Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 aprile 2020, n. 12181

Prevenzione infortuni sul lavoro, Inadeguata valutazione dei
rischi, Lavoratori stranieri privi di adeguata informazione, in una lingua da
loro conosciuta, Organizzazione delle operazioni di pulizia, Coerenza
strutturale della sentenza di merito, sotto il profilo logico-argomentativo,
Preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della
decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri

Ritenuto in fatto

1. B.B. ricorre per cassazione avverso la sentenza
in epigrafe indicata, con la quale è stata confermata la pronuncia di condanna
emessa in primo grado, in ordine al reato di cui all’art.
589 cod. pen., perché, nella qualità di Vicepresidente del Consiglio di
amministrazione della S.R. s.p.a., per colpa consistita in negligenza,
imprudenza, imperizia e inosservanza delle norme in materia di prevenzione
degli infortuni sul lavoro (artt.
28, 29, 36, comma 2, lett.
a), 37 comma 1 e 71, D.Igs.
81/2008), non effettuando un’adeguata valutazione dei rischi derivanti
dalla vicinanza tra organi fissi e mobili della cosiddetta “giostra”
dell’impianto di schiumatura delle selle; non approntando un’idonea grigliatura
della zona in cui detti organi avevano una distanza di soli 11 cm tra loro; non
curando che le fasi di lavoro e della pulizia della “giostra” fossero
organizzate in modo da evitarne la contestualità; non curando che i lavoratori
stranieri ricevessero un’adeguata informazione, in una lingua da loro
conosciuta, in ordine ai rischi specifici relativi alle loro mansioni e alle eventuali
disposizioni aziendali in materia, cagionava la morte di R.E.M., dipendente
incaricato della pulizia della “giostra”, che, durante le operazioni
cui era addetto, rimaneva schiacciato tra gli organi in movimento del
macchinario ed ivi decedeva.

2. La ricorrente deduce violazione di legge e vizio
di motivazione in ordine alla responsabilità, poiché gli apparati argomentativi
delle pronunce di merito sono discordi e la Corte d’appello ha omesso di
rilevare la presenza di un sistema di sicurezza costituito da un cancello di
accesso al macchinario, la cui apertura comportava il blocco automatico della
“giostra”, sì da impedire il contestuale svolgimento delle operazioni
di lavorazione e di quelle di pulizia. Ciò che costituisce di per sé prova che
tale specifico rischio fosse stato valutato. Gli stessi accertatori della ASL
hanno riscontrato che la procedura aziendale predisposta al riguardo prevedeva
la successione delle predette operazioni e non già la loro sovrapposizione. I
molteplici presidi a tutela dell’incolumità fisica dei lavoratori, presenti in
azienda, sono stati poi descritti dai testi escussi in dibattimento e dal
Consulente tecnico della difesa, prof. A.. Erroneamente la Corte ha tacciato di
irrilevanza nonché di inattendibilità le deposizioni dei testi a difesa – e, in
particolare, quella del P., che era un conoscitore dei sistemi di sicurezza
adottati dall’azienda -, limitandosi ad affermare apoditticamente
“l’evidente interesse dei testi a sostenere le tesi difensive”,
omettendo di svolgere una analisi critica di tali dichiarazioni. Così come il
Giudice a quo ha ingiustificatamente negato efficacia probatoria alle prove
contrarie, assunte nel corso del dibattimento e desumibili dalla relazione del
consulente tecnico della difesa, ing. A., in cui veniva evidenziato come il
macchinario fosse dotato di 13 barriere di sicurezza con microinterruttore, una
delle quali situata, ad altezza d’uomo, proprio nel punto in cui si verificò
l’incidente, limitandosi ad affermare sbrigativamente la mancanza di prova in
ordine all’effettività di tali presidi al momento dell’infortunio. Viceversa,
il Giudice a quo avrebbe dovuto procedere ad una rinnovazione, quantomeno
parziale, dell’istruttoria. Nessun elemento di riscontro supporta comunque
l’asserto inerente alla modificazione del macchinario in epoca successiva
all’infortunio, tanto più che la deposizione dello stesso Consulente tecnico
dell’accusa, ing. Z., è laconica e contraddittoria e non offre alcuna certezza
in ordine all’effettivo stato del macchinario all’epoca dell’infortunio.

2.1. La Corte d’appello omette poi di valutare
l’imprevedibilità della condotta del R., il quale, dopo aver raggiunto la zona
di lavoro attraverso un tortuoso passaggio in un pertugio ed il superamento di
molteplici ostacoli, inserì deliberatamente la testa nel ridottissimo spazio,
di 10-15 cm, esistente tra la centralina elettrica e la macchina in rotazione,
in modo pericoloso, con condotta tale da interrompere il nesso causale. E’
intrinsecamente contraddittoria l’affermazione, formulata dalla Corte
d’appello, secondo cui questo comportamento costituiva una “prassi non
eccezionale”, tanto più che molte dichiarazioni testimoniali, come quella
del G. e del L., smentiscono tale assunto. È stato poi evidenziato dal consulente
della difesa che l’infortunio non è eziologicamente riconducibile alla mancanza
di una griglia che impedisse l’accesso secondario al macchinario, poiché
quest’ultima non avrebbe avuto alcuna efficacia impeditiva dell’infortunio, non
essendo in alcun modo prevedibile che un operaio si potesse trovare con la
testa a 70 cm, completamente addossato alla macchina in rotazione. Tanto più
che la persona offesa non aveva alcuna necessità di procedere alle operazioni
di rimozione della segatura, che doveva rimanere in loco.

Si chiede pertanto annullamento della sentenza
impugnata.

 

Considerato in diritto

 

1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
Costituisce infatti ius receptum, nella giurisprudenza della suprema Corte, il
principio secondo il quale, anche alla luce della novella del 2006, il
controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene pur
sempre alla coerenza strutturale della decisione, di cui saggia l’oggettiva
“tenuta”, sotto il profilo logico-argonnentativo, e quindi l’accettabilità
razionale, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a
fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri
di ricostruzione e valutazione dei fatti (Cass., Sez. 3, n. 37006 del 27
-9-2006, Piras, Rv. 235508; Sez. 6, n. 23528 del
6-6-2006, Bonifazi, Rv. 234155). Ne deriva che il giudice. di legittimità,
nel momento del controllo della motivazione, non deve stabilire se la decisione
di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti né deve condividerne la
giustificazione ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia
compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di
apprezzamento, atteso che l’art. 606, comma 1,
lett. e), cod. proc. pen. Non consente alla Corte di cassazione una diversa
interpretazione delle prove. In altri termini, il giudice di legittimità, che è
giudice della motivazione e dell’osservanza della legge, non può divenire
giudice del contenuto della prova, non competendogli un controllo sul
significato concreto di ciascun elemento probatorio. Questo controllo è
riservato al giudice di merito, essendo consentito alla Corte regolatrice
esclusivamente l’apprezzamento della logicità della motivazione (cfr., ex
plurimis, Cass., Sez. 3, n. 8570 del 14-1-2003, Rv. 223469; Sez. fer., n. 36227
del 3-9-2004, Rinaldi; Sez. 5, n. 32688 del 5-7-2004, Scarcella; Sez. 5,
n.22771 del 15-4-2004,  Antonelli).

2. Nel caso in disamina, il giudice a quo ha evidenziato
che il R. si era recato nella zona della “giostra”, che, essendo
sporca, necessitava del suo intervento. Per giungere in loco era passato
attraverso quello che l’operante di polizia giudiziaria intervenuto aveva
definito un “pertugio”, dove “poteva passare una persona
sola”. L’operaio si era comportato in modo analogo in altre occasioni,
come si desume dalle dichiarazioni del teste G., in quanto quella era la strada
diretta per raggiungere la postazione da pulire, mentre, passando per la porta
munita di sistema di allarme, avrebbe allungato il percorso di 3 metri ed
avrebbe inoltre provocato il blocco della contemporanea attività di caricamento
delle copertine. Che poi non costituisse un fatto eccezionale effettuare i
lavori di pulizia anche con la macchina avviata è stato confermato – specifica
la Corte d’appello – anche da chi svolgeva abitualmente quei lavori e cioè dal
teste presente C.R., che alla domanda specifica rivoltagli aveva risposto:
“Anche gli altri sabati succedeva così”. Risulta così assodato –
argomenta il giudice a quo – che i dirigenti della società si disinteressavano
completamente del modo in  cui veniva
svolto in concreto il lavoro di pulizia, atteso che tutta l’operazione non era
seguita neppure dal preposto del reparto, poiché quest’ultimo quella mattina
era assente. Accertato dunque che “succedeva” che lavori di pulizia e
lavori di carico delle copertine si sovrapponessero, va sottolineata –
specifica la Corte di merito – la pericolosità che ciò comportava per la sicurezza
di chi doveva compiere i lavori di pulizia, in quanto l’addetto non solo doveva
operare anche in un punto in cui lo spazio si restringeva a soli 11 cm ma
doveva stare attento anche agli spostamenti della macchina. Il R. venne dunque
sorpreso dal suindicato movimento, rimanendo con la testa schiacciata tra
l’elemento fisso e quello rotante. Di qui la conclusione alla quale è pervenuto
il giudice di secondo grado, secondo cui il decesso  dell’operaio è stato causato da una serie di
carenze tutte addebitabili ad omissioni colpose del datore di lavoro.
Quest’ultimo, infatti, non curò con adeguata organizzazione che le operazioni
di pulizia non fossero concomitanti con quelle di caricamento delle copertine;
non valutò il rischio derivante da tale pericolosa sovrapposizione per chi
effettuava quelle operazioni operando in spazi ristretti tra organi ravvicinati
fissi e rotanti; non impedì, di conseguenza, l’accesso incontrollato
dell’operaio in una zona di lavoro divenuta in tal modo pericolosa. Né
indicazioni in senso contrario erano desumibili dalle deposizioni dei testi
della difesa, i quali si erano limitati a chiarire come e quando si sarebbero
dovute fare le pulizie ma nulla avevano potuto riferire di ciò che era avvenuto
quella mattina, dato che alcuni non erano presenti e il L. era passato davanti
alla “giostra” una sola volta, quando i dipendenti erano in pausa.
L’impianto argomentativo a sostegno del decisum è dunque puntuale, coerente,
privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l’iter
logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di
legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame tutte le
deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso un
itinerario concettuale in nessun modo censurabile, sotto il profilo della
razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in
termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili
in questa sede.

3. Le conclusioni a cui è pervenuto il giudice a quo
sono d’altronde del tutto conformi al consolidato orientamento della
giurisprudenza di legittimità, secondo cui compito del titolare della posizione
di garanzia è evitare che si verifichino eventi lesivi dell’incolumità fisica
intrinsecamente connaturati all’esercizio di talune attività lavorative anche
nell’ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti ad eventuali negligenze,
imprudenze e disattenzioni dei lavoratori subordinati, la cui incolumità deve
essere protetta con appropriate cautele. Il garante non può, infatti, invocare,
a propria scusa, il principio di affidamento, assumendo che il comportamento
del lavoratore era imprevedibile, poiché tale principio non opera nelle
situazioni in cui sussiste una posizione di garanzia (Cass., Sez. 4, 22-10-1999,
Grande, Rv. 214497).

Il garante, dunque, ove abbia negligentemente omesso
di attivarsi per impedire l’evento, non può invocare, quale causa di esenzione
dalla colpa, l’errore sulla legittima aspettativa in ordine all’assenza di
condotte imprudenti, negligenti o imperite da parte dei lavoratori, poiché il
rispetto della normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l’incolumità
del lavoratore anche dai rischi derivanti dalle sue stesse imprudenze e
negligenze o dai suoi stessi errori, purché connessi allo svolgimento
dell’attività lavorativa (Cass., Sez. 4, n. 18998
del 27-3-2009, Rv. 244005).

Ne deriva che il titolare della posizione di
garanzia è tenuto a valutare i rischi e a prevenirli e la sua condotta non è
scriminata, in difetto della necessaria diligenza, prudenza e perizia, da
eventuali responsabilità dei lavoratori ( Cass.,
Sez. 4, n. 22622 del 29-4-2008, Rv. 240161).

4. Infondata è anche la doglianza inerente
all’interruzione del nesso causale, giacché quest’ultima, nella sequenza
fattuale descritta nella motivazione della sentenza impugnata, non può
certamente essere ravvisata. L’operatività dell’art.
41, comma 2, cod. pen. è infatti circoscritta ai casi in cui la causa
sopravvenuta inneschi un rischio nuovo e del tutto incongruo rispetto al
rischio originario, attivato dalla prima condotta (Cass., Sez. 4, n. 25689 del
3-5-2016, Rv. 267374; Sez. 4, n. 15493 del 10-3-2016, Pietrannala, Rv. 266786;
n. 43168 del 2013, Rv. 258085). Non può, pertanto, ritenersi causa
sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l’evento, il comportamento
negligente di un soggetto, nella specie il lavoratore, che si riconnetta ad una
condotta colposa del datore di lavoro (Cass., Sez. 4, n. 18800 del 13-4-2016,
Rv. 267255; n. 17804 del 2015, Rv. 263581; n. 10626 del 2013, Rv.256391).
L’interruzione del nesso causale è infatti ravvisabile esclusivamente qualora
il lavoratore ponga in essere una condotta del tutto esorbitante dalle
procedure operative alle quali è addetto ed incompatibile con il sistema di
lavorazione ovvero non osservi precise disposizioni antinfortunistiche. In
questi casi è configurabile la colpa dell’infortunato nella produzione
dell’evento, con esclusione della responsabilità penale del titolare della
posizione di garanzia (Cass., Sez 4, 27-2-1984, Monti, Rv. 164645; Sez. 4,
11-2-1991, Lapi, Rv. 188202). Nel caso di specie, dalla motivazione della
sentenza impugnata risulta come l’operazione effettuata, anche laddove la si
voglia connotare in termini di imprudenza e imperizia, rientrasse appieno nelle
mansioni del lavoratore e fosse dettata da precise esigenze operative, connesse
all’accesso nella zona da pulire e all’espletamento delle operazioni di
pulizia. D’altronde, il giudice a quo, con motivazione del tutto congrua, ha
sottolineato come l’imputata non avesse nominato un responsabile per la
prevenzione competente, dotandolo dei relativi poteri di spesa, né avesse
stabilito una procedura controllata che garantisse l’incolumità degli addetti
alle pulizie, impegnati ad operare nelle anzidette pericolose condizioni; né
avesse disposto la chiusura, con una griglia, del pertugio; né avesse
individuato modalità che ponessero il capo macchina in condizione di avviare la
fase di carico delle copertine in assoluta sicurezza, come poi avvenne dopo
l’infortunio, allorchè venne ottemperato, in pochi giorni, a tutte le
prescrizioni dello SPISAL.

5. Il ricorso va dunque rigettato, con conseguente
condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento delle spese processuali.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 aprile 2020, n. 12181
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: