Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 19 marzo 2020, n. 7476

Plurimi contratti di lavoro a tempo determinato, Nessuna
specificazione delle esigenze temporanee ed eccezionali legittimanti
l’apposizione del termine, Nullità dei contratti, Mancato riconoscimento del
danno ex art. 36 del D.Lgs.
n. 165/2001, Sentenza d’appello motivata “per relationem”, Possibilità,
Identità delle questioni prospettate in appello rispetto a quelle già esaminate
in primo grado

Ritenuto

 

1. Che M. Emilia ha agito in giudizio, dinanzi al
Tribunale di Larino, premettendo di aver instaurato con l’Azienda sanitaria
Regione Molise (ASReM) più contratti di lavoro a tempo determinato (nel periodo
compreso tra il 20 febbraio 2003 e il 28 febbraio 2007), nessuno dei quali
contenente la specificazione delle esigenze temporanee ed eccezionali
legittimanti l’apposizione del termine.

Pertanto, ha chiesto la condanna dell’Azienda
sanitaria al risarcimento del danno ex art. 36 del d.lgs. n. 165 del
2001.

2. Il Tribunale, pur riconosciuta la fondatezza del
ricorso quanto alla nullità dei dedotti contratti e delle relative proroghe,
riteneva che non poteva essere riconosciuto, neppure in via equitativa, il
risarcimento del danno come invocato ai sensi dell’art. 36 del d.lgs. n. 165 del
2001, ulteriore e diverso rispetto a quello risarcibile ex art. 2126 cod. civ., in quanto non avente natura
di danno-indennità e privo di funzione punitivo- dissuasiva.

3. La sentenza veniva appellata sia dalla M., che
dalla ASReM, che era stata convenuta in giudizio dinanzi al Tribunale.

Dalla lavoratrice, quanto al mancato riconoscimento
del risarcimento del danno, e dal datore di lavoro in relazione alla ritenuta
nullità dei contratti a termine.

4. La Corte d’Appello di Campobasso, con la sentenza
in epigrafe ha accolto l’appello principale e, per l’effetto, in riforma della
sentenza impugnata pronunciata dal Tribunale di Larino, che nel resto
confermava, condannava l’ASReM al pagamento in favore di M. Emilia, a titolo di
risarcimento del danno, di una indennità onnicomprensiva in misura di dieci
mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, maggiorata di interessi
e/o rivalutazione dalla definitività della presente pronuncia al soddisfo.

Il giudice di secondo grado rigettava l’appello
incidentale dell’Azienda sanitaria.

5. Per la cassazione della sentenza di appello
ricorre l’ASReM, prospettando sette motivi di impugnazione (atteso che il sesto
motivo di ricorso è indicato erroneamente come settimo, e il settimo come
ottavo).

6. Resiste con controricorso la lavoratrice.

 

Considerato

 

1. Che, in via preliminare, va rilevato che è
tempestiva la notifica del controricorso rinnovata a mezzo posta alla via N.
56, Roma, (Uffici C. srl) presso lo studio dell’avv. M.I., dove ha eletto
domicilio la ASReM, attesa la mera nullità dell’originaria notificazione, avviata
nel termine di sessanta giorni dalla notifica del ricorso, non andata a buon
fine, indirizzata sempre alla via N. 56, Roma, ma senza l’indicazione Uffici
Contrasto srl, in quanto potenzialmente idonea ad assolvere alla funzione
conoscitiva che le è propria.

Ciò, anche considerato che la ricorrente ha indicato
l’indirizzo di posta elettronica certificata ai soli fini delle comunicazioni
di cancelleria, e che la notificazione è stata riavviata (cfr., Cass., S.U., n.
14594 del 2016) nel limite di tempo pari alla metà del termine indicato per la
notificazione (ricorso notificato il 31 ottobre 2014; prima notifica
controricorso avviata il 9 dicembre 2014; rinnovazione in data 23 gennaio 2015,
dopo che il plico racc. era stato restituito al mittente in data 21 gennaio
2015 con la dicitura “per irreperibilità destinatario” come esposto
nel controricorso e non contestato; avviso di ricevimento della notifica
rinnovata del controricorso in data 3 febbraio 2015).

2. Con il primo motivo di ricorso è dedotto il vizio
di violazione di legge: art. 132, n. 4, cod. proc.
civ., art. 111 Cost., art. 156 cod. proc. civ.;

nullità della sentenza e violazione del
procedimento, in relazione all’art. 360, comma 1,
n. 3 e n. 4, cod. proc. civ.

Omesso esame ed omessa motivazione circa fatti
decisivi che sono stati oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ.

La sentenza di appello ha motivato il rigetto
dell’appello incidentale mediante rinvio generico e astratto alla motivazione
della sentenza di primo grado, di cui la ricorrente riporta uno stralcio.

Assume la ricorrente che il rinvio generico
costituisce recepimento acritico delle argomentazioni del Tribunale, e non è
idoneo a costituire revisione prioris instantiae.

La Corte d’Appello non aveva fornito risposta alle
censure e ai fatti addotti con l’impugnazione, risultando pertanto
insufficiente il percorso argomentativo, anche in ragione della giurisprudenza
di legittimità sulla motivazione per relationem.

3. Il motivo, che pur invocando più vizi, si
sostanzia nella censura di violazione di legge, con riguardo alla disciplina della
motivazione della sentenza, non è fondato e deve essere rigettato.

Come già affermato da questa Corte, la sentenza
d’appello può essere motivata “per relationem”, purché il giudice del
gravame dia conto, sia pure sinteticamente, delle ragioni della conferma in
relazione ai motivi di impugnazione, ovvero della identità delle questioni
prospettate in appello rispetto a quelle già esaminate in primo grado, sicché
dalla lettura della parte motiva di entrambe le sentenze possa ricavarsi un
percorso argomentativo esaustivo e coerente, mentre va cassata la decisione con
cui la Corte territoriale si sia limitata ad aderire alla pronunzia di primo
grado in modo acritico, senza alcuna valutazione di infondatezza dei motivi di
gravame (si v. Cass., n. 20883 del 2019).

Nella specie, la Corte d’Appello ha rigettato
l’appello incidentale richiamando la sentenza del Tribunale, ma di quest’ultima
ha vagliato la motivazione rispetto alle specifiche censure prospettate
dall’Azienda. Ciò, sia con riguardo alla statuizione relativa alla necessità
che il datore di lavoro dia la prova della sussistenza delle ragioni che ai
sensi della legge n. 230 del 1962 legittimano
il ricorso all’apposizione del termine – rilevando che l’Azienda non aveva dato
e non si era offerta di dare prova delle ragioni legittimanti l’assunzione a
termine, prova che non poteva essere surrogata dal mero rinvio ad un
provvedimento amministrativo del direttore generale; sia con riguardo alla
statuizione di nullità del contratto, in quanto affetto dal vizio di violazione
di norme imperative.

Di talché, l’intervenuto esame critico, in base ai
motivi di gravame, delle argomentazioni svolte dal primo giudice, sottrae la
sentenza impugnata alla censura prospettata.

4. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la
violazione e falsa applicazione della legge n. 230
del 1962, in relazione al d.lgs. n. 368 del
2001, nella specie art. 1
e art. 11 (che ha abrogato
la citata legge n. 230 del 1962). Violazione
del principio della domanda e vizio di ultrapetizione (art. 112 cod. proc. civ.). Violazione delle norme
processuali sulle prove.

Nullità della sentenza e del procedimento, nel punto
in cui ha affermato che “l’appellante incidentale non ha mai neppure
offerto di dare la prova della sussistenza delle ragioni che ai sensi della legge n. 230 del 1962 legittimano il ricorso al
termine”, in violazione del d.lgs.
n. 368 del 2001, art. 1 commi 1 e 2, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 e 4, e ai limiti della
domanda.

Assume la ricorrente che la fattispecie non è
regolata dalla legge n. 230 del 1962, ma dal d.lgs. n. 368 del 2001, art. 1,
comma 2, che richiede solo che l’apposizione del termine risulti direttamente o
indirettamente da atto scritto, nel quale siano specificate le ragioni di cui
al comma 1, senza sancire l’obbligo di provare l’esistenza delle ragioni
previste dalla legge n. 230 del 1962.

La lavoratrice, nel ricorso introduttivo del
giudizio, aveva lamentato la mancata indicazione e specificazione nei contratti
delle “esigenze di natura eccezionale e temporanee”, che secondo esso
medesimo avrebbero dovuto caratterizzare le apposizioni dei termini, non
consentite per soddisfare una stabile esigenza di copertura di posto in
organico, ma non aveva contestato la sussistenza di quelle ragioni alla luce
del d.lgs. n. 368 del 2001, da cui sarebbe
scaturito l’onere del datore di lavoro di darne la prova in giudizio.

In ogni caso, il d.lgs.
n. 368 del 2001, aveva superato l’orientamento precedente, ex lege n. 230 del 1962, volto a riconoscere la
legittimità della apposizione del termine in presenza di un’attività meramente
temporanea, così come aveva superato i caratteri della
“eccezionalità”, “straordinarietà” ed
“imprevedibilità”, propri delle precedenti ragioni giustificatrici.

Pertanto, assume la ricorrente, è erronea una
lettura dell’art. 1, comma 1, del
d.lgs. n. 368 del 2001, che affermi la legittimità dell’apposizione del termine
soltanto in presenza di una occasione temporanea di lavoro.

Ciò che la legge richiede è la ricorrenza di
esigenze oggettive dell’organizzazione di impresa “di carattere tecnico,
produttivo, organizzativo e sostitutivo”. Esse giustificano il ricorso a rapporti
a tempo, senza che la stabilità dell’esigenza incida sulla legittimazione del
contratto. Le esigenze di carattere tecnico, produttivo e organizzativo o
sostitutivo, previste dal d.lgs. n. 368 del 2001,
sono dunque riferibili anche all’ordinaria attività, e quindi al fabbisogno
ordinario, purché caratterizzato da temporaneità.

Nel caso di specie, si trattava di esigenze
straordinarie o temporanee ed eccezionali (carenza di organico, necessità di
garantire i limiti di assistenza, sotto il vincolo inderogabile del rispetto
dei limiti di spesa imposto dal Piano di rientro del deficit della sanità
molisana), e non generiche.

5. Con il terzo motivo di ricorso è dedotto il vizio
di violazione di legge: d.lgs. n.
368 del 2001, art. 1, commi 1 e 2 (altro profilo), falsa applicazione della
legge n. 230 del 1962, abrogata dall’art. 11 del d.lgs. n. 368 del 2001.
Violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 2, del suddetto d.lgs.

Nullità della sentenza e del procedimento per omesso
esame dei motivi di diritto prospettati dall’ASReM in ordine: al procedimento
di formazione ed espressione della volontà dell’Ente, alla rilevanza dei
provvedimenti amministrativi di assunzione emessi dal direttore generale con la
collaborazione del direttore sanitario e del direttore amministrativo
(procedimento dichiarato “suggestivo” e non considerato dalla Corte
d’Appello), alla rilevanza normativa e probatoria dei detti atti e
provvedimenti, indicanti le ragioni delle assunzioni e delle apposizioni dei
termini nei contratti, sia direttamente che indirettamente, mediante richiamo a
norme, disposizioni regionali, vincoli di spesa e di bilancio, di CCNL, del
piano di rientro dal deficit della sanità, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ.

Assume la ricorrente che, in ragione della eccezione
di prescrizione quinquennale, potevano essere presi in esame solo gli ultimi
cinque anni antecedenti la domanda e, dunque solo i contratti che ricadevano
nella disciplina del d.lgs. n. 368 del 2001.
Ricorda, quindi, il contenuto dell’art.
1, comma 2, del d.lgs. n. 368 del 2001. Espone che il momento genetico del
rapporto è legato al contenuto della determina che ha stabilito l’assunzione,
contenente le indicazioni delle ragioni e delle esigenze che l’assunzione a
termine è diretta ad affrontare.

Nella fattispecie in esame, tutti i provvedimenti
che hanno disposto le assunzioni a termine, e le loro proroghe, indicano le
ragioni giustificate attinenti ad esigenze straordinarie per coprire carenze di
organico, garantire i livelli essenziali di assistenza (LEA), in periodi
particolari e temporanei, nel rispetto dell’obbligo di assicurare l’obiettivo
economico del piano di rientro dal deficit della sanità, e degli obblighi di
bilancio imposti dalle leggi finanziarie e da provvedimenti amministrativi.

I provvedimenti adottati dal direttore generale
adducevano ragioni specifiche, di natura temporanea e particolare, alla stregua
del parere n. 49 del 2008 del Dipartimento della funzione pubblica.

6. Con il quarto motivo di ricorso è prospettato il
vizio di violazione di legge: d.lgs. n. 502 del
1992, nella specie artt. 2 e 3.
Violazione dei principi di diritto che disciplinano l’organizzazione
dell’ASReM, i poteri del direttore generale e quelli dei direttori
amministrativo e sanitario. Violazione di norme processuali sulle prove e sulla
gerarchia delle fonti di prova. Violazione delle norme finanziarie nazionali e
regionali sulle assunzioni a termine. Violazione dei vincoli e limiti derivanti
dal piano di rientro dal deficit della sanità, in relazione all’art. 360, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ.

La sentenza impugnata non solo, erroneamente, aveva
ritenuto che l’ASReM non avesse dato la prova della sussistenza delle ragioni
giustificatrici delle assunzioni a termine, in contrasto con l’art. 1, del d.lgs. n. 368 del 2001,
che impone solo la indicazione scritta delle ragioni medesime, ma aveva
ritenuto non sufficiente la prova data mediante rinvio ad un provvedimento
amministrativo “stipite” del direttore generale, deducendo, dalla
mancata prova, la nullità dei termini.

Ciò, contrastava con l’organizzazione di essa
ricorrente che è azienda di diritto pubblico, dotata di personalità giuridica
ed autonomia organizzativa, a valenza aziendale, che opera con criteri di
rigore ed economicità, e a cui è preposto il direttore generale, organo
esclusivo di gestione e amministrazione dell’Azienda sanitaria al proprio
interno.

7. I motivi secondo, terzo e quarto devono essere
trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi sono in
parte inammissibili e in parte non fondati.

7.1. È inammissibile, per le ragioni già esposte al
punto 2 nel trattare il primo motivo di ricorso, il profilo di censura che
richiama la doglianza relativa al termine di prescrizione.

7.2. Va, inoltre, rilevato che la ricorrente dopo
aver riportato nel fatto del ricorso (pag. 2 del ricorso) che la lavoratrice
aveva dedotto di aver lavorato alle dipendenze dell’ASReM in forza di più
contratti a termine, non ha indicato il numero dei contratti in questione e la
durata degli stessi e non né ha trascritto la causale, legale o ricondotta alla
contrattazione collettiva, così dando luogo ad un difetto di specificità delle
censure prospettate con riguardo alla erronea sussunzione della fattispecie per
cui è causa nell’ambito della l. n. 230 del 1962,
dovendo, invece, secondo la ricorrente, trovare applicazione il d.lgs. n. 368 del 2001.

7.3. Occorre, infatti considerare che la
ricostruzione della successione normativa tra la legge
n. 230 del 1962 e il d.lgs. n. 368 del 2001,
deve tener conto delle disposizioni transitorie dettate dal medesimo d.lgs. n. 368 del 2001, e della disciplina di cui
alla legge n. 56 del 1987.

L’art.
1 del d.lgs. n. 368 del 2001, nell’abrogare (comma 1) la legge n. 230 del 1962, stabiliva (comma 2) che le
clausole dei contratti collettivi nazionali di lavoro stipulate ai sensi dell’articolo 23 della legge n. 56 del
1987 e vigenti alla data di entrata in vigore del decreto legislativo
medesimo, mantenevano, in via transitoria e salve diverse intese, la loro
efficacia fino alla data di scadenza dei contratti collettivi nazionali di
lavoro.

Ed infatti l’art. 23 della citata legge n. 56 del
1987 ha consentito alla contrattazione collettiva la possibilità di
identificare nuove ipotesi di legittima apposizione del termine, le quali
possono essere diverse e più ampie rispetto a quelle previste dalla legge 18 aprile 1962 n. 230, fattispecie legali.

7.4. Come questa Corte ha chiarito (Cass., n. 20858 del 2005), tuttavia, l’art. 23 della legge n. 56 del 1987,
si inserisce pur sempre nel sistema delineato dalla legge
n. 230 del 1962; ne consegue che ai contratti a termine stipulati ai sensi
del menzionato art. 23, nella
vigenza della legge n. 230 del 1962, sono
applicabili non solo le disposizioni di cui all’art. 2 di questa legge (che
richiede la forma scritta per l’apposizione del termine), ma anche quelle di
cui all’art. 1, nei limiti
della loro compatibilità, e all’art. 3, in materia di onere della prova.
Rispetto a tali contratti non si applica la successiva e meno rigida disciplina
detta dal d.lgs. n. 368 del 2001, che reca
l’abrogazione delle disposizioni della legge n. 230
del 1962, ma tale disciplina non ha alcuna efficacia retroattiva e non
spiega quindi alcun effetto, anche se gli effetti di tali contratti siano
destinati a protrarsi nel tempo sino ad epoca successiva alla sua entrata in
vigore.

Si è, altresì chiarito che l’art. 23 della legge n. 56 del 1987,
non modifica l’onere della prova delle condizioni che giustificano sia
l’apposizione di un termine al contratto di lavoro, sia l’eventuale temporanea
proroga al termine stesso, onere che l’art. 3 della
legge n. 230 del 1962 pone a carico del datore di lavoro (Cass., 14283 del 2011).

7.5. È dunque di evidenza che, atteso che il primo
contratto veniva stipulato nel 2003, in ragione del complesso quadro normativo
e contrattuale che regolava la disciplina dei contratti a termine nella fase di
prima applicazione del d.lgs. n. 368 del 2001,
la dedotta erronea sussunzione della fattispecie concreta nella qualificazione
giuridica ex lege n. 230 del 1962 – che come si
è detto trova applicazione anche in relazione ai contratti a termine ex lege 56 del 1987, di cui il d.lgs. n. 368 del 2001 sanciva una persistente
validità – doveva essere specificata dalla ricorrente in modo circostanziato,
con riguardo ai fatti giuridici per cui è causa, indicando gli estremi
temporali dei singoli contratti e la causale legale o contrattuale degli
stessi.

7.6. Va, comunque, rilevato che, l’apposizione di un
termine al contratto di lavoro, consentita dall’art. 1 del d.lgs. 6 settembre 2001,
n. 368, a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo
o sostitutivo, che devono risultare specificate, a pena di inefficacia, in
apposito atto scritto, impone al datore di lavoro, in consonanza con la direttiva 1999/70/CE, come interpretata dalla
Corte di Giustizia (cfr. sentenza del 23 aprile 2000, in causa C-378/07 ed
altre; sentenza del 22 novembre 2005, in causa C-144/04), l’onere di indicare
in modo circostanziato e puntuale, al fine di assicurare la trasparenza e la
veridicità di tali ragioni, nonché l’immodificabilità delle stesse nel corso
del rapporto, le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e
che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro, nell’ambito di un
determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, sì da
rendere evidente la specifica connessione tra la durata solo temporanea della
prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia
chiamata a realizzare e la utilizzazione della lavoratrice assunta
esclusivamente nell’ambito della specifica ragione indicata ed in stretto
collegamento con la stessa (Cass., n. 2279 del
2010, n. 10033 del 2010, si v. Cass., n. 840 del 2019, con specifico riferimento
all’art. 1 del d.lgs. n. 368 del
2001, nel testo precedente la modifica introdotta dal d.l. n. 112 del 2008, conv. nella legge n. 133 del 2008).

7.7. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare
(si v., Cass., S.U., n. 4911 del 2016, Cass., n.
840 del 2019) è vero che – come già ritenuto da questa Corte (Cass., n.
17155 del 2015) – nell’apposizione del termine al contratto di lavoro
subordinato, la specificazione delle ragioni giustificatrici ex art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001
può risultare “per relationem” anche da altri testi richiamati nel
contratto di lavoro, ma l’indicazione deve essere circostanziata e puntuale e
deve trattarsi di documenti accessibili agevolmente alla lavoratrice.

Ciò, al fine di assicurare le già ricordate esigenze
di trasparenza e di veridicità di tali ragioni, nonché l’immodificabilità delle
stesse nel corso del rapporto (Cass., n. 21320 del 2019).

7.8. Spetta al giudice di merito accertare – con
valutazione che, se correttamente motivata ed esente da vizi giuridici, resta
esente dal sindacato di legittimità – la sussistenza di tali presupposti,
valutando ogni elemento, ritualmente acquisito al processo, idoneo a dar
riscontro alle ragioni specificamente indicate con atto scritto ai fini
dell’assunzione a termine, ivi compresi gli accordi collettivi intervenuti fra
le parti sociali e richiamati nel contratto costitutivo del rapporto.

7.9. Nella specie, la Corte d’Appello ha fatto
corretta applicazione dei suddetti principi, e con accertamento di merito che
si sottrae a censure, ha affermato, che il datore di lavoro non aveva provato
la sussistenza delle ragioni che ai sensi della legge
n. 230 del 1962 legittimano il ricorso all’apposizione del termine, atteso
che detto onere della prova non poteva ritenersi adempiuto dal mero rinvio ad
un provvedimento amministrativo portante del direttore generale.

Né coglie la ratio decidendi della pronuncia di
appello la censura che, senza riportare la specifica causale dei contratti per
cui è causa, richiama l’organizzazione della Azienda sanitaria e le funzioni
del direttore generale e dal Commissario straordinario, e le delibere dagli
stessi adottati anche in ragione dei vincoli di bilancio, del piano di rientro
dal deficit della sanità, e per assicurare i LEA, in quanto tali argomenti non
escludono e non sono incompatibili con l’indicazione nel contratto individuale
delle ragioni legali o contrattuali dell’apposizione del termine.

8. Con il quinto motivo di ricorso è dedotta la
violazione e falsa applicazione del d.lgs. n. 368
del 2001, in particolare art. 1, e della legge
n. 230 del 1962, in relazione all’art. 360,
n. 3 e n. 5.

Violazione di leggi e disposizioni amministrative
che hanno posto limiti e vincoli alle assunzioni, violazione degli obblighi
derivanti dal piano di rientro dal deficit della sanità e dal mantenimento di
livelli minimi di assistenza. Omesso esame ed omessa motivazione circa fatti
decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti.

La Corte d’Appello aveva dichiarato l’illegittimità
del termine per mancanza delle ragioni di cui alla legge
n. 230 del 1962, trascurando che quest’ultima era stata abrogata sin
dall’anno 2001, per cui andava fatto riferimento al d.lgs.
n. 368 del 2001. Aveva, altresì, trascurato l’esame delle delibere di
assunzione emesse dal direttore generale, e dei sottostanti contratti, in cui
erano indicate le ragioni della apposizione del termine.

Inoltre, le leggi finanziarie succedutesi nel tempo
avevano impedito le assunzioni a tempo indeterminato ed i provvedimenti
ministeriali avevano individuato gli interventi per il perseguimento
dell’equilibrio economico, ai sensi della legge n.
311 del 2004.

9. Il motivo è inammissibile.

In materia di ricorso per cassazione,
l’articolazione in un singolo motivo di più profili di doglianza costituisce
ragione d’inammissibilità quando non è possibile ricondurre tali diversi
profili a specifici motivi di impugnazione, dovendo le doglianze, anche se
cumulate, essere formulate in modo tale da consentire un loro esame separato,
come se fossero articolate in motivi diversi, senza rimettere al giudice il
compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, al fine di ricondurle
a uno dei mezzi d’impugnazione consentiti, prima di decidere su di esse (si v.,
Cass., n. 26790 del 2018, n. 24493 del 2018).

Ciò non si rileva nella fattispecie in esame, ove si
ravvisa la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti
riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art.
360, primo comma, n. 3 e n. 5, cod. proc. civ., non essendo consentita la
prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali
quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi
del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa
applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di
fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa
motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della
causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede
la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il
giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la
contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione
delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione
tra loro.

10. Con il settimo (recte/sesto) motivo di ricorso è
dedotta la violazione e falsa interpretazione dell’ordinanza della CGUE del 12 dicembre 2013, e della direttiva 1999/70 CE, nonché dell’Accordo quadro
sul rapporto a termine, in particolare clausola 5.

Violazione e falsa applicazione del d.lgs. n. 368 del 2001, e succ. mod., in specie artt. 1-4, che ha attuato la citata
direttiva europea e l’allegato accordo quadro sul lavoro a termine.

Nullità della sentenza e del procedimento per omesso
esame ed omessa motivazione in ordine all’intervenuto adeguamento del diritto
interno ai principi della direttiva europea e dell’accordo quadro; erronea
interpretazione ed applicazione dell’ordinanza “P.”; falso
presupposto, violazione del principio dell’onere della prova nella responsabilità
extracontrattuale spettante all’attore ex art. 2697
cod. civ., in relazione all’art. 360, n. 3 e n.
4, cod. proc. civ.

È censurata la statuizione che ha fatto conseguire
all’abusiva reiterazione del contratto a termine la corresponsione
dell’indennità di cui all’art.
32, comma 5, della legge n. 183 del 2010.

Il giudice di appello non aveva tenuto conto
dell’intervenuto adeguamento al diritto comunitario, avvenuto per effetto del d.lgs. n. 368 del 2001.

11. Il motivo è in parte inammissibile e in parte
non fondato.

È Inammissibile la censura di omesso esame e omessa
motivazione atteso che non sono specificate quali deduzioni sarebbero state
disattese con carenza di specificità della censura, sotto questo profilo.

Le restanti censure non sono fondate, atteso che
l’intervenuta adozione del d.lgs. n. 368 del 2001
non esclude, nel pubblico impiego contrattualizzato, il risarcimento del danno
ai sensi dell’art. 36 del
d.lgs. n. 165 del 2001, in caso di abusiva reiterazione dell’apposizione
del termine.

Come questa Corte ha ribadito (si v., Cass., n.
14344 del 2019) la disciplina di cui all’art. 36 del d.lgs. n. 165 del
2001, pur escludendo, in caso di violazione di norme imperative in materia,
la conversione in contratto a tempo indeterminato, introduce un proprio e
specifico regime sanzionatorio con una accentuata responsabilizzazione del
dirigente pubblico e il riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni
subiti dalla lavoratrice e, pertanto è speciale ed alternativa rispetto alla
disciplina di cui all’art. 5 del
d.lgs. n. 368 del 2001, ma pur sempre adeguata alla direttiva 1999/70/CE, e alla giurisprudenza della
CGUE, in quanto idonea a prevenire e sanzionare l’utilizzo abusivo dei
contratti a termine da parte della pubblica amministrazione (si v., Cass. n.392
del 2012; cfr. anche, tra le altre, Cass. n. 5072
del 2016 nonché Cass. n. 22552 del 2016).

La sentenza CGUE, 12
dicembre 2013, causa C-50/13, P., ha ribadito che la clausola 5
dell’accordo quadro non stabilisce un obbligo generale degli Stati membri di
prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di
lavoro a tempo determinato (si v. Cass., S.U., n.
5072 del 2016).

La direttiva del 1999 non contempla alcuna ipotesi
di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo
indeterminato così “lasciando agli Stati membri un certo margine di
discrezionalità in materia”.

La mancata indicazione delle ragioni giustificative
dell’apposizione del termine al contratto, poi prorogato, dà luogo ad una
abusiva reiterazione del contratto a termine, che ricade nell’ambito di
applicazione della direttiva 1999/70/CE, e dà
luogo al diritto al risarcimento del danno secondo i principi sanciti da Cass., S.U., n. 5072 del 2016, alla luce di
quanto affermato dalla CGUE, non trovando applicazione nel pubblico impiego
contrattualizzato, la misura della trasformazione.

12. Con l’ottavo (recte/settimo) motivo di ricorso è
dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010,
in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.

La ricorrente deduce l’inapplicabilità dell’art. 32
della legge n. 182 del 2010, in quanto relativo a fattispecie diversa, e
comunque prospetta l’eccessività dei parametri previsti.

13. Il motivo non è fondato.

Le Sezioni Unite questa Corte, con riferimento all’art. 36, del d.lgs. n. 165 del
2001, hanno già avuto modo di chiarire che nell’ipotesi di illegittima
reiterazione di contratti a termine alle dipendenze di una pubblica
amministrazione, il pregiudizio economico oggetto di risarcimento non può
essere collegato alla mancata conversione del rapporto: quest’ultima, infatti,
è esclusa per legge e trattasi di esclusione affatto legittima sia secondo i
parametri costituzionali che secondo quelli comunitari (Cass. S.U. n. 5072 del 2016).

Piuttosto, considerato che l’efficacia dissuasiva
richiesta dalla clausola 5 dell’Accordo
quadro recepito nella direttiva 1999/70/CE postula una disciplina
agevolatrice e di favore che consenta al lavoratore che, come nella specie,
abbia patito la reiterazione di contratti a termine di avvalersi di una
presunzione di legge circa l’ammontare del danno, che sarà normalmente
correlato alla perdita di chance di altre occasioni di lavoro stabile, le
Sezioni Unite hanno rinvenuto nell’art.
32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, una disposizione idonea allo
scopo, nella misura in cui, prevedendo un risarcimento predeterminato tra un
minimo ed un massimo, consente pro tanto al lavoratore di essere esonerato
dall’onere della prova, fermo restando il suo diritto di provare di aver subito
danni ulteriori (cfr., Cass. S.U., n. 5072 del
2016).

I principi enunciati dalle Sezioni Unite hanno
trovato conferma nella sentenza della Corte di Giustizia 7 marzo 2018,
C-494/16, Santoro, e nella sentenza della Corte costituzionale n. 248 del 2018.

I suddetti principi sono stati correttamente
applicati dalla Corte di Appello, che nella determinazione del risarcimento ha
tenuto conto dell’arco temporale in cui si erano succeduti i contratti a
termine.

14. Il ricorso deve essere rigettato.

15. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate
come in dispositivo.

16. Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 -quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento,
da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 -bis, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al
pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro 200,00, per esborsi, euro
4.500,00, per compensi professionali, oltre spese generali in misura del 15% e
accessori di legge.

Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 -quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento,
da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 -bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 19 marzo 2020, n. 7476
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