Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 maggio 2020, n. 8621
Licenziamento per giusta causa, Omesso informazione ai propri
superiori gerarchici, Colpa lieve, Previsioni disciplinari della
contrattazione collettiva, Scala valoriale recepita nel CCNL, costituente uno
dei parametri
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Roma, in riforma della
pronuncia del Tribunale della medesima sede, ex art. 1, comma 57, della legge n. 92
del 2012, ha – con sentenza n. 3126 del 18.7.2018 – respinto la domanda di
annullamento del licenziamento per giusta causa intimato con lettera del
31.8.2016 da U.I.M. s.r.l. a E.M., Responsabile del reparto “magazzino
freddo” composto da 24 operai, per aver omesso di informare i propri
superiori gerarchici nonché il Responsabile del Servizio di Prevenzione e
Protezione della sistematica manomissione, da parte dei carrellisti dallo
stesso coordinati, dei dispositivi di rallentamento di velocità dei carrelli
(c.d. sistema tartaruga, divenuto operativo dal 25.3.2016), manomissione
accertata a seguito di un incidente avvenuto in azienda il 13.7.2016.
2. La Corte distrettuale, ritenute provate la
consapevolezza del M. delle manomissioni effettuate dai carrellisti al sistema
di sicurezza dei carrelli e l’omessa informazione del superiore gerarchico e
del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione nonché considerati il
ruolo di responsabilità rivestito e le conseguenze (quali incidenti di carrelli
con conseguente grave pericolo alla incolumità degli operai) derivanti dalla
disattivazione del suddetto sistema, ha escluso la riconducibilità della
condotta nell’ambito delle infrazioni punite, dall’art. 69 del c.c.n.I.
Industria Alimentare, con sanzione conservativa, non ricorrendo una mera colpa
lieve ossia una mancata “tempestiva” informazione del superiore della
esistenza di guasti o irregolarità di funzionamento (da ritenersi isolati,
fortuiti ed occasionali nell’intenzione delle parti sociali) bensì una mancata
comunicazione di plurime e sistematiche manomissioni di un sistema di sicurezza
introdotto per salvaguardare l’incolumità dei lavoratori.
3. Per la cassazione di tale sentenza E.M. ha
proposto ricorso affidato a quattro motivi. La società resiste con
controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denunzia
violazione e falsa applicazione degli artt. 69 e 70 del c.c.n.I. settore
Industria Alimentare, 2119 cod.civ., 1362, 1363, 1364, 1366, 1367, 1369 cod.civ.
(in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3,
cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, erroneamente interpretato le
clausole negoziali le quali riservano esclusivamente una sanzione conservativa
alla condotta di omesso avvertimento della “evidente irregolarità” di
un macchinario, a prescindere dalla natura del dispositivo del macchinario
(rilevante ai fini produttivi ovvero deputato a garantire il rispetto delle
norme di sicurezza) e dalla ricorrenza di una colpa lieve o di una colpa grave
o di un ruolo di responsabilità nel reparto (in tal caso potendo, semmai,
adottarsi una misura più severa ma sempre nell’ambito delle sanzioni
conservative). Erroneamente la Corte distrettuale ha sussunto la fattispecie
nell’art. 70 del c.c.n.I.
potendo essere punito con sanzione espulsiva solamente la manomissione di
dispositivi infortunistici (condotta, attiva, distinta dalla mera omessa
informativa di un evidente malfunzionamento) ed ha surrettizziamente
valorizzato la recidiva.
2. Con il secondo motivo il ricorrente denunzia
omessa disamina di un fatto decisivo oggetto di discussione (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ.)
avendo, la Corte distrettuale, erroneamente ritenuto provata la consapevolezza
del M. di sistematiche manomissioni ai dispositivi di rallentamento pur non
sussistendo alcuna evidenza istruttoria e, anzi, dimostrando – la lettura
integrale della lettera di giustificazioni resa dal lavoratore all’azienda
nonché le dichiarazioni rese dal sig. C. – che la mancata informazione del
malfunzionamento era dipesa da “usure normali” dei macchinari e non
da manomissioni.
3. Con il terzo motivo il ricorrente denunzia
violazione e falsa applicazione degli artt. 1318
e 2118 cod.civ., 3
Cost. (in relazione all’art. 360, primo comma,
n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, disatteso il principio
giurisprudenziale consolidato di divieto di sanzionare in maniera differente
condotte identiche (con riferimento al collega di lavoro Imperato, addetto alla
manutenzione ed al controllo tecnico dei carrelli).
4. Con il quarto motivo il ricorrente denunzia
violazione e falsa applicazione dell’art. 2119
cod.civ. (in relazione all’art. 360, primo
comma, n. 3, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale posto scarsa
attenzione a determinanti elementi quali il ruolo del ricorrente (responsabile
di cella e non responsabile tecnico dei carrelli), le modalità dell’incidente
avvenuto il 13.7.2016 (dovuto al contegno negligente dei carrellisti e non alla
omessa informativa del malfunzionamento da parte del M.), il requisito
soggettivo (colposo), la mancanza di provvedimenti disciplinari prima del
giugno 2015 e gli attestati di stima ricevuti durante la carriera
professionale.
5. Il primo ed il quarto motivo di ricorso – che
possono trattarsi congiuntamente per motivi di stretta connessione – non sono
fondati.
5.1. In proposito vale richiamare la trama
argomentativa contenuta in un recente arresto di questa Corte che ha analizzato
funditus i rapporti tra licenziamento e previsioni disciplinari della
contrattazione collettiva (Cass. n. 12365 del 2019;
nello stesso senso v. Cass. n. 14247 del 2019; Cass. n. 14248 del 2019; Cass. n. 14500 del 2019; Cass. n. 14604 del 2019;
conformi anche Cass. n. 19578 del 2019; Cass. n. 21628 del 2019; Cass. n. 31839 del 2019).
Avuto riguardo alle previsioni della contrattazione
collettiva che graduano le sanzioni disciplinari, essendo quella della giusta
causa e del giustificato motivo una nozione legale, si è più volte espresso il
generale principio che tali previsioni non vincolano il giudice di merito (ex
plurimis, Cass. n. 8718 del 2017; Cass. n. 9223
del 2015; Cass. n. 13353 del 2011).
Tuttavia “la scala valoriale ivi recepita deve
costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di
contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c.”
(Cass. n. 9396 del 2018; Cass. n. 28492 del
2018; principio ribadito da Cass. n. 14062 del 2019; Cass. n. 14063 del 2019; v. anche Cass. n. 13865 del 2019), considerato altresì che
la L. n. 183 del 2010, art. 30,
comma 3, ha previsto che “nel valutare le motivazioni poste a base del
licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di
giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro” (cfr. Cass. n. 32500 del 2018; circa la natura non
meramente ricognitiva delle disposizioni contenute nella L. n. 183 del 2010, art. 30, v.
anche Cass. n. 25201 del 2016).
Il principio generale subisce eccezione ove la previsione
negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante
solamente una sanzione conservativa: in tal caso il giudice è vincolato dal
contratto collettivo, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta
espressamente salva dal legislatore (L. n. 604 del 1966, art. 12).
Pertanto, ove alla mancanza sia ricollegata una
sanzione conservativa, il giudice non può estendere il catalogo delle giuste
cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito
dall’autonomia delle parti (cfr., in particolare, Cass.
n. 15058 del 2015; Cass. n. 4546 del 2013;
Cass. n. 13353 del 2011; Cass. n. 1173 del
1996; Cass. n. 19053 del 1995), a meno che non si accerti che le parti stesse
“non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la
possibilità di una sanzione espulsiva”, dovendosi attribuire prevalenza
alla valutazione di gravità di quel peculiare comportamento, come illecito
disciplinare di grado inferiore, compiuta dall’autonomia collettiva nella
graduazione delle mancanze disciplinari (cfr. ex multis Cass. n. 1173 del 1996;
Cass. n. 14555 del 2000; Cass. n. 6165 del 2016; Cass. n. 11860 del 2016; Cass. n. 17337 del 2016).
5.2. In ordine, poi, ai criteri di interpretazione
di un contratto collettivo, questa Corte ha già affermato che, in
considerazione della sua natura privatistica, vanno applicate le disposizioni
dettate dagli artt. 1362 c.c. e segg..
Coerentemente è stato da gran tempo escluso il ricorso all’applicazione
analogica (Cass. n. 7519 del 1983; Cass. n. 5726 del 1985; Cass. n. 6524 del
1988), “atteso che anche nel contratto collettivo le disposizioni in esso
contenute conservano pur sempre la loro originaria natura contrattuale e non
consentono conseguentemente il ricorso all’analogia, che è un procedimento di
integrazione ermeneutica consentito, ex art. 12
preleggi, con esclusivo riferimento agli atti aventi forza o valore di
legge” (in termini, Cass., n. 30420 del 2017).
Con riferimento all’interpretazione estensiva, essa
è, in linea generale, consentita ai sensi dell’art.
1365 c.c., per estendere un patto relativo ad un caso ad un altro caso non
espressamente contemplato dalle parti. In proposito è stato di recente
precisato (Cass. n. 9560 del 2017) che la norma da ultimo citata consente
l’interpretazione estensiva di clausole contrattuali solo ove risulti
l'”inadeguatezza per difetto” dell’espressione letterale adottata
dalle parti rispetto alla loro volontà, inadeguatezza tradottasi in un
contenuto carente rispetto all’intenzione. In tale ipotesi, l’interprete deve
tener presenti le conseguenze normali volute dalle parti stesse con l’elencazione
esemplificativa dei casi menzionati e verificare se sia possibile ricomprendere
nella previsione contrattuale ipotesi non contemplate nell’esemplificazione,
attenendosi, nel compimento di tale operazione ermeneutica, al criterio di
ragionevolezza imposto dalla medesima norma. E’ evidente che la suddetta
verifica deve essere eseguita dall’interprete con particolare severità in un
contesto, come quello in esame, nel quale trova applicazione il principio
generale secondo cui una norma che preveda una eccezione rispetto alla regola
generale deve essere interpretata restrittivamente. Ne consegue che in siffatta
ipotesi l’interpretazione non può estendersi oltre i casi in cui il plus di
significato, che si intenda attribuire alla norma interpretata, non riduca la
portata della norma costituente la regola con l’introduzione di nuove eccezioni
(cfr., in materia di rapporto regola-eccezione e della necessità di stretta
interpretazione di queste ultime e dell’esclusione di qualunque integrazione di
tipo analogico o estensivo, Cass. S. U. n. 24772
del 2008 in materia di mandato senza rappresentanza; Cass. n. 13875 del 2010 in tema di patrocinio a
spese dello Stato; Cass. n. 8379 del 2018 in
materia di forma dei contratti collettivi; Cass. n. 20188 del 2017, che rinvia
altresì a Cass. n. 9205 del 1999, in materia di successione e di diritto
d’autore).
Pertanto solo ove il fatto contestato e accertato
sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante
per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile
con sanzione conservativa, il licenziamento sarà illegittimo (ed anche
meritevole della tutela reintegratoria prevista dell’art. 18, comma 4, novellato dalla L. n. 92 del
2012).
5.3. Tanto premesso in diritto è conforme ai
principi richiamati l’operato della Corte territoriale che ha esplicitamente
scrutinato l’art. 69, comma 2,
del CCNL applicabile al rapporto e che prevede (tra le varie ipotesi
esemplificative) una sanzione conservativa per colui che “4. arrechi per
disattenzione anche lievi danni alle macchine, agli impianti o ai materiali di
lavorazione o che ometta di avvertire tempestivamente il suo superiore diretto
di eventuali guasti al macchinario in genere o della evidente irregolarità
dell’andamento del macchinario stesso;”.
La Corte di Appello ha ritenuto di escludere la
sussunzione della condotta posta in essere dal M. nella tipizzazione effettuata
dalle parti sociali in quanto ha ritenuto ricorrenti elementi (quali la plurima
e sistematica manomissione di sistemi di sicurezza) non riconducibili al tenore
letterale ed esegetico della disposizione che – avuto riguardo all’uso
dell’avverbio “tempestivamente” – fa chiaro riferimento ad ipotesi di
irregolarità di funzionamento “fortuiti ed occasionali”, ad una
mancata rapida e sollecita informazione “di un (isolato) eventuale guasto
o irregolarità, di un evento che può verificarsi normalmente nel funzionamento
del macchinario e che esige un pronto intervento di riparazione”. La
ricostruzione ermeneutica effettuata dalla Corte distrettuale, svolta – per
esigenze sistematiche – anche mediante comparazione delle due ipotesi racchiuse
nel medesimo alinea al fine di verificare la necessità della ricorrenza di un
lieve elemento intenzionale colposo, risulta rispettosa di tutti i canoni
interpretativi dettati dall’ordinamento civile ed è conforme ai criteri di
interpretazione dei contratti collettivi anche recentemente ribaditi da questa
Corte, con particolare riguardo ad una ragionevole interpretazione attenta a
cogliere l’eventuale “inadeguatezza per difetto” dell’espressione lessicale
utilizzata dalle parti sociali, inadeguatezza che, nel caso di specie, non
ricorre posto che le parti sociali hanno precisato che “normalmente”,
in prima battuta, va applicata una sanzione conservativa (eventualmente quella
più rigorosa della multa o della sospensione in caso di “maggiore
gravità”), ma hanno altresì previsto che “per le mancanze più
gravi” si applica il licenziamento per giusta causa (art. 70).
Il tenore letterale dell’art. 69, n. 4, del c.c.nl.
Industria Alimentare fa chiaramente intendere che la clausola è rivolta a
sanzionare comportamenti di negligenza posti in essere dagli operai e, con
particolare riferimento al secondo periodo, dagli addetti ai macchinari nei
riguardi della strumentazione utilizzata; fra i destinatari della clausola
disciplinare non può, pertanto, essere ricompreso colui che deve ricevere la
segnalazione di guasto, ossia il Responsabile del settore.
Correttamente, poi, la Corte distrettuale, esclusa
la coincidenza della condotta tenuta dal M. con l’ipotesi tipizzata dal
c.c.n.I. nell’ambito delle sanzioni conservative, è ricorsa alla scala
valoriale espressa dalle parti sociali per riempire di significato la clausola
generale dettata dall’art. 2119 cod.civ.,
ritenendo che l’omessa comunicazione (al superiore gerarchico o al Responsabile
del Servizio di Prevenzione e Protezione) della sistematica manomissione dei
dispositivi di rallentamento di velocità dei carrelli presentasse lo stesso
grave disvalore dell’ipotesi esemplificata nel c.c.n.I. di “danneggiamento
volontario o messa fuori opera di dispositivi antinfortunistici”, punito
con il licenziamento senza preavviso.
Nell’effettuare la verifica di “particolare
gravità” della condotta i giudici d’appello hanno aggiunto che “Deve,
quindi, ritenersi che il comportamento del M. posto a base del licenziamento
sia di una gravità tale sia per il ruolo rivestito dallo stesso e per le sue
mansioni di Responsabile del coordinamento degli addetti al reparto (quindi,
anche dei carrellisti) e del loro operato, sia per le conseguenze che potevano
derivare (ed in effetti sono derivate) dalla disattivazione del sistema di
rallentamento del carrello a forche alzate sulla sicurezza dei lavoratori, da
configurare un grave inadempimento ai propri obblighi contrattuali e idoneo a
ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario che deve legare necessariamente
il datore di lavoro ed, in particolare, la fiducia del primo sulla correttezza
dei futuri adempimenti del secondo”.
Trattasi di argomentazione plausibile, commisurata a
tutte le circostanze del caso concreto che compete al giudice del merito
apprezzare e che è sottratta al controllo di legittimità, per cui la diversa
opinione della parte soccombente non è idonea a determinare la cassazione della
sentenza impugnata.
6. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
L’interpretazione di questa Corte (da ultimo, Cass.
n. 27415 del 2018) ha chiarito come l’art. 360,
primo comma, n. 5, cod.proc.civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n.
83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134,
abbia introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per
Cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o
secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti
processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia
carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito
diverso della controversia).
Pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non
integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il
fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione
dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze
probatorie (Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053).
Costituisce, pertanto, un “fatto”, agli effetti dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod.proc.civ., non una
“questione” o un “punto”, ma un vero e proprio
“fatto”, in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero
una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio
fenomenico rilevante (Cass. Sez. 1, 04/04/2014, n. 7983; Cass. Sez. 1, 08/09/2016, n. 17761; Cass. Sez. 5, 13/12/2017, n. 29883; Cass. Sez. 5,
08/10/2014, n. 21152; Cass. Sez. U., 23/03/2015, n. 5745; Cass. Sez. 1,
5/03/2014, n. 5133).
Non costituiscono, viceversa, “fatti”, il
cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art.
360, comma 1, n. 5, cod.proc.civ., le argomentazioni o deduzioni difensive
(Cass. Sez. 2, 14/06/2017, n. 14802: Cass. Sez. 5, 08/10/2014, n. 21152); gli
elementi istruttori; una moltitudine di fatti e circostanze, o il “vario
insieme dei materiali di causa” (Cass. Sez. L, 21/10/2015, n. 21439).
E’ quindi inammissibile l’invocazione del vizio di
cui all’art. 360 n. 5 cod.proc.civ. per
sostenere il mancato esame di deduzioni istruttorie, di documenti, di eccezioni
di nullità della sentenza non definitiva e degli atti conseguenti, di critiche
rivolte agli elaborati peritali (ovvero di semplici allegazioni difensive a
contenuto tecnico), o della “non contestazione dell’avvenuta
usucapione” (un fatto che non sia stato “oggetto di discussione tra
le parti” è, d’altro canto, fuori dall’ambito dell’art. 360 n. 5 cod.proc.civ. per sua stessa
definizione), o per lamentarsi di una “motivazione non corretta”.
7. Il terzo motivo di ricorso è infondato.
La statuizione di questa Corte richiamata dal
ricorrente ha affermato che “L’asserita inesistenza di un obbligo
dell’imprenditore di attribuire ai dipendenti, versanti nella medesima
situazione di fatto, lo stesso trattamento economico e normativo, non esclude
che il licenziamento non ad nutum debba essere motivato in modo completo e
coerente e che un’incoerenza possa essere ravvisata, con conseguente
illegittimità del licenziamento, dal Giudice di merito nell’essere stata
inflitta sanzione conservativa ad altri dipendenti per il medesimo illecito
disciplinare senza specifiche ragioni di diversificazione, ciò che ne esclude
una gravità tale da giustificare la sanzione espulsiva” Cass. n. 23107 del 2008).
Ha, inoltre, affermato questa Corte, sempre in
materia di limiti alla discrezionalità del datore di lavoro e con riferimento
alla complessiva valutazione della gravità della condotta posta a base del
licenziamento, nell’ipotesi di irrogazione di sanzioni disciplinari differenti
a più lavoratori responsabili della medesima condotta, che ai fini della
sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento,
qualora risulti accertato che l’inadempimento del lavoratore licenziato sia
stato tale da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, è di
regola irrilevante che un’analoga inadempienza, commessa da altro dipendente,
sia stata diversamente valutata dal datore di lavoro; nondimeno, l’identità
delle situazioni riscontrate può essere valorizzata dal giudice per verificare
la proporzionalità della sanzione adottata, privando, così, il provvedimento
espulsivo della sua base giustificativa (Cass. n.
5546 del 2010; Cass. n. 10550 del 2013; Cass. n. 10640 del 2017).
Ebbene, la Corte distrettuale ha rilevato che, pur
volendo ritenere che “la condotta addebitata al Responsabile officina sia
poi consistita effettivamente nell’omessa informazione delle manomissioni e sia
la stessa”, non sussisteva identità delle infrazioni commesse, in
considerazione della diversità dei ruoli dei due dipendenti, dell’elemento
soggettivo e della esistenza di precedenti inadempienze, risultando, inoltre,
che il suddetto Responsabile aveva informato il M., Responsabile del reparto,
che i carrelli erano manomessi.
Nel caso di specie, dunque, non risulta l’identità
dei fatti contestati, rispettivamente, ai due lavoratori e, inoltre, la Corte
distrettuale ha – come già evidenziato – ampiamente argomentato sul profilo di
gravità del fatto che giustificava l’adozione della sanzione espulsiva.
8. In conclusione, il ricorso va rigettato e le
spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.
9. Sussistono i presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato previsto dal d.P.R.
30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1,
comma 17 (legge di stabilità 2013) pari a quello – ove dovuto – per il
ricorso, a norma del comma 1-bis
dello stesso art. 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare
le spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 200,00 per
esborsi e in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al
15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 20012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo
a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13,
se dovuto.