Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 marzo 2020, n. 7566
Licenziamento per giusta causa, Assenze ingiustificate dal
lavoro per più giorni consecutivi, Collocamento in ferie alla scadenza del
periodo di comporto, Inadempienza datoriale all’obbligo di sorveglianza
sanitaria
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 8138/2017, depositata il
27/11/2017, la Corte di appello di Napoli ha confermato la sentenza, con cui il
Tribunale di Santa Maria Capua Vetere aveva respinto la domanda di annullamento
del licenziamento per giusta causa intimato a C.N. dalla T.H.S. – D.C. S.r.l.,
con lettera in data 23 settembre 2014, a motivo di assenze ingiustificate dal
lavoro per più giorni consecutivi.
2. La Corte di appello ha osservato a sostegno della
propria decisione che la lavoratrice si era collocata autonomamente in ferie
alla scadenza del periodo di comporto, senza formulare alcuna richiesta di
autorizzazione al loro godimento; né poteva ritenersi che la società datrice di
lavoro si fosse resa inadempiente all’obbligo di sorveglianza sanitaria,
nell’ipotesi di cui alla lett.
e-ter) dell’art. 41, co. 2, d.lgs. n. 81/2008 (obbligo di “visita
medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di
salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di
verificare l’idoneità alla mansione”), dovendo la visita medica
effettuarsi, in tale ipotesi, prima della concreta assegnazione del lavoratore
alle mansioni, che è momento non coincidente con la ripresa del lavoro e cioè
con la formale presentazione nel luogo di lavoro: in sostanza, ha precisato la
Corte, il lavoratore, dopo un periodo di malattia protratto per oltre sessanta
giorni, può, in assenza di visita medica, legittimamente rifiutarsi, ex art. 1460 cod. civ., di eseguire le mansioni
incompatibili con il suo stato di salute, posto che l’omissione della visita
medica costituisce grave e colpevole inadempimento del datore di lavoro, ma non
può rifiutarsi di ritornare al lavoro e continuare ad assentarsi, come invece
era accaduto nella specie.
3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per
cassazione la lavoratrice con tre motivi, assistiti da memoria, cui ha
resistito la società con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, deducendo violazione o falsa
applicazione degli artt. 112 e 115 cod. proc. civ., la ricorrente censura la
sentenza impugnata per avere la Corte di appello ritenuto che il licenziamento
trovasse fondamento e giustificazione, oltre che nei giorni di assenza oggetto
di contestazione con lettera in data 3 settembre 2014, anche nei giorni di
assenza contestati con precedenti lettere del 15, del 28 e del 31 luglio 2014,
le quali peraltro avevano dato luogo ad autonomi procedimenti, in tal modo
decidendo la causa sulla base di fatti, in relazione ai quali il potere
disciplinare del datore di lavoro si era già consumato, e travalicando i limiti
della domanda e delle stesse prove fornite dalle parti.
2. Con il secondo motivo, deducendo violazione o
falsa applicazione dell’art.
18, comma 4, I. n. 300/1970, come modificato dall’art. 1 I. n. 92/2012, nonché
dell’art. 7 I. n. 300/1970,
la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la Corte erroneamente
qualificato le assenze come “ingiustificate”, nonostante che la
condotta posta in essere dalla lavoratrice integrasse chiaramente l’ipotesi del
rifiuto legittimo della prestazione ex art. 1460
cod. civ., stante l’omessa sottoposizione della stessa, da parte del datore
di lavoro, a visita medica preventiva, con conseguente insussistenza del fatto
contestato sotto il profilo della sua antigiuridicità.
3. Con il terzo motivo, deducendo violazione o falsa
applicazione degli artt. 2119 e 1460 cod. civ. e dell’art. 41, comma 2, lett. e-ter,
d.lgs. n. 81/2008, la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la
Corte di appello erroneamente ritenuto che presupposto per l’applicazione di
tale ultima disposizione fosse la presenza in azienda del lavoratore, mentre
dal tenore letterale di essa era dato chiaramente desumere che il reingresso
nel sistema produttivo del dipendente, che per motivi di salute fosse rimasto
assente per un periodo di oltre sessanta giorni continuativi, dovesse essere
necessariamente preceduto dall’effettuazione della visita medica.
4. Il primo motivo è infondato.
5. E’, infatti, del tutto consolidato il principio
di diritto, per il quale il vizio di ultrapetizione o extrapetizione ricorre
quando il giudice del merito, interferendo nel potere dispositivo delle parti,
alteri gli elementi obiettivi dell’azione (petitum e causa petendi) e,
sostituendo i fatti costitutivi della pretesa, emetta un provvedimento diverso
da quello richiesto (petitum immediato), ovvero attribuisca o neghi un bene
della vita diverso da quello conteso (petitum mediato); con la conseguenza che
il vizio in questione si verifica quando il giudice pronuncia oltre i limiti
delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori, attribuendo
alla parte un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato
(Cass. n. 455/2011; conformi, fra le pronunce più recenti: n. 18868/2015; n.
9002/2018; n. 8048/2019).
6. Nella specie, la Corte di merito si è invece
limitata a richiamare le diverse lettere di addebito, con i giorni di assenza
ingiustificata specificamente indicati in ciascuna, che hanno preceduto la
contestazione del 3 settembre 2014 e la conseguente comunicazione del recesso
datoriale, intimato con lettera del 23 settembre 2014, senza che da ciò sia
derivato alcun riflesso né sulla decisione assunta né sulle ragioni che hanno
condotto alla sua adozione, le quali risultano indipendenti sul piano fattuale
e logico-giuridico rispetto ai presupposti dei pregressi procedimenti
disciplinari.
7. Il secondo e il terzo motivo, che devono essere
esaminati congiuntamente per la loro stretta connessione, sono infondati.
8. L’art.
41 del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (“Testo unico in materia di salute
e sicurezza nei luoghi di lavoro”) prevede, tra gli strumenti della
“sorveglianza sanitaria” (comma 2) anche l’effettuazione di una
“visita medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza
per motivi di salute di durata superiore ai sessanta giorni continuativi, al
fine di verificare la idoneità alla mansione” (lett. e-ter).
9. La norma va letta – secondo un’interpretazione
conforme tanto alla sua formulazione letterale come alle sue finalità – nel
senso che la “ripresa del lavoro”, rispetto alla quale la visita
medica deve essere “precedente”, è costituita dalla concreta
assegnazione del lavoratore, quando egli faccia ritorno in azienda dopo
un’assenza per motivi di salute prolungatasi per oltre sessanta giorni, alle
medesime mansioni già svolte in precedenza, essendo queste soltanto le
mansioni, per le quali sia necessario compiere una verifica di
“idoneità” e cioè accertare se il lavoratore possa sostenerle senza
pregiudizio o rischio per la sua integrità psico-fisica.
10. Ne deriva che, ove nuovamente destinato alle
stesse mansioni assegnategli prima dell’inizio del periodo di assenza, egli può
astenersi ex art. 1460 cod. civ. dall’eseguire
la prestazione dovuta, posto che l’effettuazione della visita medica prevista
dalla norma si colloca all’interno del fondamentale obbligo imprenditoriale di
predisporre e attuare le misure necessarie a tutelare l’incolumità e la salute
del prestatore di lavoro, secondo le previsioni della normativa specifica di
prevenzione e dell’art. 2087 cod. civ.; sicché
la sua omissione, integrando un inadempimento della parte datoriale di
rilevante gravità, risulta tale da determinare una rottura dell’equilibrio
sinallagmatico e da conferire, pertanto, al prestatore di lavoro una legittima
facoltà di reazione.
11. Non è invece consentito al prestatore di
astenersi anche dalla presentazione sul posto di lavoro, una volta venuto meno
il titolo giustificativo della sua assenza (come nella specie, la ricorrente
avendo superato il periodo di comporto): presentazione che – come rilevato
esattamente nella sentenza impugnata – è momento distinto dall’assegnazione
alle mansioni, in quanto diretto a ridare concreta operatività al rapporto e
ben potendo comunque il datore di lavoro, nell’esercizio dei suoi poteri,
disporre, quanto meno in via provvisoria e in attesa dell’espletamento della
visita medica e della connessa verifica di idoneità, una diversa collocazione
del proprio dipendente all’interno della organizzazione di impresa.
12. E’, d’altra parte, consolidato il principio
(Cass. n. 5521/2003; conforme, fra altre, n. 21385/2004), secondo il quale
“il lavoratore assente per malattia non ha incondizionata facoltà di
sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, quale
titolo della sua assenza, allo scopo di interrompere il decorso del periodo di
comporto, ma il datore di lavoro, di fronte ad una richiesta del lavoratore di
conversione dell’assenza per malattie in ferie, e nell’esercitare il potere,
conferitogli dalla legge (art. 2109, secondo comma,
cod. civ.), di stabilire la collocazione temporale delle ferie nell’ambito
annuale armonizzando le esigenze dell’impresa con gli interessi del lavoratore,
è tenuto ad una considerazione e ad una valutazione adeguate alla posizione del
lavoratore in quanto esposto, appunto, alla perdita del posto di lavoro con la
scadenza del comporto; tuttavia, un tale obbligo del datore di lavoro non è
ragionevolmente configurabile allorquando il lavoratore abbia la possibilità di
fruire e beneficiare di regolamentazioni legali o contrattuali che gli
consentano di evitare la risoluzione del rapporto per superamento del periodo
di comporto ed in particolare quando le parti sociali abbiano convenuto e
previsto, a tal fine, il collocamento in aspettativa, pur non retribuita (nella
specie, la S.C., enunciando tale principio e dando altresì conto dell’evoluzione
giurisprudenziale in materia, ha confermato la decisione di merito che aveva
ritenuto la correttezza del comportamento datoriale sul presupposto che il
lavoratore, pur a fronte di avvisi inviatigli dal datore di lavoro, non aveva
inteso richiedere la conversione in ferie del proprio periodo di malattia e
neppure avvalersi del periodo di aspettativa previsto contrattualmente)”:
istituto la cui presenza anche nella contrattazione collettiva applicata al
rapporto in esame risulta espressamente accertata dalla Corte di merito (cfr.
sentenza, p. 3).
13. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.
14. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano
come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per
esborsi e in euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al
15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115
del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13,
se dovuto.