Il prestatore reintegrato sul luogo di lavoro in seguito ad un licenziamento illegittimo, che sia emarginato o adibito a mansioni inferiori, ha diritto al risarcimento del danno biologico, purché ne dia specifica prova.
Nota a Cass. ord. 10 marzo 2020, n. 6750
Sonia Gioia
L’assegnazione a mansioni deteriori o la totale esclusione del dipendente da ogni attività aziendale sono condotte potenzialmente idonee a ledere l’integrità psicofisica del lavoratore (c.d. danno biologico) e fonte di responsabilità risarcitoria in capo al datore di lavoro.
A tal fine, la produzione di siffatto pregiudizio deve essere palesata dal prestatore che ha l’onere di dedurre e provare, in sede giudiziale, gli elementi fattuali significativi dell’illegittimo esercizio dello jus variandi, delle patologie contratte nonché della dipendenza tra gli uni e le altre.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (ord. 10 marzo 2020, n. 6750), confermando la pronuncia di merito (App. Roma n. 364/2016) che aveva condannato la società datrice di lavoro (Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a.) al risarcimento del danno biologico patito dal dipendente per effetto dell’illecito demansionamento, consistito nel non essere stato reintegrato, all’esito dell’accertamento giudiziale di illegittimità del suo pregresso licenziamento, nella posizione di direttore di agenzia e costretto, peraltro, ad una sostanziale inattività.
Al riguardo, la Corte ha, altresì, precisato che quando il danno biologico è quantificato in misura inferiore all’area coperta dall’indennizzo INAIL, cioè nel momento in cui la menomazione è di grado inferiore al 6% (art. 13, D. LGS. n. 38/2000), l’obbligo risarcitorio grava interamente sul datore di lavoro, con esclusione di “ogni questione di danno differenziale” (ossia, quello ottenuto dalla differenza tra quanto indennizzato dall’INAIL e quanto risarcito dal datore di lavoro in sede civilistica).
Ciò perché le somme erogate dall’istituto assicuratore non possono essere considerate esaustive “del diritto alla tutela integrale della salute, di matrice costituzionale, dovendosi ammettere la risarcibilità integrale del danno biologico” (Cass. n. 25618/2018; Cass. n. 27669/2017; Cass. n. 9166/2017; Cass. n. 20807/2016).
Infine, il dipendente che lamenti anche un danno alla dignità professionale, che non coincide con il mero demansionamento, ha l’onere di fornire adeguata prova dei pregiudizi derivanti dall’accertata dequalificazione (Cass. n. 24143/2010; Cass. n. 5067/2010; Cass. S.U. n. 26972/2008), che possono consistere sia nell’impoverimento della capacità professionale o nella mancata acquisizione di maggiori competenze che nella perdita di ulteriori possibilità di guadagno (nel caso di specie, la Corte ha escluso il danno professionale perché il lavoratore aveva omesso di evidenziare le conseguenze negative, in termini di perdita di professionalità, scaturenti dalla sua sostanziale inoperosità).
Sulla questione, v. anche, in questo sito, F.A., Danno biologico differenziale (liquidazione), in 100 parole.