Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 maggio 2020, n. 8803

Licenziamento per giusta causa, Tardività della contestazione
dell’illecito disciplinare, Applicazione di uno sconto, ritenuto dall’azienda
troppo elevato, Plausibile affidamento che la lavoratrice poteva riporre sulla
correttezza delle proprie condotte di servizio

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza in data 22 maggio 2018, la Corte
d’Appello di Milano, in riforma della decisione resa in sede di opposizione
avverso l’ordinanza che aveva respinto la domanda di tutela ex art. 18 L. 300/70 avanzata da
A.G. ha escluso la sussistenza della giusta causa in relazione al licenziamento
intimato alla lavoratrice per giusta causa il 23 maggio 2016 dalla L.I. s.r.l.
sulla base della contestazione del 31 marzo 2016 avente ad oggetto due illeciti
disciplinari, verificatisi 
rispettivamente il 4 gennaio ed il 15 marzo antecedenti, dichiarando
risolto il rapporto di lavoro e 
condannando la società reclamata a corrispondere alla reclamante una
indennità risarcitoria.

1.1. In particolare, la Corte d’appello ha ritenuto
la tardività della contestazione in ordine al primo dei fatti addebitati,
accaduto in data 4 gennaio, concernente l’abbassamento del prezzo di vendita di
un prodotto, e reputato l’inidoneità dello stesso a configurarsi come illecito
disciplinarmente rilevante, in quanto da considerarsi tamquam non esset proprio
alla luce della tardività della contestazione; ha, quindi, escluso, in ordine al
secondo fatto ascritto, verificatosi il 15 marzo ed inerente l’applicazione di
uno sconto, ritenuto dall’azienda troppo elevato – apposto ad alcuni prodotti
alimentari dalla dipendente poi acquistati, con un risparmio di spesa 15,39
euro – che potesse riscontrarsi una fattispecie trasgressiva tale da
legittimare il recesso per giusta causa.

2. Per effetto dell’accoglimento dell’impugnazione
il giudice di secondo grado ha, quindi, dichiarato risolto il rapporto
lavorativo fra le parti alla data del 23 maggio 2016 ai sensi dell’art. 18 comma 5 della legge
300/70 e condannato la società reclamata a corrispondere alla lavoratrice
una indennità risarcitoria corrispondente all’importo di quindici mensilità della
retribuzione globale di fatto, oltre rivalutazione monetaria ed interessi
legali dalla data del recesso al saldo.

3. Avverso tale pronunzia propone ricorso la L.
S.r.l., affidandolo a cinque motivi.

3.1. Resiste, con controricorso, A.G..

 

Considerato in diritto

 

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce, ai
sensi dell’art. 360 n. 3 e n. 5 cod. proc. civ.,
la violazione e falsa applicazione dell’art. 7, L. n. 300/70, in
relazione all’art. 2119 cod. civ., per avere la
Corte d’appello ritenuto tardiva la contestazione relativamente al primo
episodio ascritto alla dipendente e, pertanto, da reputarsi lo stesso come
“tamquam non esset”senza aver considerato la relatività del requisito
della tempestività della contestazione e l’assenza di profili lesivi per la
difesa della dipendente.

1.1. Con il secondo motivo di ricorso si deduce la
violazione degli artt. 360 comma 1 n. 3, 2106 e 2119 cod. civ.,
115 e 116 cod.
proc. civ., 220, 225, 229 CCNL terziario là dove la
Corte ha ritenuto la sanzione espulsiva eccessiva rispetto all’infrazione
commessa, tradottasi in una “locupletazione in termini di puro e semplice
risparmio” avendo la dipendente praticato uno sconto sul bene alimentare
considerato e poi proceduto ad acquistarlo personalmente ed avendo i giudici di
secondo grado ritenuto che la locupletazione medesima aveva “rappresentato
un risvolto puramente consequenziale dell’operazione degli sconti, risvolto che
la datrice di lavoro non aveva contestato pur potendolo fare”.

1.2. Con il terzo motivo, si censura la sentenza
impugnata nella parte in cui ha ritenuto possibile che sussistesse una prassi
che autorizzava i singoli operatori a praticare la determinazione dei ribassi
facendo riferimento alle indicazioni emesse di volta in volta dal Capo Area,
deducendosi la violazione degli artt. 360 comma
1 n.3, 115 e 116
cod. proc. civ. in relazione agli artt. 2119,
220, 225 e 229 CCNL.

1.3. Con il quarto motivo si deduce la violazione
degli artt. 360 comma 1 n.3, 115 e 116 cod. proc.
civ. in relazione agli artt. 2119, 220, 225 e 229 CCNL per aver la Corte
ritenuto riscontrabile nel caso di specie unicamente una negligente o non
accorta “modalità operativa per via di un non scrupoloso riscontro di
quanto prescritto dalle apposite fonti aziendali e tradottosi in una deviazione
probabilmente indotta da un non esatto allineamento con le indicazioni
impartite dal Capo Area omettendo, altresì, di considerare che il combinato
disposto dell’art. 220,
comma 1, CCNL secondo cui il lavoratore deve tenere una condotta conforme ai
“civici doveri”, dell’art.
220, comma 2, secondo cui “il lavoratore ha l’obbligo di conservare
diligentemente le merci e i materiali, di cooperare alla prosperità
dell’impresa” e dell’art.
225 che prevede il licenziamento in tronco per grave violazione degli
obblighi di cui all’art. 220,
I e II comma, sanziona una condotta come quella della G. del tutto difforme
rispetto agli obblighi di correttezza e buona fede, configurandosi, altresì,
una “appropriazione nel luogo di lavoro di beni aziendali o di terzi”
che determina, ai sensi dell’art.
229 del CCNL il licenziamento per giusta causa.

1.4. Con il quinto motivo si allega, infine, la
violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cod.
civ., nonché degli artt.
220, 225 e 229 CCNL in relazione al capo
della sentenza nel quale la Corte d’Appello ha ritenuto che la condotta tenuta
dalla lavoratrice fosse suscettibile di un approccio disciplinare più tenue di
quello seguito dalla datrice di lavoro.

2. Il primo motivo è fondato e deve essere accolto.

2.1. Ha osservato la Corte, riguardo all’illecito
disciplinare cronologicamente antecedente, che l’accadimento ascritto,
consistente nell’abbassamento del prezzo di capi di biancheria femminile,
precedentemente scorporati dalle confezioni che ne includevano più di una unità
ciascuna, attività reputata dall’Azienda contraria rispetto alla codificata
disciplina della scontistica, era avvenuto in data 4 gennaio 2016, era stato
segnalato mediante rapporto da un addetto alle vendite il 12 gennaio 2016 ma
poi contestato soltanto unitamente all’altro accadimento – relativo a sconti praticati
su beni alimentari – avvenuto in data 15 marzo, in tal modo ledendo il
principio di immediatezza della contestazione.

2.2. Il ritardo, ad avviso dei giudici di secondo
grado, doveva ritenersi aver cagionato una eccessiva diluizione del lasso temporale,
che finiva per “sacrificare soprattutto il plausibile affidamento che la
lavoratrice poteva riporre sulla correttezza delle proprie condotte di
servizio” alla luce, peraltro, dell’assenza di qualsivoglia allegazione,
da parte della datrice, circa una intempestiva acquisizione della notizia del
fatto da cui sarebbe potuta discendere una posticipazione della iniziativa
disciplinare. Tale ritardata contestazione, ad avviso della Corte territoriale,
rendeva il fatto inidoneo a costituire un accadimento disciplinarmente
rilevante – tanto da reputarlo “tamquam non esset” – ed imponeva,
quindi, di espungere ogni considerazione da esso estrapolabile dalla
contestazione.

3. Secondo il Collegio, non esaminando in alcun modo
il primo fatto contestato, al punto da considerarlo inesistente, il giudice di
secondo grado non si è allineato al consolidato orientamento di questa Corte in
base al quale i fatti non tempestivamente contestati possono esser considerati
quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti
(tempestivamente contestati) ai fini della valutazione della complessiva
gravità, anche sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del dipendente
e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio
dell’imprenditore, secondo un giudizio che deve essere riferito al concreto
rapporto di lavoro e al grado di affidamento richiesto dalle specifiche
mansioni (Cass. n. 22322 del 2016; Cass. n. 14453 del 2017).

Come è stato osservato in sede di legittimità,
“sotto tale profilo, può tenersi conto anche di precedenti disciplinari
risalenti ad oltre due anni prima del licenziamento, non ostando a tale
valutazione il principio di cui all’art. 7 ultimo comma legge n. 300
del 1970” (Cass. n. 11410/1993; nello stesso senso, Cass. 6523/1996;
Cass. n. 1894/1998; Cass. n. 1925/1998; Cass. n. 5044/1999; Cass. n. 7734/2003; Cass.
n. 21795/2009; Cass. n. 1145/2011; Cass. n. 14453/2017).

3.1. E’ al riguardo giurisprudenza ormai pacifica
che può tenersi conto dei fatti storici addebitabili al lavoratore al fine di
accertare la precisa natura e consistenza del fatto immediatamente da valutare
in rapporto al provvedimento di licenziamento adottato dal datore di lavoro (Cass. n. 14453/2017 cit).

Questa Corte ha, in particolare, osservato che il
principio dell’immutabilità della contestazione dell’addebito disciplinare
mosso al lavoratore ai sensi dell’art. 7 dello statuto
lavoratori preclude al datore di lavoro di licenziare per altri motivi, diversi
da quelli contestati, ma non vieta di considerare fatti non contestati e
situati a distanza anche superiore ai due anni dal recesso, quali circostanze
confermative della significatività di altri addebiti posti a base del
licenziamento, al fine della valutazione della complessiva gravità, sotto il
profilo psicologico, delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità
o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio del datore di lavoro (Cass. n. 1145 del 19/01/2011; Cass. n. 21795 del 14/10/2009, Cass. n. 6523 del
20/07/1996).

In argomento, già Cass. n. 412/1990, precisava che
non è preclusa al giudice la valutazione di pregressi comportamenti del
lavoratore, i quali non configurino autonome o concorrenti ragioni di recesso,
ma rappresentino soltanto circostanze meramente confermative – sotto il profilo
psicologico e con riguardo alla personalità del lavoratore – della gravità
dell’addebito contestato e dell’adeguatezza del provvedimento sanzionatorio.

Le considerazioni anzidette operano anche nel caso
in cui i comportamenti disciplinarmente rilevanti siano stati contestati non
subito dopo il loro verificarsi ma in ritardo ed anche quando la loro
contestazione sia avvenuta solo unitamente al fatto ultimo da sanzionare (Cass.
n. 11410/93 cit.; Cass. n. 3835/1981).

In particolare, è stato ritenuto che i requisiti
della immediatezza e tempestività condizionanti la validità del licenziamento
per giusta causa sono compatibili con un intervallo temporaneo, quando il
comportamento del lavoratore consti di una serie di fatti che, convergendo a
comporre un’unica condotta, esigono una valutazione globale ed unitaria da
parte del datore di lavoro (Cass. n. 4150/1986; in terminis, Cass. n.
4346/1987).

4. Nel caso di specie, nel quale il primo fatto
ascritto, della medesima natura del secondo, è stato contestato soltanto
unitamente a quest’ultimo e trascorsi circa due mesi dall’accadimento, ritiene
il Collegio che non possa non riaffermarsi il principio enunciato nella
sentenza di questa Corte n. 1762/1988 e poi confermato nelle pronunzie sopra
richiamate, secondo cui in tema di licenziamento, il principio
dell’immediatezza della contestazione dell’addebito va intesa in senso relativo
– essendo compatibile con un certo intervallo di tempo necessario al datore di
lavoro per una valutazione unitaria delle varie inadempienze del dipendente – e
non esclude, comunque, che fatti non tempestivamente contestati possano essere
considerati quali circostanze confermative della significatività di altri
addebiti (tempestivamente contestati) ai fini della valutazione della
complessiva gravità, anche sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del
dipendente e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento
sanzionatorio dell’imprenditore, secondo un giudizio che deve essere riferito
al concreto rapporto di lavoro ed al grado di affidamento richiesto dalle
specifiche mansioni (Cass. n. 14453/2017
cit.).

4.1. Tale valutazione della complessiva gravità di
entrambe le infrazioni addebitate e, con essa, della proporzionalità del
provvedimento sanzionatorio irrogato non è stata compiuta dalla Corte
d’appello, la quale, reputando irrilevante il primo accadimento, si è limitata
ad analizzare la rilevanza del secondo escludendo che lo stesso potesse ledere
in misura determinante il rapporto fiduciario, ai fini del licenziamento per
giusta causa, intercorrente fra le parti.

E’ questa, quindi, la verifica fattuale che dovrà
essere compiuta in sede di rinvio, ove dovrà rivalutarsi complessivamente la
fattispecie anche alla luce del principio di relatività della immediatezza
della contestazione.

4.2. La sentenza va, quindi, cassata in relazione al
motivo accolto, dovendo reputarsi gli altri – inerenti tutti alla seconda
infrazione – assorbiti e la causa rinviata alla Corte d’Appello di Milano, in
diversa composizione, che dovrà verificare se, in base ad una valutazione
complessiva di entrambe le condotte e delle correlative infrazioni ascritte
alla dipendente, possa comunque escludersi la sussistenza della irreversibile
lesione dell’elemento fiduciario idonea ad integrare la giusta causa di
licenziamento e, quindi, a cagionare l’applicazione della massima sanzione
espulsiva.

4.3. La Corte provvederà, altresì, alla liquidazione
delle spese relative al giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli
altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la
causa alla Corte d’Appello di Milano, in diversa composizione, anche in ordine
alle spese relative al giudizio di legittimità.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 12 maggio 2020, n. 8803
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: