Giurisprudenza – CORTE DI GIUSTIZIA CE-UE – Sentenza 23 aprile 2020, n. C-507/18

Parità di trattamento in materia di occupazione e di
condizioni di lavoro, Direttiva
2000/78/CE, Art. 3, par. 1, lett. a), art. 8, par. 1, e art. 9, par.
2, Divieto di discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale,
Condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, Nozione, Dichiarazioni
pubbliche che escludono l’assunzione di persone omosessuali, Art. 11, par. 1, art. 15, par. 1, e art. 21, par. 1, della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, Difesa dei diritti, Sanzioni, Persona
giuridica rappresentativa di un interesse collettivo, Legittimazione ad agire
in giudizio, senza agire in nome di una determinata persona lesa oppure in
assenza di una persona lesa, Diritto ad ottenere il risarcimento del danno

 

1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte
sull’interpretazione degli articoli
2, 3 e 9 della direttiva
2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro
generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni
di lavoro (GU 2000, L 303, pag. 16).

2. Tale domanda è stata presentata nell’ambito di
una controversia che oppone NH all’Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI –
Rete Lenford (in prosieguo: l’«Associazione») in merito alle dichiarazioni rese
da NH, nel corso di una trasmissione radiofonica, secondo le quali egli non
intenderebbe avvalersi, nel suo studio di avvocati, della collaborazione di
persone omosessuali.

 

Contesto normativo

 

Diritto dell’Unione

 

Carta dei diritti fondamentali

 

3. Sotto il titolo «Libertà di espressione e
d’informazione», l’articolo 11
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la
«Carta») dispone, al paragrafo 1, quanto segue:

«Ogni persona ha diritto alla libertà di
espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di
ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere
ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera».

4. L’articolo
15 della Carta, intitolato «Libertà professionale e diritto di lavorare»,
prevede, al paragrafo 1, quanto segue:

«Ogni persona ha il diritto di lavorare e di
esercitare una professione liberamente scelta o accettata».

5. L’articolo
21 della Carta, in materia di non discriminazione, dispone, al paragrafo 1,
quanto segue:

«È vietata qualsiasi forma di discriminazione
fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine
etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le
convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura,
l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la
disabilità, l’età o l’orientamento sessuale».

 

Direttiva 2000/78

 

6. I considerando 9, 11, 12 e 28 della direttiva 2000/78 recitano:

«(9) L’occupazione e le condizioni di lavoro sono
elementi chiave per garantire pari opportunità a tutti i cittadini e
contribuiscono notevolmente alla piena partecipazione degli stessi alla vita
economica, culturale e sociale e alla realizzazione personale.

 

(…)

 

(11) La discriminazione basata [sulle] (…)
tendenze sessuali può pregiudicare il conseguimento degli obiettivi del
trattato [FUE], in particolare il raggiungimento di un elevato livello di
occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della
qualità della vita, la coesione economica e sociale, la solidarietà e la libera
circolazione delle persone.

(12) Qualsiasi discriminazione diretta o indiretta
basata [sulle] (…) tendenze sessuali nei settori di cui alla presente
direttiva dovrebbe essere pertanto proibita in tutta [l’Unione]. (…)

 

(…)

 

(28) La presente direttiva fissa requisiti minimi,
lasciando liberi gli Stati membri di introdurre o mantenere disposizioni più
favorevoli. (…)».

7. L’articolo 1 di detta
direttiva così dispone:

«La presente direttiva mira a stabilire un quadro
generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le
convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto
concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo
negli Stati membri il principio della parità di trattamento».

8. L’articolo 2 della citata
direttiva, dal titolo «Nozione di discriminazione», così dispone:

«1. Ai fini della presente direttiva, per “principio
della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione
diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1.

2. Ai fini del paragrafo 1:

a) sussiste discriminazione diretta quando, sulla
base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è
trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata
un’altra in una situazione analoga;

b) sussiste discriminazione indiretta quando una
disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in
una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una
determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un
particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare
tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che:

i) tale disposizione, tale criterio o tale prassi
siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati
per il suo conseguimento siano appropriati e necessari (…).

(…)».

9. L’articolo 3 della medesima
direttiva definisce l’ambito di applicazione di quest’ultima. Ai sensi del
paragrafo 1, lettera a), di tale articolo:

«Nei limiti dei poteri conferiti all[’Unione], la
presente direttiva si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che
del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto
attiene:

a) alle condizioni di accesso all’occupazione e al
lavoro, sia dipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione e le
condizioni di assunzione indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i
livelli della gerarchia professionale, nonché alla promozione».

10. L’articolo 8 della direttiva
2000/78, intitolato «Requisiti minimi», dispone, al paragrafo 1, quanto segue:

«Gli Stati membri possono introdurre o mantenere,
per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più
favorevoli di quelle previste nella presente direttiva».

11. L’articolo 9 della citata
direttiva è compreso nel capo II di quest’ultima, relativo ai mezzi di ricorso
e all’attuazione delle norme. Intitolato «Difesa dei diritti», tale articolo
prevede, al paragrafo 2, quanto segue:

«Gli Stati membri riconoscono alle associazioni,
organizzazioni e altre persone giuridiche che, conformemente ai criteri
stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, abbiano un interesse
legittimo a garantire che le disposizioni della presente direttiva siano
rispettate, il diritto di avviare, in via giurisdizionale o amministrativa, per
conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso, una
procedura finalizzata all’esecuzione degli obblighi derivanti dalla presente
direttiva».

12. L’articolo 17 di detta
direttiva, dal titolo «Sanzioni», recita:

«Gli Stati membri determinano le sanzioni da
irrogare in caso di violazione delle norme nazionali di attuazione della
presente direttiva e prendono tutti i provvedimenti necessari per la loro
applicazione. Le sanzioni, che possono prevedere un risarcimento dei danni [a
favore delle vittime], devono essere effettive, proporzionate e dissuasive.
(…)».

 

Diritto italiano

 

13. Il decreto legislativo
del 9 luglio 2003, n. 216 – Attuazione della direttiva
2000/78 per la parità di trattamento in materia di occupazione e di
condizioni di lavoro (GURI n. 187, del 13 agosto 2003, pag. 4), nella versione
applicabile al procedimento principale (in prosieguo: il «decreto legislativo n. 216»), dispone, all’articolo 2, paragrafo 1, lettera a),
quanto segue:

«Ai fini del presente decreto (…), per principio
di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione
diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli
handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale. Tale principio comporta che
non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così come di
seguito definite:

a) discriminazione diretta quando, per religione,
per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale,
una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe
trattata un’altra in una situazione analoga».

14. L’articolo
3, paragrafo 1, lettera a), di detto decreto legislativo è così formulato:

«Il principio di parità di trattamento senza
distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di
orientamento sessuale si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico
che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme
previste dall’articolo 4, con specifico riferimento alle seguenti aree:

a) accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo
che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione».

15. L’articolo
5 del medesimo decreto legislativo ha il seguente tenore:

«1. Le organizzazioni sindacali, le associazioni e
le organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso, in forza
di delega, rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata, a pena
di nullità, sono legittimate ad agire ai sensi dell’articolo 4, in nome e per conto o a
sostegno del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o
giuridica cui è riferibile il comportamento o l’atto discriminatorio.

2. I soggetti di cui al comma 1 sono altresì
legittimati ad agire nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano
individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla
discriminazione».

 

Procedimento principale e questioni pregiudiziali

 

16. Risulta dal fascicolo sottoposto alla Corte che
NH è un avvocato e che l’Associazione è un’associazione di avvocati che difende
in giudizio i diritti delle persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender o
intersessuate (LGBTI).

17. Ritenendo che NH avesse pronunciato delle frasi
costituenti un comportamento discriminatorio fondato sull’orientamento sessuale
dei lavoratori, in violazione dell’articolo
2, paragrafo 1, lettera a), del decreto legislativo n. 216, l’Associazione
ha convenuto NH in giudizio, dinanzi al Tribunale di Bergamo (Italia).

18. Con ordinanza del 6 agosto 2014, tale giudice,
in veste di giudice del lavoro, ha dichiarato illecito, in quanto direttamente discriminatorio,
il comportamento di NH, il quale aveva dichiarato, nel corso di un’intervista
radiofonica, di non voler assumere e di non volersi avvalere della
collaborazione, nel proprio studio legale, di persone omosessuali. Su tale
base, il Tribunale di Bergamo ha condannato NH a versare all’Associazione EUR
10 000 a titolo di risarcimento del danno e ha ordinato la pubblicazione di
tale ordinanza per estratto su un quotidiano nazionale.

19. Con sentenza del 23 gennaio 2015, la Corte
d’appello di Brescia (Italia) ha respinto il ricorso che era stato presentato
da NH contro la suddetta ordinanza.

20. Avverso tale sentenza NH ha proposto ricorso per
cassazione dinanzi alla Corte suprema di cassazione (Italia), giudice del
rinvio. A sostegno di tale impugnazione, NH fa valere, in particolare,
un’erronea applicazione dell’articolo
5 del decreto legislativo n. 216, avendo il giudice d’appello riconosciuto
la legittimazione ad agire dell’Associazione, nonché una violazione o
un’erronea applicazione dell’articolo
2, paragrafo 1, lettera a), e dell’articolo 3 del citato decreto
legislativo, determinata dal fatto che egli avrebbe espresso un’opinione
concernente la professione di avvocato non presentandosi in veste di datore di
lavoro, bensì come semplice cittadino, e che le dichiarazioni in questione
erano avulse da qualsiasi ambito professionale effettivo.

21. Il giudice del rinvio rileva che il giudice
d’appello, nella sua sentenza, ha constatato, da un lato, che, «in una
conversazione tenuta nel corso di una trasmissione radiofonica, [NH] profferì
una serie di frasi, via via sollecitate dallo stesso interlocutore, al fine di
sostenere il proprio astio generico per una data categoria di persone, tanto da
non volerle intorno [a] sé nel suo studio professionale, né in una fantomatica
scelta dei collaboratori», e, dall’altro lato, che non vi era nessuna selezione
di lavoro aperta, e neppure programmata per il futuro.

22. In tale contesto, il giudice del rinvio si
chiede, in primo luogo, se un’associazione di avvocati, come l’Associazione,
costituisca un ente esponenziale ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 2, della
direttiva 2000/78. A questo proposito, detto giudice osserva, in
particolare, che la raccomandazione 2013/396/UE della Commissione, dell’11
giugno 2013, relativa a principi comuni per i meccanismi di ricorso collettivo
di natura inibitoria e risarcitoria negli Stati membri che riguardano
violazioni di diritti conferiti dalle norme dell’Unione (GU 2013, L 201, pag.
60), e la comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio,
al Comitato economico sociale europeo e al Comitato delle regioni, intitolata
«Verso un quadro orizzontale europeo per i ricorsi collettivi» [COM(2013) 401
final], elencano, tra i criteri pertinenti per determinare la legittimazione di
un’entità ad agire in rappresentanza, non soltanto il collegamento tra
l’obiettivo sancito dallo statuto dell’entità in questione e i diritti di cui
si asserisce la violazione, ma anche l’assenza di scopo di lucro di tale
entità.

23. Nel caso di specie, il giudice d’appello ha
riconosciuto la legittimazione ad agire dell’Associazione in considerazione
dello statuto di quest’ultima, secondo il quale tale associazione ha «lo scopo
di contribuire a sviluppare e diffondere la cultura e il rispetto dei diritti
delle persone» LGBTI, «sollecitando l’attenzione del mondo giudiziario», e
«gestisce la formazione di una rete di avvocati (…) [e] favorisce e promuove
la tutela giudiziaria, nonché l’utilizzazione degli strumenti di tutela
collettiva, presso le Corti nazionali e internazionali».

24. Il giudice del rinvio precisa che,
nell’ordinamento italiano, qualora la discriminazione in materia di occupazione
venga esercitata non contro una vittima identificata, bensì contro una
categoria di persone, l’articolo 5,
paragrafo 2, del decreto legislativo n. 216 riconosce senz’altro la
legittimazione ad agire alle entità contemplate da tale disposizione, le quali
sono considerate come enti esponenziali degli interessi della collettività
delle persone lese. Nondimeno, il giudice del rinvio dubita del fatto che
un’associazione di avvocati avente come scopo principale di offrire assistenza
giuridica a persone LGBTI possa, per il semplice fatto che il suo statuto
prevede che essa abbia altresì l’obiettivo di promuovere il rispetto dei
diritti di tali persone, vedersi riconoscere la legittimazione ad agire, anche
ai fini del risarcimento, contro le discriminazioni connesse all’occupazione,
sulla base di un proprio diretto interesse.

25. In secondo luogo, il giudice del rinvio si
interroga sui limiti che la normativa per la lotta contro la discriminazione in
materia di occupazione e di lavoro appone all’esercizio della libertà di
espressione. Esso osserva che la tutela contro le discriminazioni offerta dalla
direttiva 2000/78 e dal decreto legislativo n. 216 ha come ambito di
applicazione le situazioni concernenti l’instaurazione, l’esecuzione o la
conclusione di un rapporto di lavoro e incide dunque sull’iniziativa economica.
Gli atti summenzionati sembrano però a detto giudice estranei alla libertà di
espressione e non gli appaiono intesi a limitare quest’ultima. Oltre a ciò,
l’applicazione degli atti suddetti sarebbe subordinata all’esistenza di un
effettivo pericolo di discriminazione.

26. Di conseguenza, il giudice nazionale si chiede
se, per potersi constatare una situazione di accesso all’occupazione rientrante
nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78
e della normativa nazionale di trasposizione di quest’ultima, debba almeno
essere in corso una trattativa individuale di lavoro o un’offerta al pubblico
di lavoro e se, qualora non ricorra una tale ipotesi, delle semplici
dichiarazioni non presentanti quantomeno le caratteristiche di un’offerta di
lavoro al pubblico siano tutelate dalla libertà di espressione.

 

27. Alla luce di tali circostanze, la Corte suprema
di cassazione ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla
Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1) Se l’interpretazione dell’articolo 9 della direttiva
[2000/78] sia nel senso che un’associazione,
composta da avvocati specializzati nella tutela giudiziale di una categoria di
soggetti a differente orientamento sessuale, la quale nello statuto dichiari il
fine di promuovere la cultura e il rispetto dei diritti della categoria, si
ponga automaticamente come portatrice di un interesse collettivo e associazione
di tendenza non profit, legittimata ad agire in giudizio, anche con una domanda
risarcitoria, in presenza di fatti ritenuti discriminatori per detta categoria.

2) Se rientri nell’ambito di applicazione della
tutela antidiscriminatoria predisposta dalla direttiva [2000/78], secondo l’esatta interpretazione dei
suoi articoli 2 e 3, una
dichiarazione di manifestazione del pensiero contraria alla categoria delle
persone omosessuali, con la quale, in un’intervista rilasciata nel corso di una
trasmissione radiofonica di intrattenimento, l’intervistato abbia dichiarato
che mai assumerebbe o vorrebbe avvalersi della collaborazione di dette persone
nel proprio studio professionale [di avvocati], sebbene non fosse affatto
attuale né programmata dal medesimo una selezione di lavoro».

 

Sulle questioni pregiudiziali

 

Sulla seconda questione

 

28. In via preliminare, occorre rilevare che, con la
sua seconda questione, da esaminarsi in primo luogo, il giudice del rinvio fa
riferimento tanto all’articolo
2 della direttiva 2000/78, relativo al concetto di discriminazione, quanto
all’articolo 3 della
medesima direttiva, riguardante l’ambito di applicazione di quest’ultima.
Tuttavia, risulta dalla domanda di pronuncia pregiudiziale che nel procedimento
principale viene in discussione non già il punto se le dichiarazioni rese da NH
rientrino nella nozione di «discriminazione», così come definita dalla prima
delle disposizioni sopra citate, bensì la questione se, tenuto conto delle
circostanze nelle quali tali dichiarazioni sono state effettuate, esse
rientrino nell’ambito di applicazione materiale di detta direttiva là dove
questa contempla, all’articolo
3, paragrafo 1, lettera a), le «condizioni di accesso all’occupazione e al
lavoro (…), compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione».

29. Di conseguenza, occorre considerare che, con la
sua seconda questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la nozione
di «condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro» contenuta nell’articolo 3, paragrafo 1,
lettera a), della direttiva 2000/78 debba essere interpretata nel senso che
in essa rientrano le dichiarazioni rese da una persona nel corso di una
trasmissione audiovisiva secondo le quali tale persona mai assumerebbe o
vorrebbe avvalersi, nella propria impresa, della collaborazione di persone di
un determinato orientamento sessuale, e ciò sebbene non fosse in corso o
programmata una procedura di selezione di personale.

30. L’articolo 3, paragrafo 1,
lettera a), della direttiva 2000/78 stabilisce che quest’ultima si applica,
nei limiti dei poteri conferiti all’Unione, a tutte le persone, sia nel settore
pubblico che nel settore privato, ivi compresi gli organismi pubblici, per
quanto attiene alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia
dipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione e le condizioni di
assunzione indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia
professionale, nonché alla promozione.

31. Tale direttiva non rinvia al diritto degli Stati
membri per definire la nozione di «condizioni di accesso all’occupazione e al
lavoro». Orbene, dalle esigenze inerenti sia all’applicazione uniforme del diritto
dell’Unione sia al principio di parità discende che i termini di una
disposizione del diritto dell’Unione non contenente alcun rinvio espresso al
diritto degli Stati membri al fine di determinare il senso e la portata della
disposizione stessa devono di norma ricevere, in tutta l’Unione,
un’interpretazione autonoma e uniforme [v., in tal senso, sentenze del 18
ottobre 2016, Nikiforidis, C-135/15, EU:C:2016:774, punto 28, e del 26 marzo
2019, SM (Minore affidato in base al regime della kafala algerina), C-129/18,
EU:C:2019:248, punto 50].

32. Inoltre, poiché la direttiva di cui sopra non
definisce i termini «condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro», questi
devono essere interpretati conformemente al loro senso abituale nel linguaggio
corrente, tenendo conto del contesto nel quale vengono utilizzati e degli
obiettivi perseguiti dalla normativa di cui essi fanno parte (v., in tal senso,
sentenze del 3 settembre 2014, Deckmyn e Vrijheidsfonds, C-201/13,
EU:C:2014:2132, punto 19, nonché del 29 luglio 2019, Spiegel Online, C-516/17,
EU:C:2019:625, punto 65).

33. Per quanto riguarda i termini impiegati all’articolo 3, paragrafo 1,
lettera a), della direttiva 2000/78, occorre rilevare che la locuzione
«condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro» si riferisce, nel
linguaggio corrente, a circostanze o a fatti la cui esistenza deve
imperativamente essere dimostrata affinché una persona possa ottenere
un’occupazione o un lavoro determinato.

34. Tuttavia, i termini di detta disposizione non
permettono di per sé soli di stabilire se delle dichiarazioni rese al di fuori
di qualsiasi procedura di selezione di una persona per una determinata
occupazione o un determinato lavoro, in corso o programmata, rientrino
nell’ambito di applicazione materiale di detta direttiva. Occorre pertanto
considerare il contesto nel quale tale articolo 3, paragrafo 1,
lettera a), si inscrive, nonché gli obiettivi della direttiva in parola.

35. A questo proposito, occorre ricordare che la direttiva 2000/78 è stata adottata sul fondamento
dell’articolo 13 CE, divenuto,
in seguito a modifica, l’articolo
19, paragrafo 1, TFUE, il quale conferisce all’Unione una competenza ad
adottare le misure necessarie per combattere qualsiasi discriminazione fondata,
segnatamente, sull’orientamento sessuale.

36. In conformità dell’articolo 1 della direttiva
2000/78, e come risulta sia dal titolo e dal preambolo sia dal contenuto e
dalla finalità della direttiva stessa, quest’ultima mira a stabilire un quadro
generale per la lotta contro le discriminazioni fondate, segnatamente,
sull’orientamento sessuale per quanto concerne «l’occupazione e le condizioni
di lavoro», al fine di attuare, negli Stati membri, il principio della parità
di trattamento, offrendo ad ogni persona una tutela efficace contro le
discriminazioni fondate, segnatamente, sul motivo di discriminazione suddetto
(v., in tal senso, sentenza del 15 gennaio 2019, E.B., C-258/17, EU:C:2019:17,
punto 40 e la giurisprudenza ivi citata).

37. In particolare, il considerando 9 di detta
direttiva sottolinea che l’occupazione e il lavoro costituiscono elementi
chiave per garantire a tutti pari opportunità e contribuiscono notevolmente
alla piena partecipazione dei cittadini alla vita economica, culturale e
sociale e alla realizzazione personale. Parimenti in tal senso, il considerando
11 della citata direttiva enuncia che la discriminazione basata, segnatamente,
sull’orientamento sessuale può pregiudicare il conseguimento degli obiettivi
del Trattato FUE, e in particolare il raggiungimento di un elevato livello di
occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della
qualità della vita, la coesione economica e sociale, la solidarietà e la libera
circolazione delle persone.

38. La direttiva 2000/78
concretizza dunque, nel settore da essa disciplinato, il principio generale di
non discriminazione ormai sancito dall’articolo 21 della Carta (v., in
tal senso, sentenza del 17 aprile 2018, Egenberger, C-414/16,
EU:C:2018:257, punto 47).

39. Alla luce di tale obiettivo, e tenuto conto
della natura dei diritti che la direttiva 2000/78
intende tutelare nonché dei valori fondamentali a questa sottesi, la nozione di
«condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1,
lettera a), di detta direttiva, che definisce l’ambito di applicazione di
quest’ultima, non può essere oggetto di un’interpretazione restrittiva (v., per
analogia, sentenze del 12 maggio 2011, Runevič-Vardyn e Wardyn, C-391/09, EU:C:2011:291, punto 43, nonché del 16
luglio 2015, CHEZ Razpredelenie Bulgaria, C-83/14, EU:C:2015:480, punto 42).

40. La Corte ha dunque già statuito che la direttiva 2000/78 è idonea ad applicarsi in
situazioni che concernono, in materia di occupazione e di lavoro, delle
dichiarazioni relative alle «condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro
(…), compres[e] (…) le condizioni di assunzione», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1,
lettera a), della citata direttiva. In particolare, la Corte ha dichiarato
che sono idonee a rientrare in tale nozione delle dichiarazioni pubbliche
relative ad una determinata politica di assunzioni, effettuate malgrado che il
sistema di assunzioni in questione non si fondi su un’offerta pubblica o su una
trattativa diretta a seguito di una procedura di selezione che presupponga la
presentazione di candidature nonché una preselezione di queste ultime in
funzione dell’interesse che esse presentano per il datore di lavoro (v., in tal
senso, sentenza del 25 aprile 2013, Asociația Accept, C-81/12,
EU:C:2013:275, punti 44 e 45).

41. La Corte ha altresì statuito che il semplice
fatto che delle dichiarazioni suggerenti l’esistenza di una politica di
assunzioni omofoba non provengano da una persona avente la capacità giuridica
di definire direttamente la politica delle assunzioni del datore di lavoro in
questione od anche di vincolare o di rappresentare tale datore di lavoro in
materia di assunzioni non osta necessariamente a che dichiarazioni siffatte
possano ricadere tra le condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro del
datore di lavoro suddetto. A questo proposito, la Corte ha precisato che il
fatto che il datore di lavoro non abbia chiaramente preso le distanze dalle
dichiarazioni in questione, così come la percezione del pubblico o degli
ambienti interessati, costituiscono elementi pertinenti di cui il giudice adito
può tener conto nell’ambito di una valutazione globale dei fatti (v., in tal
senso, sentenza del 25 aprile 2013, Asociația Accept, C-81/12,
EU:C:2013:275, punti da 47 a 51).

42. Inoltre, neppure il fatto che nessuna trattativa
ai fini di un’assunzione fosse in corso allorché le dichiarazioni in questione
sono state rese esclude la possibilità che dichiarazioni del genere rientrino
nell’ambito di applicazione materiale della direttiva
2000/78.

43. Discende dalle considerazioni sopra esposte che,
se talune circostanze, come l’assenza di una procedura di selezione in corso o
programmata, non sono decisive per stabilire se delle dichiarazioni siano
relative ad una determinata politica di assunzioni e rientrino dunque nella
nozione di «condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1,
lettera a), della direttiva 2000/78, è però necessario, affinché
dichiarazioni siffatte rientrino nell’ambito di applicazione materiale di
quest’ultima, come definito dalla disposizione sopra citata, che esse possano
essere effettivamente ricondotte alla politica di assunzioni di un determinato
datore di lavoro, il che impone che il collegamento che esse presentano con le
condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro presso tale datore di lavoro
non sia ipotetico. L’esistenza di tale collegamento deve essere valutata dal
giudice nazionale adito nell’ambito di una valutazione globale delle
circostanze caratterizzanti le dichiarazioni in questione.

44. Per quanto riguarda i criteri da prendere in
considerazione a tal fine, occorre precisare che, come osservato anche, in
sostanza, dall’avvocato generale ai paragrafi da 53 a 56 delle sue conclusioni,
assumono segnatamente rilievo, in primo luogo, lo status dell’autore delle
dichiarazioni considerate e la veste nella quale egli si è espresso, i quali
devono dimostrare che tale autore è egli stesso un potenziale datore di lavoro,
oppure che egli è, di fatto o in diritto, capace di esercitare un’influenza
determinante sulla politica di assunzioni, ovvero su una decisione di
assunzione, di un potenziale datore di lavoro, oppure che egli è, quantomeno,
suscettibile di essere percepito dal pubblico o dagli ambienti interessati come
capace di esercitare un’influenza siffatta, e ciò quand’anche detto autore
delle dichiarazioni non disponga della capacità giuridica di definire la
politica di assunzioni del datore di lavoro in questione od anche di vincolare
o di rappresentare tale datore di lavoro in materia di assunzioni.

45. Assumono rilievo, in secondo luogo, la natura e il
contenuto delle dichiarazioni in questione. Queste ultime devono riferirsi alle
condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro presso il datore di lavoro di
cui trattasi e dimostrare l’intenzione di tale datore di lavoro di discriminare
sulla base di uno dei criteri previsti dalla direttiva
2000/78.

46. In terzo luogo, deve essere preso in
considerazione il contesto nel quale le dichiarazioni in questione sono state
effettuate, in particolare il loro carattere pubblico o privato, od anche il
fatto che esse siano state oggetto di diffusione tra il pubblico, a prescindere
che ciò sia avvenuto attraverso i media tradizionali oppure tramite social
network.

47. Questa interpretazione della direttiva 2000/78 non può essere inficiata
dall’eventuale limitazione all’esercizio della libertà di espressione,
prospettata dal giudice del rinvio, che potrebbe derivarne.

48. Indubbiamente, la libertà di espressione, in
quanto fondamento essenziale di una società democratica e pluralista
rispecchiante i valori sui quali l’Unione si fonda, a norma dell’articolo 2
TUE, costituisce un diritto fondamentale garantito dall’articolo 11 della Carta (sentenza
del 6 settembre 2011, Patriciello, C-163/10, EU:C:2011:543, punto 31).

49. Tuttavia, come risulta dall’articolo 52,
paragrafo 1, della Carta, la libertà di espressione non è un diritto assoluto e
il suo esercizio può incontrare delle limitazioni, a condizione che queste
siano previste dalla legge e rispettino il contenuto essenziale di tale diritto
nonché il principio di proporzionalità, vale a dire che esse siano necessarie e
rispondano effettivamente ad obiettivi di interesse generale riconosciuti
dall’Unione o all’esigenza di tutela dei diritti e delle libertà altrui.
Orbene, come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi da 65 a 69 delle sue
conclusioni, tale situazione sussiste nel caso di specie.

50. Infatti, le limitazioni all’esercizio della
libertà di espressione che possono derivare dalla direttiva
2000/78 sono effettivamente previste dalla legge, in quanto esse
scaturiscono direttamente da tale direttiva.

51. Tali limitazioni rispettano inoltre il contenuto
essenziale della libertà di espressione, in quanto esse si applicano unicamente
al fine di raggiungere gli obiettivi della direttiva
2000/78, ossia garantire il principio della parità di trattamento in
materia di occupazione e di lavoro e la realizzazione di un elevato livello di
occupazione e di protezione sociale. Esse sono dunque giustificate da tali
obiettivi.

52. Limitazioni siffatte rispettano altresì il
principio di proporzionalità, nella misura in cui i motivi di discriminazione
proibiti sono elencati all’articolo
1 della direttiva 2000/78, l’ambito di applicazione materiale e personale
della quale è delimitato all’articolo 3 della direttiva stessa, e l’ingerenza
nell’esercizio della libertà di espressione non va oltre quanto è necessario
per realizzare gli obiettivi di tale direttiva, vietando unicamente le
dichiarazioni che costituiscono una discriminazione in materia di occupazione e
di lavoro.

53. Inoltre, le limitazioni all’esercizio della
libertà di espressione risultanti dalla direttiva
2000/78 sono necessarie per garantire i diritti in materia di occupazione e
di lavoro di cui dispongono le persone appartenenti ai gruppi di persone caratterizzati
da uno dei motivi elencati all’articolo 1 della medesima direttiva.

54. In particolare, nel caso in cui, contrariamente
all’interpretazione della nozione di «condizioni di accesso all’occupazione e
al lavoro», contenuta all’articolo
3, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/78 ed illustrata al punto
43 della presente sentenza, determinate dichiarazioni fossero sottratte
all’ambito di applicazione materiale di tale direttiva per il semplice fatto
che esse sono state rese al di fuori di una procedura di selezione,
segnatamente nell’ambito di una trasmissione audiovisiva di intrattenimento, o
che esse costituiscano l’espressione di un’opinione personale del loro autore,
l’essenza stessa della tutela concessa da detta direttiva in materia di
occupazione e di lavoro potrebbe divenire illusoria.

55. Infatti, come l’avvocato generale ha rilevato,
in sostanza, ai paragrafi 44 e 57 delle sue conclusioni, in qualsiasi procedura
di assunzione la selezione principale viene effettuata tra le persone che
presentano la loro candidatura e quelle che non la presentano. Orbene,
l’espressione di opinioni discriminatorie in materia di occupazione e di
lavoro, da parte di un datore di lavoro o di una persona percepita come capace
di esercitare un’influenza determinante sulla politica di assunzioni di
un’impresa, è idonea a dissuadere le persone in questione dal candidarsi ad un
posto di lavoro.

56. Di conseguenza, eventuali dichiarazioni
rientranti nell’ambito di applicazione materiale della direttiva 2000/78, quale definito all’articolo 3
di quest’ultima, non possono sfuggire al regime di contrasto alle
discriminazioni in materia di occupazione e di lavoro istituito da tale direttiva
per il fatto che esse siano state rese nel corso di una trasmissione
audiovisiva di intrattenimento o che costituiscano anche l’espressione
dell’opinione personale del loro autore in merito alla categoria delle persone
oggetto delle dichiarazioni stesse.

57. Nel caso di specie, spetta al giudice del rinvio
valutare se le circostanze caratterizzanti le dichiarazioni in discussione nel
procedimento principale dimostrino che il collegamento tra queste ultime e le
condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro nello studio di avvocati di
cui trattasi non è ipotetico – valutazione, questa, di natura fattuale – e
applicare nell’ambito di tale valutazione i criteri identificati ai punti da 44
a 46 della presente sentenza.

58. Alla luce dell’insieme delle considerazioni che
precedono, occorre rispondere alla seconda questione dichiarando che la nozione
di «condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro» contenuta all’articolo
3, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/78
deve essere interpretata nel senso che in essa rientrano delle dichiarazioni
rese da una persona nel corso di una trasmissione audiovisiva secondo le quali
tale persona mai assumerebbe o vorrebbe avvalersi, nella propria impresa, della
collaborazione di persone di un determinato orientamento sessuale, e ciò
sebbene non fosse in corso o programmata una procedura di selezione di
personale, purché il collegamento tra dette dichiarazioni e le condizioni di
accesso all’occupazione e al lavoro in seno a tale impresa non sia ipotetico.

 

Sulla prima questione

 

59. Con la sua prima questione, il giudice del
rinvio chiede, in sostanza, se la direttiva 2000/78
debba essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale in
virtù della quale un’associazione di avvocati, la cui finalità statutaria
consista nel difendere in giudizio le persone aventi segnatamente un
determinato orientamento sessuale e nel promuovere la cultura e il rispetto dei
diritti di tale categoria di persone, sia, in ragione di tale finalità e
indipendentemente dall’eventuale scopo di lucro dell’associazione stessa,
automaticamente legittimata ad avviare un procedimento giurisdizionale inteso a
far rispettare gli obblighi risultanti dalla direttiva summenzionata e,
eventualmente, ad ottenere il risarcimento del danno, nel caso in cui si
verifichino fatti idonei a costituire una discriminazione, ai sensi di detta
direttiva, nei confronti della citata categoria di persone e non sia
identificabile una persona lesa.

60. Ai sensi dell’articolo
9, paragrafo 2, della direttiva 2000/78, gli Stati membri riconoscono alle
associazioni, organizzazioni e altre persone giuridiche che, conformemente ai
criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, abbiano un legittimo
interesse a garantire che le disposizioni di tale direttiva siano rispettate,
il diritto di avviare, in via giurisdizionale o amministrativa, per conto o a
sostegno di una persona che si ritenga lesa e con il suo consenso, una
procedura finalizzata all’esecuzione degli obblighi derivanti dalla direttiva
suddetta.

61. Pertanto, risulta dalla formulazione stessa
della disposizione di cui sopra che essa non esige che ad un’associazione come
quella di cui al procedimento principale venga riconosciuta negli Stati membri
la legittimazione ad avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far
rispettare gli obblighi scaturenti dalla direttiva
2000/78, nel caso in cui non sia identificabile alcuna persona lesa.

62. Nondimeno, l’articolo 8, paragrafo 1, della
direttiva 2000/78, letto alla luce del considerando 28 di quest’ultima,
stabilisce che gli Stati membri possono introdurre o mantenere, per quanto
riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli
di quelle previste nella direttiva stessa.

63. Assumendo a fondamento tale disposizione, la
Corte ha statuito che l’articolo
9, paragrafo 2, della direttiva 2000/78 non osta in alcun modo a che uno
Stato membro, nella propria normativa nazionale, riconosca alle associazioni
aventi un legittimo interesse a far garantire il rispetto di tale direttiva il
diritto di avviare procedure giurisdizionali o amministrative intese a far
rispettare gli obblighi derivanti dalla direttiva stessa senza agire in nome di
una determinata persona lesa ovvero in assenza di una persona lesa
identificabile (sentenza del 25 aprile 2013, Asociația Accept, C-81/12,
EU:C:2013:275, punto 37).

64. Qualora uno Stato membro operi una scelta
siffatta, spetta ad esso decidere a quali condizioni un’associazione come
quella di cui trattasi nel procedimento principale può avviare un procedimento
giurisdizionale inteso a far constatare l’esistenza di una discriminazione
vietata dalla direttiva 2000/78 e a far
sanzionare tale discriminazione. Detto Stato membro è tenuto segnatamente a
stabilire se lo scopo di lucro o meno dell’associazione debba avere
un’influenza sulla valutazione della legittimazione dell’associazione stessa ad
agire in tal senso, e a precisare la portata di tale azione, in particolare le
sanzioni irrogabili all’esito di quest’ultima, tenendo presente che tali
sanzioni devono, a norma dell’articolo 17 della direttiva
2000/78, essere effettive, proporzionate e dissuasive anche quando non vi
sia alcuna persona lesa identificabile (v., in tal senso, sentenza del 25
aprile 2013, Asociația Accept, C-81/12, EU:C:2013:275, punti 62 e 63).

65. Alla luce delle considerazioni che precedono,
occorre rispondere alla prima questione dichiarando che la direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel
senso che essa non osta ad una normativa nazionale in virtù della quale
un’associazione di avvocati, la cui finalità statutaria consista nel difendere
in giudizio le persone aventi segnatamente un determinato orientamento sessuale
e nel promuovere la cultura e il rispetto dei diritti di tale categoria di
persone, sia, in ragione di tale finalità e indipendentemente dall’eventuale
scopo di lucro dell’associazione stessa, automaticamente legittimata ad avviare
un procedimento giurisdizionale inteso a far rispettare gli obblighi risultanti
dalla direttiva summenzionata e, eventualmente, ad ottenere il risarcimento del
danno, nel caso in cui si verifichino fatti idonei a costituire una
discriminazione, ai sensi di detta direttiva, nei confronti della citata
categoria di persone e non sia identificabile una persona lesa.

 

Sulle spese

 

66. Nei confronti delle parti nel procedimento
principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al
giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute
da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo
a rifusione.

 

P.Q.M.

 

1) La nozione di «condizioni di accesso
all’occupazione e al lavoro» contenuta all’articolo 3, paragrafo 1,
lettera a), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000,
che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di
occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che
in essa rientrano delle dichiarazioni rese da una persona nel corso di una
trasmissione audiovisiva secondo le quali tale persona mai assumerebbe o
vorrebbe avvalersi, nella propria impresa, della collaborazione di persone di
un determinato orientamento sessuale, e ciò sebbene non fosse in corso o
programmata una procedura di selezione di personale, purché il collegamento tra
dette dichiarazioni e le condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro in
seno a tale impresa non sia ipotetico.

2) La direttiva 2000/78
deve essere interpretata nel senso che essa non osta ad una normativa nazionale
in virtù della quale un’associazione di avvocati, la cui finalità statutaria
consista nel difendere in giudizio le persone aventi segnatamente un
determinato orientamento sessuale e nel promuovere la cultura e il rispetto dei
diritti di tale categoria di persone, sia, in ragione di tale finalità e
indipendentemente dall’eventuale scopo di lucro dell’associazione stessa,
automaticamente legittimata ad avviare un procedimento giurisdizionale inteso a
far rispettare gli obblighi risultanti dalla direttiva summenzionata e,
eventualmente, ad ottenere il risarcimento del danno, nel caso in cui si
verifichino fatti idonei a costituire una discriminazione, ai sensi di detta
direttiva, nei confronti della citata categoria di persone e non sia
identificabile una persona lesa.

Giurisprudenza – CORTE DI GIUSTIZIA CE-UE – Sentenza 23 aprile 2020, n. C-507/18
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