Ove il licenziamento sia intimato senza contestazione disciplinare dei fatti si applica la tutela reintegratoria (con effetti risarcitori limitati).
Nota a Cass. 24 febbraio 2020, n. 4879
Fabrizio Girolami
La tutela reintegratoria “attenuata” prevista dall’art. 18, co. 4, dello Statuto dei lavoratori (nel testo risultante dall’art. 1, co. 42, L. n. 92/2012, ratione temporis applicabile al caso di specie) è applicabile nei confronti di un lavoratore sottoposto a licenziamento disciplinare (per minaccia, ricatto e lesione dell’immagine aziendale), qualora i fatti posti alla base del recesso non siano stati preventivamente indicati nella lettera di contestazione dell’addebito. In tale fattispecie, infatti, la mancanza di una contestazione che delinei i contorni dell’addebito configura un’ipotesi di “insussistenza del fatto contestato” – in cui il fatto è insussistente in quanto non contestato – che legittima la reintegrazione nel posto di lavoro, sia pure con effetti risarcitori limitati.
La medesima soluzione giuridica è applicabile anche nel caso di licenziamento disciplinare dei lavoratori neoassunti (i.e. assunti dopo il 7 marzo 2015), per i quali la tutela reintegratoria “attenuata” per “insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore” è prevista dall’art. 3, co. 2, D.LGS. 4 marzo 2015, n. 23 (“Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”).
È quanto afferma la Corte di Cassazione (sentenza 24 febbraio 2020, n. 4879), nella vicenda un lavoratore che aveva impugnato il licenziamento irrogatogli per avere pronunciato (dopo che gli era stato negato il godimento delle ferie nel mese di agosto), una frase ritenuta minatoria dalla società datrice di lavoro.
A sostegno della domanda, il lavoratore aveva dedotto la violazione del principio di immutabilità della contestazione disciplinare, in quanto la lettera di licenziamento conteneva il richiamo a circostanze fattuali mai addebitategli in precedenza.
A seguito del primo grado di giudizio, la Corte d’Appello di Ancona, con sentenza 21 maggio 2018, aveva annullato – per ritenuta insussistenza del fatto contestato, per mancanza di ogni intento minatorio nella frase proferita dal lavoratore e di ogni profilo di illiceità nella dichiarazione resa dal predetto circa la sussistenza di una congiura ai suoi danni – il licenziamento intimato, condannando la società alla reintegrazione nel posto di lavoro, oltre al pagamento di un’indennità mensile di importo pari a Euro 3.100,00.
Nello specifico, la Corte territoriale aveva ritenuto che la frase proferita dal lavoratore “Se mi faccio male io, non mi faccio male da solo” non integrava gli estremi del ricatto o della minaccia, considerato il contesto di riferimento in cui venivano negate dalla società le ferie in agosto e veniva preannunciato dal lavoratore l’azionamento di una eventuale controversia. Il giudice di merito aveva, altresì, ritenuto violato il principio di immutabilità della contestazione disciplinare, evincibile dalla valutazione comparativa tra le circostanze di fatto enunciate nella missiva della contestazione dell’addebito disciplinare e le differenti e ulteriori circostanze enunciate nella missiva del licenziamento. Infine, alla stregua di tali rilievi, aveva confermato la correttezza della tutela reintegratoria applicata, senza che rilevasse la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità.
La società datrice di lavoro aveva proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza deducendo che i vizi procedurali anche gravi che colpiscono il licenziamento possono dare luogo solo all’applicazione della tutela indennitaria ridotta di cui all’articolo 18, co. 6, Stat. Lav. [per i lavoratori neoassunti, l’equivalente tutela di cui all’art. 4, D.LGS. n. 23/2015] mentre la tutela reintegratoria può applicarsi solo quando vi sia sul piano sostanziale “un difetto di giustificazione del licenziamento”.
La Corte, con la sentenza in commento, rileva che la questione oggetto della fattispecie di causa è quella “della individuazione del regime di tutela applicabile in ipotesi di omessa iniziale contestazione di taluni comportamenti, poi esplicitati nel provvedimento di licenziamento”.
Secondo la tesi interpretativa prospettata dalla ricorrente, laddove ricorrano tali casi, spetta, a favore del lavoratore licenziato, unicamente la tutela indennitaria ridotta per i casi di vizi formali e procedurali prevista dall’art. 18, co. 6, Stat. Lav. (e dell’art. 4, D.LGS. n. 23/2015), ovverosia un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Di totale diverso avviso è invece la Cassazione che – rigettando la tesi prospettata dalla società – ha declinato il seguente rigoroso iter argomentativo.
Come anche stabilito dal prevalente e consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, la contestazione dell’infrazione costituisce “elemento essenziale di garanzia del procedimento disciplinare” al fine di riconoscere idonee garanzie di difesa al lavoratore in sede di produzione delle eventuali giustificazioni (così Cass. 21 gennaio 2015, n. 1026) e deve delineare il fatto contestato nei suoi contorni essenziali, in modo da “cristallizzare” il fatto ascritto al dipendente (così, Cass. 24 luglio 2018, n. 19632). Ne consegue che il giudice, ove la contestazione sia stata formulata in maniera generica per una parte dell’addebito, può ben valutare – ai fini della verifica circa la legittimità, o meno, della sanzione espulsiva – solo i fatti specificamente contestati, senza tener conto dei fatti genericamente indicati.
Laddove il licenziamento disciplinare non sia preceduto da una contestazione dell’addebito disciplinare che delinei i contorni del fatto contestato ai sensi e per gli effetti dell’art. 7 Stat. Lav. – osserva la Corte – non è possibile configurare il vizio a cui l’ordinamento ricollega l’applicazione del solo rimedio indennitario di cui al co. 6 dell’art. 18 Stat. Lav. (o dell’art. 3, co. 2, D.LGS. n. 23/2015), ma si delinea la diversa e più grave fattispecie del “fatto insussistente” di cui al co. 4 del medesimo art. 18 Stat. Lav. (o dell’art. 4, D.LGS. n. 23/2015), a cui consegue l’applicazione della tutela reintegratoria, sia pure con effetti risarcitori limitati.
Sotto tale profilo, afferma la Corte, come già rilevato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 14 dicembre 2016, n. 25745, annotata in questo sito da F. BELMONTE, Illegittimità del licenziamento disciplinare per omessa contestazione degli addebiti), in tema di licenziamento disciplinare “il radicale difetto di contestazione dell’infrazione determina l’inesistenza dell’intero procedimento, e non solo l’inosservanza delle norme che lo disciplinano, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria, di cui al comma 4 dell’art. 18 della l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, richiamata dal comma 6 del predetto articolo per il caso di difetto assoluto di giustificazione del provvedimento espulsivo”.
Pertanto, l’inesistenza della contestazione configura un’ipotesi di “insussistenza del fatto contestato” ai sensi dell’art. 18, co. 4, Stat. Lav. (o di “insussistenza del fatto materiale contestato” ai sensi dell’art. 3, co. 2, D.LGS. n. 23/2014) cui consegue l’applicazione, a favore del lavoratore licenziato, della tutela reintegratoria “attenuata” con effetti risarcitori limitati (prevista dalle medesime disposizioni e consistenti nel pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto sia ciò che il lavoratore ha effettivamente percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, sia ciò che lo stesso avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione).
Su tali presupposti, la Corte – tenuto conto che nel caso di specie neanche genericamente uno dei fatti ascritti al lavoratore nella lettera di licenziamento era indicato nella contestazione disciplinare – ha respinto il ricorso proposto dalla società, confermando l’illegittimità del licenziamento disciplinare dalla stessa irrogato e il conseguente diritto del dipendente alla reintegrazione nel proprio posto di lavoro con la relativa indennità.