. 23/2015, che trova applicazione nel caso di specie poiché il dipendente era stato assunto il 1° novembre 2015, sotto la vigenza delle c.d. tutele crescenti introdotte dal Jobs Act ed entrate in vigore il 7 marzo 2015.

Il Tribunale giunge a tali conclusioni ripercorrendo il quadro normativo, interno e sovranazionale, in tema di disabilità.

In particolare, la “Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità” (approvata con la decisione 2010/48/CE del Consiglio 26 novembre 2009) statuisce, all’art. 1, che: “Per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri” (circa la definizione in commento, v. anche Corte Giust. UE causa C – 312/11, per la quale con la nozione di “handicap” ci si riferisce “ad una limitazione risultante … da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature”).

Con riferimento ai lavoratori disabili, la Direttiva 2000/78/CE, all’art. 5, prevede che: “Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili.

Passando all’ordinamento interno, l’art. 42, D.LGS. n. 81/2008, dispone che: “Il datore di lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla legge 12 marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi di cui all’articolo 41, comma 6, (n.d.r. del medico competente in merito alle risultanze delle visite mediche concernenti l’idoneità alla mansione specifica)  attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza”.

Infine, l’art. 3, co. 3-bis, D.LGS. n. 216/2003 (come mod. dal D.L. n. 76/2013), prevede espressamente che: “Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18 , nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori”.

Tale Convenzione, all’art. 2, co. 4, dispone che: «per “accomodamento ragionevole” si intendono le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali».

Per il Tribunale, dalla lettura combinata delle disposizioni richiamate, deve concludersi che il datore di lavoro ha “uno stringente obbligo di adottare provvedimenti di natura organizzativa al fine di mutare il contesto lavorativo in funzione delle esigenze del lavoratore disabile ed eventualmente valutare ed individuare, nell’ambito della propria organizzazione lavorativa, mansioni che il lavoratore disabile … possa utilmente disimpiegare, fermo restando che tale obbligo non può arrivare a comportare lo stravolgimento del contesto organizzativo”.

Simili “accomodamenti ragionevoli”, che il datore è tenuto a porre in essere al fine di preservare e garantire lo svolgimento dell’attività lavorativa dei lavoratori disabili, “devono trovare, infatti, equo contemperamento con le necessità organizzative aziendali”.

Nel caso di specie, la società non ha mutato l’assetto organizzativo in funzioni delle esigenze del disabile, bensì si è limitata a prendere atto dell’inidoneità definitiva del ricorrente alle mansioni per le quali era stato assunto, “ha ricercato all’interno del proprio organico posizioni scoperte, compatibili con la sua professionalità e i suoi titoli di studio”, ed ha risolto il rapporto il lavoro stante l’impossibilità di reimpiegare proficuamente il dipendente in altre mansioni, anche di livello inferiore.

Lavoratore divenuto disabile: nozione, quadro normativo e licenziamento
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