Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 28 aprile 2020, n. 8264

Beneficio della decontribuzione ex art. 2 D.L. n. 67/1997, Premi
aziendali corrisposti in base al contratto aziendale, Condizione che i
contratti aziendali di secondo livello fossero depositati presso l’Ufficio del
lavoro, Interpretazione del contratto collettivo, Sindacato in sede di
legittimità, Violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale

 

Rilevato che

 

La Corte d’appello di Trento – Sezione staccata di
Bolzano, con la sentenza n. 13 del 2014, ha in parte confermato la sentenza del
Tribunale della stessa sede (resa in sede di opposizione a cartella intercorsa
tra INPS e SCCI s.p.a. e la Banca popolare dell’A.A. s.c.a.r.l ) che aveva, per
quanto qui ancora di interesse, ritenuto: a) non spettante il beneficio della
decontribuzione, ai sensi dell’art.
2 d.l. n. 67/1997, quanto ai premi aziendali corrisposti dalla Banca in base
al contratto aziendale del 30 maggio 1997 per le aree professionali non
dirigenziali, perché non depositato presso l’Ufficio Tutela Sociale del lavoro,
mentre sui premi corrisposti in base al contratto del 21 marzo 2002 tale
beneficio spettava solo dal 10 giugno 2003, epoca di deposito del contratto; b)
spettante integralmente il medesimo beneficio sui premi corrisposti in ragione
del contratto aziendale del 16 maggio 1997;

quanto, poi al personale dirigenziale: a) non
spettante alcun beneficio sulle somme erogate in ragione della delibera del
Consiglio di amministrazione del 14 maggio 2002 in quanto atto unilaterale; b)
non spettante alcun beneficio ex I. n. 67 del 1977 sui premi previsti dal
contratto aziendale del 10.3.2006, giacché, per l’esercizio 2005, l’accordo
risultava sottoscritto quando già era stato approvato il bilancio societario,
per cui difettavano i presupposti della natura incerta della erogazione e della
entità, al momento della pattuizione; infine, ritenuta infondata la pretesa di
ridurre le sanzioni ai soli interessi legali ex art.
116, comma 15, I. n. 338 del 2000, il Tribunale aveva rideterminato
l’importo dovuto in euro 593.506, 40; ad avviso della Corte d’appello, adita
dall’INPS in via principale e dalla Banca in via incidentale, ritenuto
inappellabile il capo della sentenza che aveva disatteso l’opposizione agli
atti esecutivi, il contenuto del d.l. n. 67 del
1997 e segnatamente dall’art.
2, comma 6, letto unitamente all’art. 12, terzo comma, non
poteva essere interpretato, come preteso dall’INPS, nel senso che la
decontribuzione fosse riconosciuta solo a condizione che tutti i contratti
aziendali di secondo livello fossero depositati presso l’Ufficio del lavoro, ma
solo quelli aventi ad oggetto la previsione di erogazioni delle quali erano
incerte la corresponsione e l’entità, che erano quelli citati dal primo comma
ed in tal senso deponeva anche il testo dell’art. 3, comma 1 e 2, d.l. n. 318 del
1996 conv. in I. n. 402 del 1996; inoltre,
non poteva dedursi da tale impianto normativo alcuna definitiva decadenza
scaturente dal tardivo deposito, come già ritenuto dal Tribunale ed in analogia
con quanto ritenuto dalla Corte di legittimità in tema di contratti di
riallineamento;

quanto, poi, alle doglianze mosse in relazione alla
contrattazione relativa all’area dirigenziale, la Corte territoriale,
accogliendo le doglianze dell’INPS appellante principale, ha ritenuto di
confermare la sentenza di primo grado in ordine alla fruizione della
decontribuzione quanto agli obblighi contributivi dovuti sino al mese di aprile
2002, mentre ha confermato l’obbligo di versamento integrale dei medesimi
contributi da maggio a dicembre 2002; in ordine, poi, alla contribuzione dovuta
per la contrattazione relativa all’area non dirigenziale, per la quale Inps e
SCCI ritenevano non fruibile la decontribuzione in ragione del mancato deposito
dei contratti di secondo livello, la sentenza ha rilevato che il contratto in
parola (21 marzo 2002) sarebbe in realtà meramente ricognitivo di pattuizioni
nazionali precedenti, per cui non doveva pretendersi il deposito e che non
rilevasse la scadenza indicata al 31 dicembre 2003, attesa la ultra attività di
clausole integrative della retribuzione nel caso in cui il datore di lavoro ne
continui l’applicazione; uguali considerazioni la Corte ha esposto avuto
riguardo all’ulteriore contratto del 10 marzo 2006, erroneamente ritenuto non
ad efficacia erga omnes e pure prevedente erogazioni incerte per corresponsione
ed ammontare ad eccezione delle previsioni relative all’anno 2005;

avverso tale sentenza, ricorre per cassazione la
Banca Popolare dell’A.A. s.c.a.r.l sulla base di un solo motivo;

resiste l’INPS, anche quale mandatario di SCCI
s.p.a., con controricorso; Equitalia A.A. – S. s.p.a., poi Agente della
Riscossione per le Province di Trento e Bolzano Equitalia Nord s.p.a. è rimasta
intimata;

 

Considerato che

 

è stato denunciato, ai sensi dell’art. 360, primo comma n. 3), cod.proc.civ., il
vizio di violazione e falsa applicazione dell’art. 2 d.l. n. 67 del 25 marzo 1997
conv. in I. n. 135 del 1997, poi abrogato dalla
legge n. 247 del 2007, il cui testo prevedeva
l’esclusione dalla base contributiva delle erogazioni retributive derivanti da
contratti di secondo livello; ciò con riferimento alla esclusione dall’obbligo
contributivo delle somme erogate in applicazione dell’accordo aziendale per
l’area non dirigenziale del 10 marzo 2006, che sarebbe stato erroneamente
ritenuto privo dei caratteri dell’incertezza nella corresponsione e
nell’ammontare;

in particolare, ad avviso della ricorrente,
l’accordo aveva solo mutato qualche parametro rispetto al precedente testo che,
quindi, non avendo mai perso efficacia, avrebbe consentito di mantenere il
diritto alla decontribuzione: il motivo è inammissibile;

va ricordato che questa Corte di cassazione (Cass.
26 settembre 2005, n. 18782; Cass. n. 640 del 2019) ha affermato il principio
del tutto consolidato secondo il quale le espressioni violazione o falsa
applicazione di legge, di cui all’art. 360, comma
1, n. 3 c.p.c., descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di
diritto: a) quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma
ritenuta regolatrice del caso concreto; b) quello afferente l’applicazione
della norma stessa una volta correttamente individuata ed interpretata. Il
vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto,
risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o
inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che
non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di
falsa applicazione di legge consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta
giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta
da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a
regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta,
conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione.
Non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360,
comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie
concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta
interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di
merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità;

il vizio così delineato non si correla, dunque, al
tipo di denuncia fatta valere nel caso di specie, posto che il motivo, ad onta
della sua intitolazione, non denuncia alcuna scorretta interpretazione dell’art. 2 d.l. n. 67 del 25 marzo 1997
conv. in I. n. 135 del 1997, ma una errata
interpretazione dei contratti aziendali richiamati da tale previsione;

il meccanismo di legge che si assume essere stato
violato, prevede(va) (d.l. n. 67/1997) un
regime di automatica e totale esclusione dalla retribuzione imponibile a fini
previdenziali delle erogazioni, disposte dai contratti decentrati, di cui fosse
incerta «la corresponsione o l’ammontare e la cui struttura […] [fosse]
correlata […] alla misurazione di incrementi di produttività, qualità ed
altri elementi di competitività assunti come indicatori dell’andamento
economico dell’impresa e dei suoi risultati» (art. 2); la disposizione
impone(va) la presenza di un’alea legata alla attribuzione del premio,
delegando alla contrattazione collettiva il compito di individuare nel concreto
i citati parametri;

da quanto sin qui esposto, emerge anche che la
denuncia di erronea interpretazione del contenuto dei contratto collettivo
aziendale, individuata nel mancato riconoscimento della irrilevanza delle
modifiche apportate nell’anno 2006 alla disciplina della corresponsione del
premio di risultato risalente al precedente accordo del 2002, andava
necessariamente veicolata nel giudizio di cassazione attraverso la denuncia di
violazione delle regole del codice civile in materia di interpretazione dei
contratti e cioè degli artt. 1362 e ss. cod.civ.
e cioè facendo valere l’errata applicazione dei criteri legali di
interpretazione del contratto;

il sindacato di legittimità su tali contratti, ai
sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, per
violazione delle norme di cui agli artt. 1362 e
segg. c.c., può promuoversi a condizione, peraltro, che i motivi di ricorso
non si limitino a contrapporre una diversa interpretazione rispetto a quella
del provvedimento gravato, ma prospettino, sotto molteplici profili,
l’inadeguatezza della motivazione anche con riferimento alle norme del codice
civile di ermeneutica negoziale come canone esterno di commisurazione
dell’esattezza e congruità della motivazione stessa (Cass. n. 21888 del 28 ottobre 2016);

infatti, l’interpretazione del contratto può essere
sindacata in sede di legittimità solo nel caso di violazione delle regole
legali di ermeneutica contrattuale, la quale non può dirsi esistente sul
semplice rilievo che il giudice di merito abbia scelto una piuttosto che
un’altra tra le molteplici interpretazioni del testo negoziale, sicché, quando
di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito
alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi
in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (Cass.
n. 11254 del 10/05/2018; n. 4178 del 2007; n. 2560 del 2007);

in definitiva, il motivo di ricorso è inammissibile
giacché, mediante la deduzione di un vizio violazione di legge inidoneo ad
incidere sulla struttura logica e giuridica della sentenza impugnata, è rivolto
a provocare una interpretazione della contrattazione aziendale semplicemente
diversa da quella adottata dalla sentenza stessa;

le spese seguono la soccombenza nella misura
liquidata in dispositivo;

 

P.Q.M.

 

Dichiara il ricorso inammissibile; condanna la
ricorrente al pagamento, in favore del contro ricorrente, delle spese del
giudizio di legittimità, che liquida in Euro 11.000,00 per compensi, oltre ad
Euro 200,00 per esborsi, spese forfetarie nella misura del 15% e spese
accessorie di legge.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n.
115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13,
ove dovuto.

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