Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 21 aprile 2020, n. 7977
Trasferimento di ramo d’azienda, Permanenza del rapporto di
lavoro, Unicità del rapporto venuta meno nel caso di trasferimento dichiarato
invalido, Rapporto con il destinatario della cessione instaurato in via di
mero fatto, Vicende risolutive non idonee ad incidere sul rapporto giuridico
ancora in essere con il cedente, Retribuzione comunque spettante al dipendente
Rilevato che
con sentenza in data 10 ottobre 2016, la Corte
d’appello di Napoli rigettava l’appello proposto da T.I. s.p.a. avverso la
sentenza di primo grado, di reiezione della sua opposizione al decreto del
Tribunale di Napoli, che le aveva ingiunto il pagamento della somma di €
1.835,15 oltre accessori di legge, in favore della dipendente A.M. per
retribuzione del mese di febbraio 2014, sul presupposto della permanenza del
rapporto di lavoro tra le parti anche dopo il trasferimento, impugnato dalla
predetta, del ramo di azienda dalla società datrice a C.L. Italia (già T.N.T.
L. Italia) s.r.I., accertata dalla sentenza n. 25880 del 26 ottobre 2009 dello
stesso Tribunale di Napoli;
avverso tale sentenza la società, con atto
notificato il 6 aprile 2017, ricorreva per cassazione con tre motivi, cui la
lavoratrice resisteva con controricorso e memoria ai sensi dell’art. 380bis 1 c.p.c.;
Considerato che
1. la ricorrente deduce omesso esame di un fatto
decisivo oggetto di discussione tra le parti, quale l’accettazione dalla
lavoratrice della collocazione in mobilità da parte della cessionaria del ramo
d’azienda, al cui esito era stata licenziata, con estinzione pertanto
dell’unico rapporto di lavoro (di fatto proseguito con quella e quiescente con
la cedente T.I. s.p.a.: non essendo configurabile la coesistenza di due
distinti rapporti di lavoro subordinato), comportante l’inammissibilità della
sua pretesa patrimoniale (primo motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1223, 1256, 1453, 1463 c.c., per ravvisata inapplicabilità del
principio di compensatio lucri cum damno, nella specificazione dell’aliunde
perceptum, sull’erroneo assunto della Corte territoriale della natura
retributiva, anziché risarcitoria, della pretesa patrimoniale della
lavoratrice, comportante conseguenze parimenti errate in ordine alla mora
credendi: neppure infine essendo indetraibile l’indennità di mobilità, siccome
percepita da A.M. quale dipendente della cessionaria T.N.T., nell’ambito di una
generale attività di riorganizzazione della società, cui era estranea la ricorrente
(secondo motivo);
2. essi, congiuntamente esaminabili per ragioni di
stretta connessione, sono infondati;
3. premessa l’inesistenza di omissione di esame del
fatto denunciata, invece compiuto dalla Corte d’appello, che l’ha illustrato
(al penultimo capoverso di pg. 2 della sentenza) e ritenuto fatto estraneo alla
ricostituzione del rapporto di lavoro tra le parti (al penultimo capoverso di
pg. 3 della sentenza);
4. questa Corte ha recentemente risolto le questioni
qui devolute, con sentenze oggetto di ampie ed approfondite argomentazioni (Cass. 3 luglio 2019, n. 17784, sub p.ti da 6.2. a
7.1.; sub 8. in motivazione; Cass. 7 agosto 2019,
n. 21158), qui espressamente richiamate in quanto condivise e pertanto
meritevoli di continuità, secondo le quali:
4.1. soltanto un legittimo trasferimento d’azienda
comporta la continuità di un rapporto di lavoro che resta unico ed immutato,
nei suoi elementi oggettivi, esclusivamente nella misura in cui ricorrano i
presupposti di cui all’art. 2112 c.c. che, in
deroga all’art. 1406 c.c., consente la
sostituzione del contraente senza il consenso del ceduto. Ed è evidente che
l’unicità del rapporto venga meno, qualora, come appunto nel caso di specie, il
trasferimento sia dichiarato invalido, stante l’instaurazione di un diverso e
nuovo rapporto di lavoro con il soggetto (già, e non più, cessionario) alle cui
dipendenze il lavoratore “continui” di fatto a lavorare;
4.2. per insegnamento consolidato nella
giurisprudenza di legittimità l’unicità del rapporto presuppone la legittimità
della vicenda traslativa regolata dall’art. 2112
c.c.: sicché, accertatane l’invalidità, il rapporto con il destinatario
della cessione è instaurato in via di mero fatto, tanto che le vicende
risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico
ancora in essere, rimasto in vita con il cedente (sebbene quiescente per
l’illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale);
4.3. il trasferimento del medesimo rapporto si
determina solo quando si perfeziona una fattispecie traslativa conforme al
modello legale; diversamente, nel caso di invalidità della cessione (per
mancanza dei requisiti richiesti dall’art. 2112 c.c.)
e di inconfigurabilità di una cessione negoziale (per mancanza del consenso
della parte ceduta quale elemento costitutivo della cessione), quel rapporto di
lavoro non si trasferisce e resta nella titolarità dell’originario cedente
(cfr. da ultimo: Cass. 28 febbraio 2019, n. 5998; in senso conforme, tra le
altre: Cass. 18 febbraio 2014, n. 13485; Cass.
7 settembre 2016, n. 17736; Cass. 30 gennaio 2018, n. 2281, le quali hanno pure
ribadito il consolidato orientamento circa l’interesse ad agire del lavoratore
ceduto nonostante la prestazione di lavoro resa in favore del cessionario);
4.4. pure a fronte di una duplicità di rapporti (uno,
de iure, ripristinato nei confronti dell’originario datore di lavoro, tenuto
alla corresponsione delle retribuzioni maturate dalla costituzione in mora del
lavoratore; l’altro, di fatto, nei confronti del soggetto, già cessionario,
effettivo utilizzatore), la prestazione lavorativa solo apparentemente resta
unica: giacché, accanto ad una prestazione materialmente resa in favore del
soggetto con il quale il lavoratore, illegittimamente trasferito con la
cessione di ramo d’azienda, abbia instaurato un rapporto di lavoro di fatto, ve
n’è un’altra giuridicamente resa, non meno rilevante sul piano del diritto, in
favore dell’originario datore, con il quale il rapporto di lavoro è stato de
iure (anche se non de facto, per rifiuto ingiustificato del predetto) ripristinato;
4.5. pertanto al dipendente spetta la retribuzione
tanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, sia se il datore
di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei suoi confronti (Cass.
23 novembre 2006, n. 24886; Cass. 23 luglio 2008,
n. 20316), perché, una volta offerta la prestazione lavorativa al datore di
lavoro giudizialmente dichiarato tale, il rifiuto di questi rende
giuridicamente equiparabile la messa a disposizione delle energie lavorative
del dipendente alla utilizzazione effettiva, con la conseguenza che il datore
di lavoro ha l’obbligo di pagare la controprestazione retributiva;
4.6. nelle obbligazioni aventi ad oggetto
prestazioni fungibili, la costituzione in mora credendi (e la conseguente
offerta di restituzione) vale unicamente a stabilire il momento di decorrenza
degli effetti della mora, specificamente indicati dall’art. 1207 c.c., ma non
anche a determinare la liberazione del debitore, che la legge subordina (art. 1210 c.c.) all’esecuzione del deposito
accettato dal creditore o dichiarato valido con sentenza passata in giudicato
(Cass. 29 aprile 2014, n. 8711); in quelle relative a prestazioni infungibili
(cui appartiene quella lavorativa), dovendo l’adempimento della prestazione di
fare essere preceduto da atti preparatori, la cui esecuzione richiede la
collaborazione del creditore, basta invece che il debitore, che intenda
conseguire la liberazione dal vincolo, costituisca il primo in mora mediante
l’intimazione prevista dall’art. 1217 c.c.:
integrando insindacabile valutazione di merito l’accertamento della necessità
della collaborazione del creditore, affinché il debitore possa adempiere la
propria obbligazione di fare (Cass. 12 luglio 1968, n. 2474);
4.7. mediante l’intimazione del lavoratore
all’impresa cedente di ricevere la prestazione con modalità valida ai fini
della costituzione in mora credendi del medesimo datore (il quale la rifiuti
senza giustificazione), il debitore del facere infungibile ha posto in essere
quanto è necessario, secondo il diritto comune, per far nascere il suo diritto
alla controprestazione del pagamento della retribuzione, stante l’equiparazione
della prestazione rifiutata alla prestazione effettivamente resa per tutto il
tempo in cui il creditore l’abbia resa impossibile non compiendo gli atti di
cooperazione necessari;
4.8. da quel momento l’attività lavorativa
subordinata resa in favore del non più cessionario equivale a quella che il
lavoratore, bisognoso di occupazione, renda in favore di qualsiasi altro
soggetto terzo: così come la retribuzione corrisposta da ogni altro datore di
lavoro presso il quale il lavoratore impiegasse le sue energie lavorative si
andrebbe a cumulare con quella dovuta dall’azienda cedente, parimenti anche
quella corrisposta da chi non è più da considerare cessionario, e che compensa
un’attività resa nell’interesse e nell’organizzazione di questi, non va
detratta dall’importo della retribuzione cui il cedente è obbligato;
4.9. dopo la sentenza che ha dichiarato
insussistenti i presupposti per il trasferimento del ramo d’azienda, in uno con
la messa in mora operata del lavoratore, vi è l’obbligo dell’impresa (già)
cedente di pagare la retribuzione e non di risarcire un danno;
4.10. la conclusione è coerente con
l’interpretazione costituzionalmente orientata secondo cui, in riferimento allo
scrutinio di legittimità costituzionale dell’art. 32, quinto, sesto e settimo
comma I. 183/2010, “il danno forfettizzato dall’indennità in esame
copre soltanto il periodo cosiddetto “intermedio”, quello, cioè, che
corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di
esso e dichiara la conversione del rapporto”; sicché, “a partire
dalla sentenza con cui il giudice, rilevato il vizio della pattuizione del
termine, converte il contratto di lavoro che prevedeva una scadenza in un
contratto di lavoro a tempo indeterminato, è da ritenere che il datore di
lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore
e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di
mancata riammissione effettiva. Diversamente opinando, la tutela fondamentale
della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato sarebbe
completamente svuotata.” (Corte cost. 11
novembre 2011, n. 303, sub 3.3 del Considerato in diritto);
4.11 essa è stata ribadita dalla giurisprudenza di
questa Corte (Cass. s.u. 7 febbraio 2018, n. 2990), autorevolmente confermata
siccome corretta nella prospettiva interpretativa, costituzionalmente
orientata, di rimeditazione della regola di corrispettività nell’ipotesi di un
rifiuto illegittimo del datore di lavoro della prestazione lavorativa
regolarmente offerta: posto che il riconoscimento di una tutela esclusivamente
risarcitoria diminuirebbe l’efficacia dei rimedi che l’ordinamento appresta per
il lavoratore; dovendo continuare a gravare sul datore di lavoro, che persista
nel rifiuto di ricevere la prestazione lavorativa ritualmente offerta dopo
l’accertamento giudiziale che ha ripristinato il vinculum iuris, l’obbligo di
corrispondere la retribuzione (Corte cost. 28
febbraio 2019, n. 29, sub 5 del Considerato in diritto);
5. la ricorrente deduce infine violazione e falsa
applicazione degli artt. 210, 213 c.p.c., 1223 e
1227 c.c., per non avere la Corte territoriale
ammesso le istanze istruttorie (esibizione di documentazione fiscale e
informazioni scritte alla P.A. su eventuali redditi di lavoro) specificamente
dedotte in primo grado (e reiterate in appello), in merito alla prestazione di
attività lavorativa dalla dipendente a fini di detrazione dell’aliunde
perceptum dalla somma eventualmente spettantele a titolo (non già retributivo,
ma) risarcitorio (terzo motivo);
5.1. esso è assorbito dal rigetto dei precedenti;
6. pertanto il ricorso deve essere rigettato, con la
compensazione delle spese del giudizio tra le parti, per la novità della
soluzione adottata dalla giurisprudenza di legittimità, in epoca successiva
alla proposizione del ricorso e raddoppio del contributo unificato, ove
spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle
indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535);
P.Q.M.
rigetta il ricorso e dichiara le spese del giudizio
interamente compensate tra le parti.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.p.r. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1
bis, dello stesso art. 13, se
dovuto.