Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 aprile 2020, n. 8262
Trasferimento del ramo di azienda, Illegittimità, Ordine di
ripristino del rapporto con i lavoratori, Pronuncia giurisdizionale dotata di
propria autorità, prima ancora del passaggio in giudicato, Contemporanea
pendenza davanti a due giudici diversi, in gradi differenti, Rapporto di
pregiudizialità in senso logico e non anche in senso tecnico-giuridico,
Ipotesi di sospensione facoltativa
Rilevato che
con sentenza in data 10 febbraio 2016, la Corte
d’appello di Bologna rigettava l’appello proposto da T. I. s.p.a. avverso la
sentenza di primo grado, di reiezione delle sue opposizioni ai decreti dello
stesso Tribunale che le aveva ingiunto il pagamento delle rispettive somme di €
14.355,76 e di € 12.953,94 oltre accessori di legge, in favore degli ex
dipendenti D.T. e P.C. per retribuzioni calcolate dal 6 aprile al 30 settembre
2012, sul presupposto dell’illegittimità del trasferimento del ramo di azienda
dalla predetta società a H.P. – D.C.S. s.r.I., accertata dalla sentenza n.
129/2012 della medesima Corte, che
l’aveva pure condannata alla reintegrazione dei lavoratori; in parziale
riforma della sentenza del Tribunale, essa revocava invece, in accoglimento
delle opposizioni della società cedente, i decreti ingiuntivi emessi dallo
stesso Tribunale (per le rispettive somme di € 11.159,00 ciascuna) in favore di
A.M.U. e D.D.G.;
avverso tale sentenza la società, con atto
notificato il 25 luglio 2016, ricorreva per cassazione con tre motivi, cui D.T.
e P.C. resistevano con unico controricorso e memoria ai sensi dell’art. 380bis 1 c.p.c.;
Considerato che
1. la ricorrente deduce violazione e falsa
applicazione degli artt. 431, 282 c.p.c., per avere la Corte territoriale
erroneamente ritenuto titolo idoneo all’emissione dei decreti ingiuntivi
opposti la sentenza 8 marzo 2012 della stessa Corte d’appello, in quanto priva
di esecutività in via provvisoria fino alla formazione del giudicato (con
sentenza della Corte di Cassazione 31 luglio 2015, n. 16262), siccome non di
condanna ma di mero accertamento dell’illegittimità della cessione di ramo
d’azienda da T. I. s.p.a. a H.P. -D.C.S. s.r.I., con ordine di ripristino del
rapporto con i due lavoratori, sempre rimasto nella titolarità datoriale della
società cedente: con la conseguente inesistenza di alcun obbligo, prima del
giudicato, di ripristino del rapporto di lavoro e pertanto di pagamento delle retribuzioni
ovvero di insorgenza di una responsabilità per risarcimento del danno (primo
motivo);
2. esso è infondato;
2.1. secondo consolidato orientamento, meritevole di
continuità in quanto condiviso per la sua correttezza, questa Corte reputa che,
prima ancora del passaggio in giudicato, qualsiasi pronuncia giurisdizionale
sia dotata di propria autorità, dato che la sentenza esplica un’efficacia di
accertamento al di fuori del processo. Sicché, la stabilità della sentenza
impugnata, anche se provvisoria, costituisce naturale proprietà dell’atto
giurisdizionale, che esprime la volontà della legge nel caso concreto, e con
questa l’esigenza di una sua immediata, pur se temporanea, attuazione,
nell’attesa del formarsi del giudicato e indipendentemente da questo (da
ultimo: Cass. 25 giugno 2018, n. 16694; Cass. 3 luglio 2019, n. 17785). Né a ciò osta
l’eventuale contemporanea pendenza davanti a due giudici diversi, in gradi
differenti, dei procedimenti di accertamento del diritto e del quantum
conseguente, posto che tra essi sussiste solo un rapporto di pregiudizialità in
senso logico, e non anche in senso tecnico-giuridico, sicché non ricorre
un’ipotesi di sospensione necessaria, ai sensi dell’art.
295 c.p.c.: essendo eventualmente applicabile l’art.
337, secondo comma c.p.c. (di sospensione facoltativa, come si desume
dall’interpretazione sistematica della disciplina del processo, in cui un ruolo
decisivo riveste l’art. 282 c.p.c., poiché il
diritto pronunciato dal giudice di primo grado qualifica la posizione delle
parti in modo diverso rispetto allo stato iniziale della lite, giustificando
sia l’esecuzione provvisoria, sia l’autorità della sentenza di primo grado:
Cass. 3 novembre 2017, n. 26251; Cass. 4 gennaio 2019, n. 80), che, in caso di
impugnazione di una sentenza la cui autorità sia stata invocata in un separato
processo, ne prevede soltanto la possibilità di sospensione facoltativa, con
esclusione del rischio di un conflitto di giudicati in quanto, a norma dell’art. 336, secondo comma c.p.c., la riforma o la
cassazione della sentenza sull’an debeatur determina l’automatica caducazione
di quella sul quantum (Cass. s.u. 26 luglio 2004, n. 14060; Cass. 21 febbraio
2017, n. 4442);
3. la ricorrente deduce poi nullità della sentenza
per violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere
la Corte territoriale, nell’inosservanza del principio di corrispondenza del
chiesto al pronunciato, accertato il diritto ad un risarcimento del danno dei
lavoratori, che avevano invece richiesto (tanto nel ricorso in via monitoria,
tanto nelle memorie difensive nei giudizi di opposizione in primo grado e di
appello) la condanna della datrice cedente il ramo d’azienda al pagamento delle
retribuzioni maturate nello stesso periodo dal 6 aprile al 30 settembre 2012
(secondo motivo);
4. essa deduce quindi nullità per violazione e falsa
applicazione degli artt. 2118 c.c., 22, primo comma, lett. c) I. 153/1969, 10, sesto comma I. 503/1992,
per avere la Corte territoriale erroneamente condannato la società cedente il
ramo d’azienda, nonostante la cessazione dell’unico rapporto dei due lavoratori
con la cessionaria (tale dal 16 aprile 2003): per pensionamento di Tedesco il
29 aprile 2009, incompatibile con la persistenza di alcun “vincolo
obbligatorio lavoristico nei confronti di T.”; e per dimissioni di C. il
31 dicembre 2003 e risoluzione pertanto del rapporto per volontà del
lavoratore, in assenza di alcun illecito fonte di un danno risarcibile (terzo
motivo);
4.1. i due motivi, congiuntamente esaminabili per
ragioni di stretta connessione, sono infondati;
4.2. occorre premettere, quanto al primo dei due, in
linea generale, il principio per il quale il giudice ha il potere-dovere di
qualificare giuridicamente i fatti posti a base della domanda o delle eccezioni
e di individuare le norme di diritto conseguentemente applicabili, anche in
difformità rispetto alle indicazioni delle parti, incorrendo nel vizio di
ultrapetizione soltanto ove sostituisca la domanda proposta con una diversa,
modificandone i fatti costitutivi o fondandosi su una realtà fattuale non
dedotta né allegata in giudizio dalle parti (Cass. 17 luglio 2007, n. 15925;
Cass. 3 agosto 2012, n. 13945; Cass. 21 febbraio 2019, n. 5153);
4.3. nel caso di specie, non sussiste la violazione
denunciata, per avere la Corte territoriale esercitato un tale potere di
qualificazione giuridica della domanda del lavoratore, sulla base dell’identità
dei fatti allegati senza immutarli né alterarli: senza pertanto integrazione
della violazione denunciata, la quale, sostanziandosi nel divieto di
introduzione di nuovi elementi di fatto nel tema controverso, ricorre quando il
giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione (petitum o
causa petendi), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum
immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello
conteso (petitum mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o
delle eccezioni fatte valere dai contraddittori (Cass. 11 aprile 2018, n. 9002;
Cass. 21 marzo 2019, n. 8148);
4.4. in accoglimento sul punto del motivo di appello
di T. I. s.p.a. (illustrato al p.to 3. di pg. 2 della sentenza), essa ha,
infatti, qualificato come risarcitorio il credito pecuniario dei lavoratori
(per le ragioni esposte al terz’ultimo e penultimo capoverso di pg. 4 della
sentenza), che avevano ottenuto ciascuno dal Tribunale di Bologna,
conformemente alla loro domanda nei confronti della predetta società, un
decreto ingiuntivo a titolo di retribuzioni dal 6 aprile al 30 settembre 2012
(sulla base della sentenza n. 129/2012 della medesima Corte felsinea, di
accertamento dell’illegittimità del trasferimento del ramo di azienda dalla
citata società a H.P. – D.C.S. e ordine di ripristino del rapporto di lavoro
con la cedente), avverso il quale T. I. s.p.a. aveva proposto le opposizioni,
rigettate dal Tribunale con la sentenza (che ribadiva la natura retributiva dei
crediti pecuniari dei lavoratori) gravata di appello, rigettato con la
decisione, qui ricorsa;
4.5. in ordine al secondo dei due motivi
congiuntamente esaminati, occorre, preliminarmente rilevare la novità della
questione prospettata, non risultante tratta( dalla sentenza impugnata, neppure
avendo la ricorrente indicato specificamente, né trascritto gli atti nei quali
l’avrebbe posta nei gradi di merito: ciò riflettendosi sulla genericità del
motivo, in violazione del principio prescritto dall’art.
366, primo comma, n. 6 c.p.c. (Cass. 11 gennaio 2007, n. 324; Cass. 18
ottobre 2013, n. 23675; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430);
4.6. in ogni caso, questa Corte ha risolto la
questione relativa alla natura, se retributiva ovvero risarcitoria, dei crediti
che i lavoratori abbiano ingiunto in pagamento a T. I. s.p.a., a titolo di
emolumenti loro dovuti per effetto del mancato ripristino del rapporto da parte
della società predetta (nonostante l’ordine del Tribunale con la citata
sentenza di accertamento di illegittimità della cessione del ramo d’azienda)
con decorrenza dalla messa in mora da parte dei lavoratori medesimi, nel senso
della natura retributiva e non più risarcitoria (come invece secondo un
indirizzo precedente: Cass. 17 luglio 2008 n.
19740; Cass. 9 settembre 2014 n. 18955; Cass. 25 giugno 2018, n. 16694), sulla scorta
dell’insegnamento posto recentemente dalle Sezioni unite civili di questa Corte
(sentenza 7 febbraio 2018, n. 2990): con la conseguente indetraibilità di
quanto percepito dai lavoratori a titolo di retribuzione per l’attività
prestata alle dipendenze della predetta società, già cessionaria del ramo
d’azienda; sicché, essa ha ritenuto che, in caso di cessione di ramo d’azienda,
ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non
ricorrono i presupposti di cui all’art. 2112 c.c.,
il pagamento delle retribuzioni da parte del cessionario, che abbia utilizzato
la prestazione del lavoratore successivamente a detto accertamento ed alla
messa a disposizione delle energie lavorative in favore dell’alienante da parte
del lavoratore, non produca effetto estintivo, in tutto o in parte,
dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza
giustificazione, la controprestazione lavorativa (Cass.
3 luglio 2019, n. 17784; Cass. 7 agosto 2019,
n. 21158);
4.7. questa Corte ha pure chiarito “come
soltanto un legittimo trasferimento d’azienda comporti la continuità di un
rapporto di lavoro che resta unico ed immutato, nei suoi elementi oggettivi,
esclusivamente nella misura in cui ricorrano i presupposti di cui all’art. 2112 c.c. che, in deroga all’art. 1406 c.c., consente la sostituzione del
contraente senza consenso del ceduto”; essendo “evidente che
l’unicità del rapporto venga meno, qualora … il trasferimento sia dichiarato
invalido, stante l’instaurazione di un diverso e nuovo rapporto di lavoro con
il soggetto (già, e non più, cessionario) alle cui dipendenze il lavoratore
“continui” di fatto a lavorare”; e che “l’unicità del
rapporto presupponga la legittimità della vicenda traslativa regolata dall’art. 2112 c.c. Sicché, accertatane l’invalidità,
il rapporto con il destinatario della cessione è instaurato in via di mero
fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere
sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il cedente
(sebbene quiescente per l’illegittima cessione fino alla declaratoria
giudiziale)”. E pertanto, “il trasferimento del medesimo rapporto si
determina solo quando si perfeziona una fattispecie traslativa conforme al
modello legale; diversamente, nel caso di invalidità della cessione (per
mancanza dei requisiti richiesti dall’art. 2112
c.c.) e di inconfigurabilità di una cessione negoziale (per mancanza del
consenso della parte ceduta quale elemento costitutivo della cessione), quel
rapporto di lavoro non si trasferisce e resta nella titolarità dell’originario
cedente”. Ed è infine decisivo osservare come “a fronte di una
duplicità di rapporti (uno, de iure, ripristinato nei confronti dell’originario
datore di lavoro, tenuto alla corresponsione delle retribuzioni maturate dalla
costituzione in mora del lavoratore; l’altro, di fatto, nei confronti del
soggetto, già cessionario, effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa)
… accanto ad una prestazione materialmente resa in favore del soggetto con il
quale il lavoratore, illegittimamente trasferito con la cessione di ramo
d’azienda, abbia instaurato un rapporto di lavoro di fatto, ve ne sia un’altra
giuridicamente resa in favore dell’originario datore, con il quale il rapporto
di lavoro è stato de iure (anche se non de facto, per rifiuto ingiustificato
del predetto) ripristinato, non meno rilevante sul piano del diritto”. È
così indubbio che “al dipendente la retribuzione spetti tanto se la
prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, sia se il datore di lavoro
versi in una situazione di mora accipiendi nei suoi confronti (Cass. 23 novembre 2006, n. 24886; Cass. 23 luglio 2008, n. 20316)”; perché
“una volta offerta la prestazione lavorativa al datore di lavoro
giudizialmente dichiarato tale, il rifiuto di questi rende giuridicamente
equiparabile la messa a disposizione delle energie lavorative del dipendente
alla utilizzazione effettiva, con la conseguenza che il datore di lavoro ha
l’obbligo di pagare la controprestazione retributiva” (Cass. 3 luglio 2019, n. 17784, sub p.ti 6.2.,
6.3. in motivazione);
5. pertanto il ricorso deve essere rigettato, con la
compensazione delle spese del giudizio tra le parti, per la novità della
soluzione adottata dalla giurisprudenza di legittimità, in epoca successiva
alla proposizione del ricorso e raddoppio del contributo unificato, ove
spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle
indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535);
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e dichiara interamente compensate
le spese del giudizio tra le parti.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.p.r. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1
bis, dello stesso art. 13, se
dovuto.