Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 06 marzo 2020, n. 6444

Plurimi atti vessatori, Risarcimento del danno morale e del
danno patrimoniale, Inadempimento unitario del datore di lavoro integrante una
fattispecie di mobbing, Inammissibilità che sulla stessa questione debbano
pronunciarsi giudici diversi, Ricorso privo di un requisito di ammissibilità,
Impossibile integrare con riferimento a fonti esterne, quale la stessa sentenza
impugnata

 

Rilevato che

 

1. C.G. aveva convenuto dinanzi al Tribunale di Roma
l’Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza sul Lavoro (ISPESL) con
un primo ricorso, depositato il 3 marzo 2008 ed iscritto al n. 7441/2008,
asserendo di essere stato oggetto di plurimi atti vessatori, iniziati già in
epoca antecedente al luglio 1998, ed aveva domandato la condanna dell’istituto
al risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti;

2. con successivo ricorso, depositato il 31.7.2008
ed iscritto al n. 25675/2008, lo stesso ricorrente aveva nuovamente convenuto
in giudizio l’Istituto deducendo di essere stato ingiustamente escluso dal
conferimento di un incarico dirigenziale tecnico scientifico e di avere
intrapreso una serie di iniziative, anche penali, perché in occasione della
formazione della graduatoria, approvata con delibera del 1° dicembre 1992, i
titoli da lui vantati non erano stati correttamente valutati e perché la
procedura presentava numerosi profili di irregolarità;

3. aveva, quindi, domandato la condanna dell’ente al
risarcimento del danno morale e del danno patrimoniale, quantificato in misura
pari alle differenze retributive, calcolate per il periodo marzo 1993/dicembre
2005, ed al maggior importo del trattamento pensionistico che avrebbe percepito
qualora l’incarico fosse stato conferito;

4. il Tribunale, previa riunione dei giudizi,
dichiarava il difetto di giurisdizione sulla domanda proposta con ricorso del
31 luglio 2008, perché relativa a vicende del rapporto antecedenti il 1° luglio
1998, e, quanto al primo ricorso, limitatamente ai fatti verificatisi sino a
detta data, e, per il resto, rigettava nel merito la domanda, sia perché non
sussistevano gli illeciti denunciati, sia per l’«inconsistenza assertiva e
probatoria» dei danni dei quali era stato domandato il risarcimento;

5. la Corte d’Appello di Roma, adita da C.G. con due
distinti atti di appello, dichiarata l’inammissibilità della seconda
impugnazione, ha così statuito: «in parziale riforma della gravata sentenza,
confermata nel resto, ritenuta la giurisdizione del giudice ordinario, rigetta
la domanda del G. azionata con ricorso di primo grado iscritto al n. di r.g.
7441/2008»;

6. la Corte territoriale, per quel che ancora rileva
in questa sede, ha evidenziato che allorquando venga dedotto un inadempimento
unitario dell’amministrazione, qual è il comportamento complessivo del datore
di lavoro integrante una fattispecie di mobbing, non è ammissibile che sul
medesimo rapporto e sulla stessa questione debbano pronunciarsi due giudici
diversi e, pertanto, ha ritenuto di dovere esaminare anche le condotte
verificatesi sino al 30 giugno 1998;

7. il giudice d’appello ha precisato al riguardo che
il Tribunale, pur avendo dichiarato il difetto di giurisdizione, aveva poi
esteso la cognizione all’intero periodo ed aveva ritenuto la domanda
risarcitoria infondata sulla base di considerazioni che andavano richiamate e
confermate, perché non adeguatamente censurate dall’appellante, il quale si era
limitato a riproporre la tesi giuridica già esposta in primo grado, senza
confrontarsi con gli argomenti sviluppati nella sentenza impugnata;

8. per la cassazione della sentenza ha proposto
ricorso C.G. sulla base di due motivi, ai quali ha opposto difese l’INAIL,
quale successore ex lege dell’ISPESL, con tempestivo controricorso, illustrato
da memoria ex art. 380 bis cod. proc. civ..

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo, articolato in due punti, il
ricorrente, in via principale, eccepisce ex art.
360 n. 4 cod. proc. civ. la nullità della sentenza impugnata per violazione
dell’art. 112 cod. proc. civ. e si duole
dell’omessa pronuncia sulla domanda di risarcimento del danno, di natura
extracontrattuale, formulata con il ricorso iscritto al n. 25675/2008 R.G.
Tribunale di Roma;

1.1. precisa al riguardo che la motivazione della
sentenza non contiene alcun argomento riferibile alla responsabilità «da
ingiusto mancato conferimento di incarico dirigenziale, all’esito di procedura
concorsuale illegittima» ed anche il dispositivo si riferisce al solo ricorso
n. 7441/2008, rigettato nel merito una volta ritenuta la giurisdizione del
giudice ordinario;

1.2. in via subordinata, sempre con il primo motivo,
è denunciata la violazione degli artt. 2043 e
seguenti cod. civ. perché, quanto al mancato conferimento dell’incarico,
C.G. aveva pienamente assolto all’onere della prova sullo stesso gravante ex art. 2043 cod. civ., dimostrando la condotta
colposa dell’ente, che non aveva espletato la necessaria procedura concorsuale,
illegittimamente sostituita da una selezione affidata a personale interno, ed
aveva attribuito erroneamente i punteggi sottovalutando la posizione del
ricorrente;

1.3. quest’ultimo aveva provato anche il danno
evento, ossia il mancato conferimento dell’incarico, ed il danno conseguenza,
ravvisabile nella diminuzione patrimoniale subita per effetto dell’altrui
condotta colposa;

2. la seconda censura, riferibile al rigetto della
domanda proposta con il ricorso n. 7441/2008, denuncia, ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ., l’insufficienza e
l’illogicità della motivazione;

3. il ricorso è inammissibile in tutte le sue
articolazioni;

3.1. il primo motivo, riguardante la domanda
risarcitoria azionata in primo grado in relazione al mancato conferimento di un
incarico dirigenziale, è formulato senza il necessario rispetto degli oneri di
specificazione e di allegazione di cui agli artt. 366
n. 6 e 369 n. 4 cod. proc. civ.;

3.2. la giurisprudenza di questa Corte è consolidata
nell’affermare che, anche qualora venga dedotto un error in procedendo,
rispetto al quale la Corte è giudice del «fatto processuale», l’esercizio del
potere/dovere di esame diretto degli atti è subordinato al rispetto delle
regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in
nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del
giudice di legittimità (Cass. S.U. n. 8077/2012);

3.3. la parte, quindi, non è dispensata dall’onere
di indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore
denunciato e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti, non essendo
consentito il rinvio per relationem agli atti del giudizio di merito, perché la
Corte di Cassazione, anche quando è giudice del fatto processuale, deve essere
posta in condizione di valutare ex actis la fondatezza della censura e deve
procedere solo ad una verifica degli atti stessi non già alla loro ricerca
(Cass. n. 15367/2014; Cass. n. 21226/2010);

3.4. dal principio di diritto, enunciato in via
generale, è stata tratta la conseguenza che, qualora il ricorrente lamenti
l’omessa pronuncia «su una o più domande avanzate in primo grado è necessaria,
al fine dell’ammissibilità del ricorso per cassazione, la specifica indicazione
dei motivi sottoposti al giudice del gravame sui quali egli non si sarebbe
pronunciato, essendo in tal caso indispensabile la conoscenza puntuale dei motivi
di appello» (Cass. n. 14561/2012);

3.5. a maggior ragione detto onere doveva essere
assolto con rigore nella fattispecie per la complessità della vicenda
processuale, nella quale, previa riunione di due distinti ricorsi, in primo
grado era stato pronunciato il difetto di giurisdizione, in un caso con
riferimento all’intera materia oggetto del contendere (ricorso iscritto al n.
25675/2008 R.G. Tribunale di Roma) nell’altro (ricorso iscritto n. 7441/2008
R.G. Tribunale di Roma) limitatamente alle condotte tenute dopo il 30 giugno
1998, ed avverso detta pronuncia erano stati proposti due distinti atti di
appello, di cui uno dichiarato inammissibile, in quanto diretto ad integrare il
precedente gravame;

3.6. in questo contesto, nel rispetto dell’onere di
specifica indicazione imposto dal richiamato art.
366 n. 6 cod. proc. civ., il ricorrente avrebbe dovuto dimostrare,
riportando nel ricorso i passaggi significativi dell’atto di appello scrutinato
nel merito (ossia quello iscritto al n. 6697/2009), che con quell’atto era
stato specificamente censurato il capo della decisione relativo alla
dichiarazione di difetto di giurisdizione quanto al ricorso volto ad ottenere
il risarcimento del danno derivato dal mancato conferimento, nell’anno 1992, di
un incarico dirigenziale;

3.7. al riguardo si deve evidenziare che, ove il
ricorso sia privo di un requisito di ammissibilità, non è possibile integrarlo
con riferimento a fonti esterne, quale è la stessa sentenza impugnata, sentenza
che, tra l’altro, nel caso di specie non contiene alcun elemento dal quale si
possa desumere che la riforma parziale della pronuncia di primo grado, quanto
alla giurisdizione, sia stata riferita anche al ricorso n. 25675/2008, al quale
non fanno cenno né il dispositivo né la motivazione che, in punto di
giurisdizione, evidenzia solo l’impossibilità di compiere una valutazione
atomistica dei singoli episodi integranti la fattispecie del mobbing;

4. parimenti inammissibile è il secondo motivo,
perché la censura, che denuncia la «illogicità della motivazione della
sentenza», non è riconducibile al vizio di cui al riformulato art. 360 n. 5 cod. proc. civ., come interpretato
dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 8053/2014, ed inoltre
non coglie pienamente la ratio della sentenza impugnata, con la quale i motivi
di appello formulati avverso il rigetto della domanda di risarcimento del danno
da mobbing sono stati ritenuti non infondati, bensì inammissibili per difetto
della necessaria specificità (pag. 9 e 10 della sentenza impugnata);

5. si deve, poi, aggiungere che allorquando, come
nella fattispecie, «la sentenza di appello sia motivata per relationem alla
pronuncia di primo grado, al fine ritenere assolto l’onere ex art. 366, n. 6, c.p.c. occorre che la censura
identifichi il tenore della motivazione del primo giudice specificamente
condivisa dal giudice di appello, nonché le critiche ad essa mosse con l’atto
di gravame, che è necessario individuare per evidenziare che, con la resa
motivazione, il giudice di secondo grado ha, in realtà, eluso i suoi doveri
motivazionali» (Cass. S.U. n. 7074/2017);

5.1. a tanto il ricorrente non ha provveduto sicché
il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna di
C.G. al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da
dispositivo;

5.2. sussistono le condizioni processuali di cui
all’art. 13 c. 1 quater d.P.R. n. 115
del 2002.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in €
200,00 per esborsi ed € 5.500,00 per competenze professionali, oltre al
rimborso delle spese generali del 15% ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma
1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

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