Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 aprile 2020, n. 12151

Norme di prevenzione e sicurezza dei luoghi di lavoro, Misure
precauzionali atte ad impedire la diffusione ambientale e l’inalazione di fibre
di amianto, Lesioni personali, Prova testimoniale, Dichiarazioni di persone
in età anagrafica avanzata, Prevedibile impossibilità di ripetizione delle
dichiarazioni rese in precedenza quale presupposto della loro utilizzazione in
giudizio, Eccezioni al principio dell’oralità processuale

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza in data 8 novembre 2018 la Corte di
Appello di Torino ha confermato la sentenza del Tribunale di Vercelli con cui
M.M. e P.M., nella loro qualità di legali rappresentanti della M.A.F. s.p.a.,
sono stati riconosciuti colpevoli del reato di cui agli artt. 113, 589 comma
2^, 3 e 5 cod. pen. e condannati alla pena ritenuta di giustizia, per avere
cagionato, cooperando fra loro, con imprudenza, negligenza ed imperizia e
violando le norme di prevenzione e sicurezza dei luoghi di lavoro (artt. 4, 19 e 21 d.lgs. 81/2008 ed art. 2087 cod. civ.) a M.C., operaia addetta allo
smontaggio ed al montaggio di arredi di veicoli ferroviarii, lesioni personali
gravissime, consistite in mesotelioma pleurico maligno epitetoide alla pleura
sinistra, cui seguiva la morte. Agli imputati è stato addebitato di non avere
predisposto, sin dal 1981, data di inizio dell’esposizione della lavoratrice,
misure precauzionali atte ad impedire la diffusione ambientale e l’inalazione
di fibre di amianto.

2. Avverso la sentenza propongono ricorso gli
imputati, a mezzo dei loro difensore, formulando cinque motivi comuni.

3. Con il primo, lamentano la violazione della legge
processuale penale in relazione al disposto dell’art.
512 cod. pen. e l’inosservanza dell’art. 111,
commi 4 e 5 Cost.. Ricordano che all’udienza dibattimentale del 6 novembre
2014, si richiesta del Pubblico Ministero – e con l’opposizione degli avvocati
– veniva disposta l’acquisizione del verbale di sommarie informazioni
testimoniali, rese da M.C. il 2 marzo 2010. Osservano che l’inammissibilità
dell’acquisizione del verbale di S.I.T. emergeva con chiarezza dallo snodarsi
temporale della richiesta e della decisione sull’ammissione e della fissazione
dell’udienza per l’incidente probatorio, mai celebratosi per la morte della
persona offesa. Invero, la diagnosi di mesotelioma pleurico era stata formulata
sin dall’ottobre 2009, momento nel quale si era palesata la prevedibilità
dell’esito infausto della malattia. Ciononostante, escussa a S.I.T. la persona
offesa, il pubblico ministero aveva formulato istanza di ammissione
dell’incidente probatorio solo il 31 maggio 2010. Il G.I.P., cui la richiesta
perveniva il 3 giugno 2010, provvedeva al suo esame solo il 23 agosto 2010,
fissando udienza per lo svolgimento dell’incidente probatorio al 14 ottobre
2010, cioè dopo un anno dalla formulazione della diagnosi e della prevedibilità
della prognosi, senza che l’istante sollecitasse, in alcun modo, una più rapida
definizione dell’incombente istruttorio. La previsione dell’evento morte entro
un breve lasso temporale imponeva un rapido svolgimento dell’interrogatorio di
M.C., nelle forme di cui all’art. 392 cod. proc.
pen., sicché la sua posticipazione, dovuta a noncuranza, non integra quei
fatti o quelle circostanze imprevedibili che autorizzano la lettura di atti
assunti dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero, nel corso delle
indagini preliminari. Che la certezza di un esito mortale in un periodo
limitato fosse prospettabile già nel momento in cui la persona offesa fu
sentita a S.I.T. (nei febbraio 2010) è risultato con chiarezza nel corso del
giudizio, dall’esame dello stesso consulente tecnico del pubblico ministero,
dott. W.D., il quale ha spiegato che, pure essendo le condizioni generali della
paziente, alla fine del 20091 buone, con prognosi di sopravvivenza ancora
accettabile, nondimeno, nel gennaio 2010 si era presentato un versamento
pleurico, segno distintivo di evoluzione della malattia. Opportunamente
interrogato sul punto, il consulente ha chiarito che a febbraio 2010 -data
dell’escussione a S.I.T.- la prognosi era di qualche mese. Dunque, la
fissazione dell’udienza del 14 ottobre 2010, per lo svolgimento dell’incidente
probatorio, su una richiesta presentata all’inizio di giugno 2010, si pone come
tardiva e non consente di acquisire, tramite lettura, il verbale di S.I.T. del
febbraio 2010.

4. Con il secondo motivo, i ricorrenti si dolgono
del vizio di motivazione in ordine all’affermazione della sussistenza del nesso
di causalità fra le condotte attribuite a M.M. e P.M. e l’evento morte.
Assumono che la Corte territoriale dapprima valorizza le dichiarazioni del
consulente tecnico e del perito d’ufficio, facenti riferimento alla ‘modestia
dell’esposizione’, per poi, contraddittoriamente, affermare la sussistenza di
una ‘significativa esposizione’ della lavoratrice alle fibre di amianto. Su
questa base la sentenza introduce un’equazione fra presenza di asbesto
nell’ambiente lavorativo ed insorgenza della patologia tumorale, facendo,
peraltro, riferimento ad un criterio di causalità probabilistica e non di
causalità individuale, a mezzo di una motivazione apparente, che ignora
l’elaborazione della giurisprudenza di legittimità. Richiamano il percorso
attraverso il quale la Suprema Corte, con una serie di pronunce (ricordano la
c.d. sentenza Cozzini n. 43786/2010 e la c.d. Montefibre bis n. 12175/2017) è
giunta ad affermare l’obbligo del giudice di fondare l’accertamento del nesso
causale sulla ‘legge di copertura’ riconosciuta maggiormente accreditata dalla
comunità scientifica in ordine alla cancerogenesi derivata dall’esposizione
nociva. Ricordano che la Suprema Corte è pervenuta ad escludere la validità (riprendono
Sez. 4, n. 16715/2018) della c.d. teoria dell’effetto acceleratore, in quanto
priva di generalizzata condivisione nella letteratura internazionale.
Denunciano il vizio motivazionale in ordine alla certezza della diagnosi di
asbestosi polmonare con caratteristiche di intensità tale da ricondurne la
causa all’esposizione lavorativa. Sottolineano che il consulente del pubblico
ministero, dott.ssa B., medico legale, aveva posto

una diagnosi di ‘asbestosi minima di tipo Gl’,
compatibile soltanto con patogenesi lavorativa, mentre il consulente di parte,
prof. C., aveva escluso che una esposizione professionale potesse dar luogo ad
‘asbestosi minima’. Rilevano, inoltre, la difformità delle descrizioni
anatomopatologiche, avendo la consulente del pubblico ministero, dott.ssa B.,
rilevato la presenza di placche pleuriche solo nel polmone destro, laddove il
dott. D., anch’egli consulente del pubblico ministero, ne aveva rilevate solo
nel polmone sinistro. Affermano che siffatta incertezza – corretta dalla dott.ssa
B. unicamente con relazione integrativa, con la quale indicava la presenza
bilaterale di placche – induce dubbi sulla derivazione professionale del
tumore. Ancora, osservano l’incompatibilità fra la misurazione dei corpuscoli
di asbesto effettuata dalla dott.ssa B., che ha rilevato un valore di poco
superiore a 1000/gr. di tessuto polmonare destro, e quella effettuata dal
perito, dott. B., che ne ha rinvenuti ben 26.000, per grammo. Lamentano che, a
fronte di una simile disparità, la Corte territoriale sia ricorsa ad
un’argomentazione apparente, al fine di giustificare la disomogeneità dei dati,
facendo riferimento alla diversa modalità utilizzata (microscopia elettronica,
da parte del perito B., ed esame autoptico, da parte della consulente B.). Al
contrario, la Corte avrebbe dovuto prendere atto dei risultati paradossali cui
conducono le conclusioni del perito d’ufficio, il quale riferendo di una
clearance polmonare che consente l’eliminazione di una percentuale di fibre di
asbesto pari al 6-7% annuo, ha sostenuto che in applicazione della suddetta
percentuale si sarebbe protratta sino al 2015, dimenticando che la persona
offesa è deceduta nel 2010. La motivazione, dunque, si rivela insanabilmente
contraddittoria ed illogica e deve condurre all’annullamento della sentenza
impugnata.

5. Con il terzo motivo, M.M. e P.M. fanno valere la
violazione e la falsa applicazione degli artt. 228
e 514 cod. proc. pen. in relazione alla
valutazione delle risultanze della perizia del dott. B.. Si dolgono del mancato
accoglimento della doglianza, formulata con l’atto di appello, con la quale si
contestava la violazione processuale compiuta dal perito, che aveva utilizzato,
nell’espletamento della perizia, della documentazione contenuta nel fascicolo
del pubblico ministero, ed in particolare le S.I.T. dei testi di accusa.
Denunciano la grave distorsione delle regole processuali operata dalla Corte
territoriale, che ha omesso di invalidare la perizia, nonostante fosse stata
elaborata in difetto di consensuale acquisizione al fascicolo del
dibattimento,degli atti di cui all’art. 514 cod.
proc. pen. utilizzati, in violazione dell’art.
228 cod. proc. pen.. Contestano la decisione impugnata nella parte in cui
esclude la previsione di una sanzione codificata e nella parte in cui pretende
di poter scindere, nell’ambito dell’elaborato, le conclusioni e le analisi cui
ha fatto ricorso il perito nel percorso valutativo dalle sue componenti
essenziali e dal metodo valutativo utilizzato. Affermano che, anche in assenza
di sanzione processuale specifica, la violazione dell’art. 228 cod. proc. pen. non può che riverberarsi
sull’affidabilità delle considerazioni conclusive del perito, come già
sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità (riprende Sez. 3, n. 11096/2013).
Sottolineano che il perito ha frainteso alcuni documenti, dei quali fa cenno
nell’elaborato, mai visionati direttamente (ad esempio i docc. 26, 27,28
relativi a produzioni del pubblico ministero in altro procedimento penale, nel
quale i germani M. sono stati assolti)(e che non ha esaminato i documenti
presentati, né tenuto in considerazione i testi della difesa, come da lui
stesso ammesso in sede di esame dibattimentale. Considerano complessivamente
fallace e priva di qualsiasi valore scientifico e probatorio la perizia del
dott. B., ciò ricadendo sul suo utilizzo a fini decisori.

6. Con il quarto motivo,, lamentano l’inosservanza
dell’art. 2 cod. pen., avuto riguardo
all’erronea individuazione della legge penale applicabile, nonché la falsa
applicazione degli artt. 69 e 133 cod. pen.. Rilevano che la Corte territoriale,
pur limitando il tempo di esposizione al breve lasso temporale maggio 1981 –
giugno 1983, data di approntamento del reparto di coibentazione, ha condannato
gli imputati senza tenere in considerazione che la condotta contestata è
intervenuta sotto la vigenza del precedente testo dell’art. 589, comma 2 cod. pen., allorquando la pena
prevista per il reato aggravato dalla violazione della normativa sulla
prevenzione degli infortuni era da uno a cinque anni, essendo la pena stata
elevata ad anni sette di reclusione, nel massimo solo dal d.l. 92/2008. Avendo, tuttavia, le Sezioni unite
(n. 40986/2018) chiarito che, nell’ipotesi in cui la condotta sia stata posta
in essere interamente sotto il vigore di una legge penale più favorevole a
quella in vigore al momento dell’evento, deve applicarsi la legge vigente al
momento della condotta, il giudice di appello avrebbe dovuto tenere in
considerazione, nel giudizio di bilanciamento, che l’aggravamento di pena di
cui all’art 589 comma 2 cod. pen., era più mite
(da uno a cinque anni di reclusione, anziché da due a sette anni). Ciò avrebbe
dovuto diversamente orientare la valutazione, anche tenuto conto che le ‘gravi
inadempienze’, che la Corte territoriale pone a fondamento del rigetto della
prevalenza delle attenuanti generiche sulla contestata aggravante, non sono
state accertate da parte degli enti di controllo. E che i precedenti penali –
richiamati dai giudici – sono relativi a violazioni depenalizzate o a reati per
i quali è intervenuta riabilitazione, mentre per l’unico reato di lesioni
commesso in concorso con Liliana M., oggetto di patteggiamento, è stata
applicata una pena pecuniaria, pari ad euro 570,00 di multa. La scarsa
rilevanza dei precedenti, la non gravità della colpa, la giovane età degli
imputati all’epoca ed i ruoli di tipo commerciale ed amministrativo dai
medesimi ricoperti, avrebbero dovuto favorevolmente incidere sul giudizio ex art. 69 cod. pen..

7. Con l’ultimo motivo, P.M. fa valere la violazione
della legge penale ed il vizio di motivazione in ordine al combinato disposto
degli artt. 53 I. 689/1981
e dell’art. 133 cod. pen., per non avere la
Corte territoriale disposto la sostituzione della pena detentiva in pena
pecuniaria, fondando il diniego sulla gravità del fatto, sul grado della colpa
e sulla personalità dell’imputato. Rileva che la gravità del fatto, da
intendersi come rilevante esposizione alle polveri di asbesto, è esclusa dallo
stesso consulente tecnico del Pubblico Ministero, dott.ssa B., la quale nel
proprio elaborato ha ravvisato la presenza di una lieve focale fibrosi
sottopleurica, con asbestosi minima, derivante, quindi da una limitata
esposizione. Circostanza questa confermata dal perito dott. B., che utilizzando
l’espressione ‘significativa esposizione’ ha inteso sottolinearne l’incidenza
sulla genesi della malattia e non certo la dimensione quantitativa (come
chiarisce egli stesso nel corso dell’esame). Parimenti non può affermarsi la
sussistenza di una colpa connotata da gravità, laddove si presti attenzione
all’evolversi della conoscenza specifica della pericolosità delle lavorazioni
in capo agli imputati. Solo nel 1983, infatti, e non nel 1979 come ritenuto
dalla sentenza, le Ferrovie dello Stato inviano una circolare specifica che
interessa direttamente l’impresa M. s.p.a., a seguito della stipulazione del
contratto V21, in data 11 luglio 1983, allorquando l’azienda riceve le prime
commesse per la decoibentazione di carrozze con amianto. In precedenza, invero,
le circolari dell’ente ferroviario erano di contenuto generico, non indirizzate
espressamente alla M. s.p.a., che non si occupava di decoibentazione. Prima
degli anni ’80, inoltre, la letteratura riteneva che l’amianto fosse pericoloso
solo se le sue polveri fossero state respirate in grandi quantità. Tanto che il
limite di esposizione sino al 1975 era pari a 0,2 fibre per centimetro cubico,
ridotto successivamente a 0,1 con il d.lgs.
257/2006. I limiti legali erano rispettati presso la M. s.p.a., che, come
peraltro documentalmente dimostrato in giudizio, dal 9 dicembre 1982 aveva
provveduto a fornire ai lavoratori ‘maschere a doppio filtro’. Assume che la
sentenza impugnata, non considerando siffatti dati, afferma che ancora nel
1983, dopo la circolare F.S. del 1° aprile, le mascherine a doppio filtro non
fossero utilizzate, come quelle ‘normali’, fossero utilizzate dagli operai a
loro discrezione. Ricorda che prima del d.l.
277/1991 non erano previsti monitoraggi ambientali, e che l’avere monitorato
l’aereoaspersione di fibre, in epoca in cui ciò non era richiesto, appare
elemento contrastante con l’affermazione di un alto grado di colpa. Osserva che
anche la brevità del periodo di esposizione (solo due anni), prima
dell’istituzione del reparto di decoibentazione, con l’adozione di tutte le
misure di sicurezza possibili, deve essere valutato positivamente ai fini della
ponderazione della gravità dell’elemento soggettivo. Infine, con riferimento al
parametro della ‘personalità dell’imputato’ rileva che dei due precedenti per
lesioni personali colpose, commessi con violazione della disciplina sulla
sicurezza del lavoro, al primo già oggetto di sentenza ex art. 444 cod. proc. pen., è seguita la
riabilitazione, mentre il secondo (fatto risalente al 2007) è relativo ad
infortunio, dovuto alla perdita di equilibrio di un lavoratore impiegato in
operazioni di stallaggio. Si tratta, invero, di fatti risalenti nel tempo
(rispettivamente 1989 e 2007), di modesta importanza, sanzionati unicamente con
la pena pecuniaria, considerati dalla Corte con una valutazione meramente
formale, senza approfondire la loro effettiva rilevanza. Dunque, la motivazione
della Corte territoriale in relazione alla meritevolezza della conversione della
sanzione detentiva in pena pecuniaria, è gravemente viziata.

8. Entrambi gli imputati concludono per
l’annullamento della sentenza impugnata.

9. Con atto depositato in cancelleria in data 7
gennaio 2020, le parti civili costituite hanno revocato la loro costituzione,
motivando la revoca con l’intervenuto integrale risarcimento del danno.

 

Considerato in diritto

 

1. I ricorsi debbono essere entrambi respinti.

2. I motivi di impugnazione vanno affrontati nel
loro ordine logico, partendo dalle questioni processuali.

3. Con la prima doglianza, si lamenta la violazione
del disposto dell’art. 512 cod. proc. pen.,
sostenendo che le dichiarazioni rese a S.I.T. dalla persona offesa non
avrebbero potuto trovare ingresso in dibattimento, posto che, sin dal momento
in cui furono rese, era prevedibile che la malattia sarebbe evoluta in modo
rapido e che la prova non avrebbe potuto essere ripetuta. Sicché l’omessa
celebrazione dell’incidente probatorio -la cui ammissione era stata richiesta
dal pubblico ministero, ma per la rapida fissazione del quale l’istante non
aveva insistito- determinata dal previo decesso di M.C., non autorizza la
lettura delle dichiarazioni assunte in fase di indagine, né di conseguenza il
loro utilizzo ai fini della decisione.

4. La questione posta è certamente rilevante, anche
dal punto di vista generale.

5. Deve premettersi che il ricorso alla lettura
degli atti per sopravvenuta impossibilità di ripetizione deve essere guidato da
un criterio molto rigoroso, in

quanto rappresenta un’importante eccezione al
principio di oralità del dibattimento.

5.1. L’elaborazione giurisprudenziale sull’art. 512 cod. proc. pen., si è mossa su varii
piani, affrontando, fra gli altri casi, anche quello del decesso del
dichiarante e della sua prevedibilità.

5.2. In particolare, è stato preso in esame il tema
della lettura dibattimentale delle dichiarazioni di persone in età anagrafica
avanzata, ritenendo che essa non renda “prevedibile l’impossibilità di
ripetizione delle dichiarazioni rese in precedenza quale presupposto della loro
utilizzazione in giudizio, salvo che al momento dell’escussione fosse
seriamente pronosticabile, in base a specifiche informazioni relative a
patologie ingravescenti, che la durata della vita del dichiarante non sarebbe
giunta fino alla celebrazione del dibattimento, dovendosi in tal caso negare
accesso alla lettura dì cui all’art. 512 cod. proc.
pen.” (Sez. 4, n. 24688 del 03/03/2016, P.G. in proc. Arpe, Rv.
267228; in precedenza sull’irrilevanza dell’età di per sé: Sez. 6, n. 11905 del
13/12/201, dep. 12/03/2014, R.C. e E.B, Rv. 261827; Sez. 3, n. 44051 del
10/11/2011, Pijola Lombardo e altri, Rv. 251615).

6. Per autorizzare la lettura, infatti, deve
palesarsi che al momento dell’escussione, in sede di indagini preliminari, a
mezzo di S.I.T., non fosse formulabile la previsione che la durata della vita
del dichiarante sarebbe stata incompatibile con i tempi ordinarii di
celebrazione del dibattimento. In caso contrario, infatti, cioè allorquando vi
siano elementi noti che preannunciano esiti infausti, è il pubblico ministero o
l’indagato che vi abbia interesse che deve formulare istanza di ammissione di
incidente probatorio e che deve curare, laddove necessario, la richiesta di
abbreviazione dei termini, affinché il G.I.P. ex art.
400 cod. proc. pen., attivi una procedura per i casi di urgenza.

6.1. La mancanza di questi adempimenti, a fronte di
un evento pronosticabile in forza di dati conosciuti all’istante, non consente
di introdurre eccezioni al principio dell’oralità processuale, assicurando il
vantaggio di una parte, che ha partecipato alla formazione della prova,
sull’altra che ne subisce l’introduzione, senza aver potuto interloquire al
momento della sua assunzione.

6.2. In questi termini, si è già espressa questa
Corte con una pronuncia molto risalente, relativa ad un’ipotesi di lesioni
personali dolose, la cui gravità rendeva prevedibile l’esito mortale. In
quell’occasione si è precisato che le dichiarazioni potenzialmente utili ai
fini della decisione rese dalla persona offesa alla polizia giudiziaria e al
P.M. non possono essere acquisite “qualora sulla base di un motivato
giudizio “ex post”, funzionalmente demandato al giudice di merito,
risulti che era prevedibile l’esito letale delle lesioni subite e si riscontri
che la procedura di incidente probatorio, appositamente apprestata dal
legislatore anche per eventualità del genere anzidetto, sia stata promossa a
suo tempo con ingiustificato ritardo tanto da non avere poi potuto trovare
attuazione, proprio per il sopravvenuto decesso della parte lesa”, per
difetto del requisito dell’imprevedibilità” (Sez. 1, n. 5168 del
23/01/1995, Comberiati e altro, Rv. 201423; La fattispecie esaminata – in
quella occasione- era relativa all’uccisione di una guardia giurata e al
ferimento di un’altra, la quale, trasportata in ospedale ed interrogata dalla
polizia giudiziaria, aveva fornito notizie utili in ordine agli autori del
fatto, fornendo una descrizione sommaria di alcuni di essi che successivamente
riconosceva nelle fotografie e confermando nella stessa giornata innanzi al
P.M. la compiuta ricognizione, senza che fosse in grado, per le sue condizioni,
di sottoscrivere i verbali. In seguito era stata presentata dal P.M. richiesta
di incidente probatorio che non poteva avere luogo per morte del soggetto.
Procedutosi contro le persone riconosciute, queste erano assolte dalla Corte di
Assise sul rilievo che gli atti contenenti le dichiarazioni rese e le
individuazioni compiute non erano utilizzabili ai fini probatori, non potendosi
qualificare come irripetibili e non trovando applicazione il disposto dell’art. 512 cod. proc. pen. per difetto
dell’imprevedibilità della sopravvenuta causa di impossibilità della
ripetizione, sicché l’unica via percorribile sarebbe stata quella
dell’incidente probatorio, nelle forme previste dall’art.
400 cod. proc. pen. che avrebbe consentito l’esecuzione di una rituale
ricognizione di persona. A seguito di impugnazione del P.M., la Corte di Assise
di Appello condannava gli imputati in quanto, per l’improvviso aggravarsi dello
stato di salute della persona offesa dopo la presentazione della richiesta di
incidente probatorio, l’impossibilità di ripetere gli atti era stata
imprevedibile, con la conseguente possibilità di acquisire i relativi verbali
al fascicolo del dibattimento. La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza
di secondo grado).

7. Ebbene, ribadito detto principio e preso atto che
il contraddittorio effettivo ed orale non può essere rimesso alla diligenza del
pubblico ministero -o del giudice delle indagini preliminari nella fissazione
dell’udienza – avendo questi a disposizione uno strumento per l’anticipazione
della prova, e per la sollecita fissazione dell’incombente in casi di urgenza,
deve, nondimeno, modularsi l’onere sull’effettività della conoscenza dei dati
sulla base dei quali formulare il pronostico di incompatibilità fra le
condizioni di salute e la celebrazione del dibattimento.

8. La Corte territoriale, affrontando il motivo di
appello con cui si contestava la lettura ex art.
512 cod. proc. pen. delle dichiarazioni di M.C., ha sostanzialmente escluso
che nel momento dell’assunzione della persona offesa a S.I.T., l’esito infausto
della malattia, in tempi brevi, fosse certo. E questo, facendo riferimento alle
dichiarazioni del consulente del Pubblico Ministero, dott. D., che ha chiarito
come fra la diagnosi del mesotelioma ed il decesso possano trascorrere un paio
d’anni o solo qualche mese, a seconda dei casi e dei malati e che M.C., nel
febbraio 2010, si trovava in una situazione di discreta salute, con
respirazione regolare ed in assenza di recidiva del versamento pleurico,
verificatosi il mese precedente. Da queste circostanze desume -condividendo la
decisione del primo giudice – che, avuto riguardo al criterio della prognosi
postuma dell’id plerumque accidit, mancassero le condizioni di rigetto
dell’istanza di acquisizione del verbale, non essendo prevedibile una così
rapida evoluzione del quadro clinico.

8.1 Si tratta di un’impostazione che non può
condividersi, in ragione delle precisazione introdotte in precedenza e tenuto
conto del fatto che la natura delle lesioni oggetto della contestazione era
proprio una patologia ingravescente, il cui andamento presenta, come chiarito
anche dalla Corte, elementi di soggettività ampiamente variabili, con sviluppo
certamente infausto in un tempo ‘incerto’, che, per una pluralità di fattori,
può essere più o meno breve.

8.2. In una simile situazione, l’incertezza della
sopravvivenza, per un periodo di tempo sufficiente alla celebrazione del
giudizio, non può riverberare sull’indagato e sull’integrità del diritto alla
difesa, rimettendo alla diligenza del pubblico ministero, che abbia interesse
alla prova, la coltivazione dell’iniziativa, anche nelle forme della richiesta
di abbreviazione dei termini ex art. 400 cod. proc.
pen., laddove si palesi una situazione di urgenza.

9. Deve, dunque, affermarsi che nell’ipotesi in cui
la persona offesa – o qualsiasi altro teste – si trovi in condizione di salute
gravemente precaria, in quanto afflitta da malattia la cui evoluzione infausta
‘può’ – secondo la letteratura medica – presentarsi anche a breve, compete al
soggetto che ha interesse alla prova e che sia legittimato ai sensi dell’art. 392 cod. proc. pen., coltivare tempestivamente
la richiesta di incidente probatorio, anche sollecitando il G.I.P. ex art. 400 cod. proc. pen., pena l’inammissibilità
dell’acquisizione dei verbali di S.I. T. Di questi, tuttavia, potrà essere data
lettura, se l’incidente probatorio, così richiesto e sollecitato, non possa
celebrarsi per intervento del decesso del soggetto coinvolto, per essere
l’infausta evoluzione dello stato di salute tanto rapida da non consentire
neppure la sopravvivenza sino all’espletamento della prova ex art. 392 cod. proc. pen..

10. Benché il primo giudice ed il collegio di
appello non abbiano seguito siffatto percorso interpretativo, il motivo deve
essere comunque rigettato. Nonostante il grave ritardo con cui l’udienza per
l’incidente probatorio è stata fissata, infatti, e nonostante la non
condivisibile soluzione adottata dai giudici di merito, vi è che sia la
sentenza di primo grado, che quella di seconda cura, ricostruiscono i fatti, ed
in particolare le condizioni dell’ambiente di lavoro in cui operava M.C., e le
lavorazioni svolte dalla medesima, non solo sulle sue dichiarazioni, ma a mezzo
della narrazione dei testi escussi in giudizio. La Corte territoriale, anzi, si
sofferma su quanto affermato da ciascuno dei colleghi di lavoro, indicando, per
ciascuno, il periodo di tempo nel quale il medesimo operò con la persona
offesa, il tipo di attività svolta, il tipo di descrizione del reparto fornita,
le modalità di lavoro descritte.

In questo modo, ricostruisce dall’insieme delle
deposizioni C., C., C., D., S.: che nel reparto ove operava M.C., gli operai
venivano a contatto con l’asbesto sin dal 1980 (la vittima vi lavorò dal 1981),
perché ivi si svolgevano lavori di smontaggio di arredi di carrozze, nel corso dei
quali si liberavano polveri di amianto (blu e bianche), a causa dell’uso del
trapano e dello svitatore; che in reparto non vi era un impianto di
aspirazione; che le mascherine di carta fornite venivano utilizzate dai
lavoratori, solo a propria discrezione; che non vi era insistenza di vigilanza
e controllo da parte dei caposquadra.

La Corte, fra l’altro, riesamina tutte le
dichiarazioni testimoniali, approfondendo le ragioni per le quali i testi
introdotti dalla difesa non hanno fornito valido contribuito ricostruttivo,
relativamente alla situazione di esposizione della lavoratrice interessata,
così come si sofferma sulla mancanza di una vera e propria separazione fra i
reparti di smontaggio e quelli di rimontaggio, sino al 1984, sottolineando che,
anche allorquando le due zone furono separate con la costituzione ed entrata in
funzione di un reparto di decoibentazione (collocato dall’azienda nel 1983), la
separazione fra gli ambienti era assicurata solo da ampie porte in plastica.

La ricostruzione della Corte territoriale (che non
si limita a richiamare quella del primo giudice), dunque, se muove dalle
dichiarazioni rese in sede di S.I.T. dalla persona offesa, poi si muove su
binari autonomi, ricavando dalle testimonianze raccolte in giudizio ciascuna
delle circostanze di fatto che pone a fondamento della decisione.

11. Dunque, nonostante l’erroneità della premessa di
partenza, essendo l’accertamento stato raggiunto in modo indipendente
dall’utilizzazione della lettura delle dichiarazioni di M.C., il motivo non può
trovare accoglimento, in assenza di un’effettiva incidenza di detta lettura ex art. 512 cod. proc. pen., sulla decisione.

12. Occorre, a questo punto affrontare l’ulteriore
tema processuale, introdotto con il terzo motivo formulato dai ricorrenti. Si
tratta dell’asserita violazione del disposto dell’art.
228 cod. proc. pen., con riferimento all’utilizzo, ai fini
dell’espletamento dell’incarico, di atti non contenuti nel fascicolo del dibattimento
e tratti dal fascicolo del pubblico ministero. Si addebita alla Corte
territoriale di avere rigettato il relativo motivo di appello, non provvedendo
così ad invalidare la perizia, posto che, seppure non sia prevista una sanzione
specifica dal codice di rito, nondimeno il difetto di consenso all’acquisizione
di atti si riverbera sulla tenuta dell’elaborato.

13.  Ora, la
Corte, vagliando il ragionamento del primo giudice ne ha condiviso
l’impostazione, ed ha escluso ogni rilevanza degli atti del fascicolo del
pubblico ministero consultati dal perito d’ufficio, trattandosi di
dichiarazioni rese dai testi in S.I.T., sull’attività svolta da M.C. e
sull’ambiente di lavoro, ripetute dai medesimi in dibattimento. Sicché il
giudice, ricostruite le mansioni della lavoratrice, si è limitato a fare
riferimento a quella parte della perizia relativa alla diagnosi ed
all’eziologia del carcinoma, limitandosi dunque allo specifico contributo
scientifico fornito dal perito.

13.1. Rispetto a questa argomentazione, del tutto
soddisfacente, in quanto dimostrativa dell’influenza della consultazione da
parte del dott. B. del fascicolo del pubblico ministero, il motivo qui proposto
mostra il segno dell’assoluta genericità, non approfondendo in che modo un
accertamento così descritto sarebbe, invece, frutto dell’influenza di prove
introdotte dal perito e non formatesi in dibattimento. D’altro canto, come si è
detto, tutto la ricostruzione condivisa dai giudici di merito trova riscontro
nelle testimonianze e nei documenti richiamati, reggendo alla prova di
resistenza dell’esclusione delle S.I. T. raccolte da M.C..

13.2. Né possono i ricorrenti rivendicare, a motivo
di invalidazione dei risultati della perizia, la mancata considerazione/da
parte del dott. B., delle sentenze di assoluzione e degli altri documenti
prodotti in giudizio, posto che i giudici di merito si fanno direttamente
carico del loro commento e della loro valutazione, motivatamente escludendo la
loro rilevanza in ordine all’affermazione di responsabilità degli imputati.

14. Con il secondo motivo, i ricorrenti introducono
una serie di sollecitazioni, in parte sovrapposte, afferenti ad una serie di
questioni (non tutte, per la verità, relative alla sussistenza del rapporto di
causalità fra condotta ed evento, come enunciato in ricorso).

15.  La prima,
in ordine logico, riguarda l’accertamento circa la natura professionale della
patologia riscontrata sulla persona offesa. Si dubita, infatti, che
l’esposizione a basse dosi di polveri -elemento che risulterebbe dall’esame
autoptico- giustifichi l’insorgenza di un mesotelioma di origine lavorativa. Si
rileva che le difformità fra le descrizione dei riscontri anatomopatologici, da
parte dei due consulenti del Pubblico Ministero, la dott.ssa B., che ha
rilevato placche solo nel polmone destro, ed il dott. D., che le ha osservate
solo nel polmone sinistro, rendono incerta la diagnosi sulla natura
professionale. A ciò si aggiunge che l’incompatibilità fra le misurazioni dei
corpuscoli da parte del consulente del pubblico ministero e del perito (appena
1000/gr tessuto polmonare secondo la dott.ssa B. e ben 26.000/gr. secondo il
dott. B.), non è superabile con la semplice constatazione di una diversa
metodologia di rilevamento. Invero, un’asbestosi ‘minima di tipo Gl’, come quella
descritta dal consulente del pubblico ministero, è incompatibile con l’origine
professionale del carcinoma, secondo quanto bene evidenziato dal consulente di
pari, dott. C..

16. Le deduzioni, appena richiamate, introdotte dai
ricorrenti sono frutto di una cattiva lettura del provvedimento impugnato.

La Corte territoriale, infatti, non si sottrae
affatto alla pluralità dei rilievi introdotti con il gravame sulle ritenute
incongruenze fra i pareri degli esperti, ma ricompone gli elementi forniti
dalle relazioni, dall’esame in giudizio, sottolineando che la bilateralità
delle lesioni polmonari è stata riferita anche dalla dott.ssa B., in sede di
riesame del materiale, e che(- a fronte di queste, il consulente della difesa,
si è limitato a prenderne atto. Inoltre, ha dato atto della concordanza delle
posizioni degli esperti (perito e consulenti) sul fatto che i mesoteliomi sono
stati descritti anche in lavoratori esposti a bassissime dosi di polveri,
insorgendo per dosi cumulative, anche modeste. Ancora, ha ricomposto la
discordanza sul numero dei corpuscoli ed il numero di fibre, rilevati dalla
dott.ssa B. e dal perito dott. B., precisando che il secondo dato (26.000
corpuscoli per grammo di tessuto polmonare secco), acquisito in contraddittorio
fra le parti, è frutto dell’utilizzo di un microscopio ottico in uso all’ARPA,
ottimizzato per l’analisi delle fibre aerodisperse, avente caratteristiche che
consentono di identificare anche i corpuscoli più piccoli, rilevando anche
l’incidenza della diversa preparazione del tessuto per l’analisi, a mezzo di
una ‘digestione del tessuto’, che consente di ricavare un campione estremamente
‘pulito’, con conseguente maggior visibilità dei corpuscoli. A ciò, la Corte
territoriale, estremamente completa nel riportare la ricostruzione tecnica del
perito, aggiunge che il rilievo del carico polmonare di fibre di amianto sul
tessuto indenne da patologia, ha consentito di verificare, in contradditorio
fra gli esperti, la presenza di 2.500.000 di fibre nel polmone destro, con percentuale
di amianto crisolito pari al 23% e di amianto anfibolico pari al 77%. E’
proprio rispetto a questo dato, secondo la Corte, che il perito spiega il
fenomeno della clearance, con tasso dì eliminazione del 6-7% annuo, chiarendo
che la “correlazione fra corpuscoli e fibre è buona se queste analisi
vengono fatte in tempi non troppo lontani dalla cessazione dell’esposizione,
diventando una correlazione debole se passano 25-30 anni”. Si tratta di
una precisazione che viene mal interpretata dai ricorrenti, in quanto meramente
esplicativa del fenomeno di eliminazione delle fibre dal polmone, che dà conto
del rapporto fra il loro rilievo ed il tempo trascorso dall’esposizione,
rendendo semplicemente più comprensibile il dato offerto. Mal si comprende
perché un simile commento tecnico renderebbe illogico il passaggio
motivazionale che lo riporta.

17. La sentenza impugnata, dunque, accerta che la
malattia è un mesotelioma pleurico e che la sua eziopatogenesi va ascritta
all’inalazione di polveri di asbesto. E lo fa, non solo perché la diagnosi è
stata istologicamente accertata -non essendo detto dato contestato neppure
dalla consulenza della difesa- ma perché le discordanze fra i consulenti del
Pubblico Ministero ed il perito d’ufficio si sono dimostrate apparenti e sono
state ricondotte ad unità dai chiarimenti resi dagli esperti, superando le
critiche mosse al loro operato dal consulente della difesa, a loro volta
esaminate dalla Corte. Così, la Corte spiega, per esempio, che le placche erano
bilaterali, e che anche la dott.ssa B., lo ha riconosciuto, che l’asbestosi
‘minima Gl’, riscontrata da quest’ultima, è compatibile con l’esposizione
‘moderata’, secondo quanto descritto dal perito d’ufficio, dott. B., e che,
tuttavia, siffatto tipo di esposizione, riscontrabile dal numero dei
corpuscoli, è ‘significativa’ di un’esposizione professionale, confermata da un
periodo di latenza, nel range per l’insorgenza di siffatto tipo di tumore
(secondo la stessa consulenza della difesa), essendo escluse, per M.C.,
ulteriori cause come il ‘fumo di sigaretta’ (la Corte riporta altresì
l’assenza, nel caso di specie, di elementi morfologici distintivi del carcinoma
ascrivibile al fumo).

18. Fatte queste precisazioni, ed esclusa
l’illogicità e contraddittorietà della motivazione come lamentata, va trattata
la seconda critica introdotta dai ricorrenti, relativa alla pretesa equazione
introdotta dalla sentenza impugnata fra presenza di asbesto nell’ambiente
lavorativo e l’insorgenza della patologia tumorale, che si assume ricondotta dalla
sentenza ad un criterio di causalità probabilistico e non di causalità
individuale, secondo il percorso indicato dalla giurisprudenza di legittimità.
Si ricorda, infatti, che la Suprema Corte ha precisato la necessità di
ricorrere ad una legge di copertura accreditata nella comunità scientifica,
escludendo, peraltro, che questa possa essere rinvenuta nella c.d. teoria
dell’effetto acceleratore, non condivisa, in modo generalizzato, nella
letteratura internazionale di settore.

Non vi è dubbio che le premesse che i ricorrenti
sottendono alla doglianza siano frutto dell’elaborazione di questa Sezione in
tema di causalità tra esposizione all’amianto e decesso del lavoratore,
nondimeno, esse rivelano, anche in questo caso, una lettura incompleta della
motivazione.

La sentenza, infatti, seppure faccia riferimento, in
un breve passo, alla teoria dell’effetto acceleratore, riportando il contenuto
della sentenza di primo grado senza discostarsene espressamente, tuttavia fonda
diversamente la decisione. E, prendendo atto dell’esposizione -che ritiene
comunque provata anche testimonialmente, in armonia con l’insegnamento di
questa Corte secondo cui “In tema di patologie asbesto-correlate,
l’esistenza e l’entità dell’esposizione ad amianto può essere dimostrata anche
attraverso la prova testimoniale, in quanto il vigente sistema processuale
penale non conosce ipotesi di prova legale e, anche nei settori in cui
sussistono indicazioni normative di specifiche metodiche per il rilievo di
valori soglia, il relativo accertamento può essere dato con qualsiasi mezzo di
prova” (Sez. 4, n. 16715 del 14/11/2017 – dep. 16/04/2018, P.G. in proc.
Cirocco e altri, Rv. 273096)- osserva che la lavoratrice ha prestato attività
presso l’impresa M. per tutta la sua vita professionale.

D’altro canto, la decisione impugnata dà conto
dell’ubiquitarietà delle polveri nei reparti produttivi dell’impresa, ed in
particolare nel reparto di appartenenza della persona offesa (come sottolineato
dai testi escussi C., C. e C., rispetto alla capacità dei quali, in relazione
al riconoscimento della polvere di amianto, la Corte territoriale prende
specificamente posizione), sin dall’inizio del suo rapporto lavorativo e
certamente sino al 1984, essendo emerso, anche dalle produzioni degli imputati,
che sino a quella data non erano stati predisposti gli impianti di aspirazione.

Proprio su queste basi la motivazione introduce
un’equazione fra presenza di asbesto ed insorgere del mesotelioma, essendo
state escluse dagli esperti cause diverse, di origine non professionale, ed
essendo stata accertata l’unicità del rapporto lavorativo e la prestazione
dell’attività, per tutta la sua durata, nello stesso stabilimento della
società, della quale, per l’intero periodo, furono legali rappresentanti i due
imputati.

Non può sostenersi, pertanto, che non si faccia
riferimento ad una legge di copertura condivisa dalla dottrina medica, né che
non si faccia ricorso ad un criterio di causalità individuale. Il nesso causale
fra l’accertata presenza di asbesto nel reparto di lavoro di M.C. e la malattia
da questa contratta, tipicamente professionale, viene, infatti, individuato, in
modo diretto, stante l’unicità del rapporto di lavoro alle dipendenze
dell’impresa -sempre legalmente rappresentata dagli imputati, nelle varie forme
societarie assunte, nel corso del tempo- non facendo riferimento alla c.d.
teoria dell’effetto acceleratore, ma sulla base dell’assenza di qualsivoglia
elemento causale alternativo di innesco della patologia. E cioè, proprio
attraverso una legge scientifica di copertura universalmente condivisa, ed a
mezzo di un giudizio formulato sulla causalità individuale, in quanto
verificato in relazione alla singola vicenda (cfr. Sez. 4, n. 12175 del
03/11/2016 – dep. 14/03/2017, P.C. in proc. Bordogna e altri, Rv. 270385).

Secondo la più recente giurisprudenza di questa
Corte “In tema di rapporto di causalità tra esposizione ad amianto e morte
del lavoratore per mesotelioma, ove con motivazione immune da censure la
sentenza impugnata ritenga impossibile l’individuazione del momento di innesco
irreversibile della malattia, nonché causalmente irrilevante ogni esposizione
successiva a tale momento, ai fini del riconoscimento della responsabilità
dell’imputato è necessaria l’integrale o quasi integrale sovrapposizione temporale
tra la durata dell’attività lavorativa della singola vittima e la durata della
posizione di garanzia rivestita dall’imputato nei confronti della stessa”
(Sez. 4, n. 25532 del 16/01/2019, PG in proc. Abbona Mario, Rv. 276339).

Si tratta di condizioni che si sono entrambe
realizzate nel caso di specie., come chiarito dal giudice di seconda cura,
sicché fuorviante appare anche il rimprovero incentrato sulla critica del
riferimento alla teoria dell’effetto acceleratore, il cui richiamo, pur operato
dai giudici di merito, si rivela, in concreto, ininfluente sulla decisione.

18. Occorre, a questo punto, esaminare il quarto
motivo di ricorso, inerente al giudizio di bilanciamento fra le circostanze, ex
art. 69 cod. pen., avendo la sentenza ritenuto
di confermare il giudizio di equivalenza fra le concesse attenuanti generiche e
la circostanza aggravante di cui all’art. 589,
comma 2, cod. pen.. I ricorrenti sostengono che la Corte abbia erroneamente
rigettato il motivo di gravame senza tenere conto della diversa disciplina
sanzionatoria prevista dalla disposizione al momento di realizzazione della
condotta (1981-1996) ed al momento dell’insorgenza della malattia (2009) e del
prodursi dell’evento morte (2010). Osservano che sino all’entrata in vigore del
d.l. 92/2008, con cui è stato modificato il
secondo comma dell’art. 589 cod. pen., portando
la pena massima prevista per il reato aggravato ad anni sette di reclusione, la
pena massima prevista per l’ipotesi di omicidio colposo aggravato dalla
violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro, era pari ad anni cinque.
Sicché, avendo le Sezioni Unite, con la sentenza n. 40986 del 19/07/2018,
chiarito che la disciplina applicabile, in caso di successione di leggi penali,
nel caso in cui l’evento del reato intervenga nella vigenza di una legge penale
più sfavorevole rispetto a quella in vigore al momento in cui è stata posta in
essere la condotta, è quella vigente al momento della condotta, la Corte
territoriale avrebbe dovuto tenere in considerazione il testo di cui all’art. 589, secondo comma cod. pen., antecedente
l’entrata in vigore del d.l. 92/2008, meno
gravemente sanzionata. Di qui, la necessità di affrontare il giudizio di
bilanciamento ‘pesando’ la circostanza aggravante contestata, in concordanza
con il minor disvalore attribuito dal legislatore dell’epoca nella quale la
condotta si è realizzata.

19. Il motivo, pur suggestivo, non può trovare
accoglimento, in quanto viene formulato in modo del tutto avulso dalla
motivazione adottata dalla Corte di appello e, prima ancora, dal giudice di
primo grado. Nessuna parte delle argomentazioni espresse dai giudici di merito,
infatti, autorizza a pensare che il giudizio di bilanciamento delle circostanze
sia intervenuto avendo riguardo al testo del secondo comma dell’art. 589 cod. pen,, come modificato dall’art. 1, comma lett. c), n. 1) del
d.l. 23 maggio 2008 n. 92, convertito con mod. nella I. 125/2008, vigente
all’epoca dell’evento e non a quello previgente la modifica del limite
inferiore dell’aggravamento, ad opera della I. 21 febbraio 2006, n. 102
(portandolo da uno a due anni di reclusione) che prevedeva un aumento di pena
per l’ipotesi configurata dalla disposizione, da uno a cinque anni di
reclusione, in luogo dell’attuale aumento da due a sette anni di reclusione.

20. Peraltro, sia la Corte d’appello che il giudice
di primo grado, si soffermano sulle ragioni per le quali il comportamento
tenuto dai ricorrenti, pur positivamente valutabile, al fine di riconoscere la
diminuente di cui all’art. 62 bis cod. pen. –
avendo gli imputati cominciato ad adottare iniziative a tutela della salute,
dal momento dell’istituzione del reparto di decoibentazione – ciononostante,
non può essere considerato prevalente sulla contestata aggravante, gravi
inadempienze riscontrate nel periodo precedente, durante il quale la persona
offesa fu esposta alle polveri di amianto.

L’equivalenza, dunque, viene motivata con
riferimento alla gravità delle omissioni, di cui entrambe le sentenze di merito
danno ampiamente conto, il che impedisce, secondo la Corte, di dare maggior
‘peso’ all’adempimento tardivo – coincidente con l’istituzione del reparto
decoibentazione- alle disposizioni preventive di tutela della salute dei
lavoratori.

E ciò, dunque, soffermandosi proprio sulla
comparazione fra la condotta integrante l’aggravante, descritta al secondo
comma dell’art. 589 cod. pen., e quella
giustificativa della mitigazione del trattamento sanzionatorio, costituita dalla
successiva predisposizione di misure cautelative, la cui rilevanza non viene
ritenuta tale da prevalere sul precedente inadempimento. Tanto va ritenuto
-spiega il Collegio del merito- anche perché, sia nel corso della vita
anteatta, che in quello della vita successiva alla condotta tenuta, gli
imputati hanno dimostrato poca attenzione alla tutela della salute dei
lavoratori, riportando condanne per violazioni del T.U. sulla prevenzione,
ancorché i reati commessi siano stati in parte depenalizzati.

Ebbene, rispetto a quest’ultima osservazione i
ricorsi si dilungano al fine di dimostrare la ‘tenuità dei precedenti’ e quindi
la loro ¡rilevanza, senza, tuttavia, avvedersi che la sentenza impugnata non
fonda la decisione sulle condanne intervenute (di cui una per infortunio sul
lavoro), ma sulla considerazione di una continuità di comportamenti di
violazione della normativa precauzionale, ancorché di poco conto, dimostrativa
della poca cura nella prevenzione sui luoghi di lavoro.

Si tratta di una motivazione che non viene scalfita
dalla critica mossa -del tutto avulsa dal testo dei provvedimento – e che fa
buon uso della discrezionalità riconosciuta al giudice dall’ordinamento, in
ordine alla valutazione di tutti i componenti della pena (ex art. 132 cod. pen.), posto che-state espresse in
modo chiaro e del tutto esaustivo le ragioni per le quali la Corte territoriale
ha ritenuto di rigettare il motivo di appello.

21. L’ultimo motivo formulato da P.M. (avendo M.M.
rinunciato alla censura in sede dì appello) deve essere dichiarato
inammissibile.

22. E’ sufficiente ricordare che “la
sostituzione delle pene detentive brevi è rimessa ad una valutazione
discrezionale del giudice, che deve essere condotta con l’osservanza dei
criteri di cui all’art. 133 cod. pen.,
prendendo in esame, tra l’altro, le modalità del fatto per il quale è
intervenuta condanna e la personalità del condannato” (Sez. 3, n. 19326
del 27/01/2015, Pritoni, Rv. 263558; inoltre, cfr. Sez. 2, n. 5989 del
22/11/2007 – dep. 06/02/2008, Frediani, Rv. 239494; Sez. 5, n. 528 del
23/11/2006 – dep. 12/01/2007, Ferrara, Rv. 235695).

In questo caso, invero, il ricorrente, censurando la
decisione, riprende in gran parte gli argomenti già sviluppati con le altre
doglianze per affermare la sussistenza dei parametri giustificanti la
concessione della sostituzione della pena detentiva invocata. La Corte,
tuttavia, avendo dato in precedenza ampia risposta, del tutto correttamente,
trae le conclusioni dalle premesse sviluppate nel corpo della motivazione,
ritenendo la pena pecuniaria inadeguata alla gravità del fatto ed al grado
della colpa. Il richiamo per relationem delle argomentazioni già svolte nel
corpo della sentenza esonera il giudice da ogni ripetizione laddove proprio
sulle considerazioni già svolte intenda giustificare l’uso della
discrezionalità che gli è riconosciuta dall’ordinamento.

23. I ricorsi debbono essere, dunque, entrambi
rigettati, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

 

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al
pagamento delle spese processuali.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 15 aprile 2020, n. 12151
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