Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 maggio 2020, n. 8791
Accertamento esistenza di un rapporto di lavoro subordinato o
autonomo, Infortunio, Risarcimento dei danni danni, patrimoniali e non,
Nessun intrìnseco dinamismo lesivo, Episodicità e carattere puramente amicale
della presenza del pensionato presso i locali dell’esercizio
Rileva che
con sentenza del 5 marzo – 28 aprile 2009 il giudice
del lavoro di Bologna rigettava la domanda proposta da P.S. volta ad ottenere
il risarcimento dei danni, patrimoniali e non, derivati dalla sua involontaria
ingestione di acido muriatico ovvero soda caustica presso i locali del
ristorante S. in Imola 21 maggio 2002. Con l’anzidetta pronuncia giudicante
riteneva quindi assorbita la richiesta di manleva proposta da parte convenuta
nei confronti della compagnia assicuratrice A. Subalpina S.p.a.. Avverso la
succitata sentenza interponeva gravame P. S., poi nelle more del giudizio di
secondo grado deceduto ed al quale perciò subentrava P. P.. L’impugnazione veniva
quindi respinta dalla Corte d’Appello di Bologna con sentenza n. 1031 in data
1° luglio – 15 settembre 2014, con il rigetto altresi dell’appello incidentale
proposto dalla società Ristorante S. limitatamente al capo della pronuncia che
aveva compensato le spese relative al 1° grado del giudizio. Le spese di 2°
grado venivano, invece, compensate in ragione di 1/3, con la condanna di parte
appellante al pagamento della restante quota a favore della S.r.l. Ristorante
S., mentre venivano per intero compensate nei confronti della S.p.a. A., già A.
Subalpina;
la sentenza d’appello è stata quindi impugnata
mediante ricorso per cassazione da P.P., quale erede di P.S., con un solo
articolato motivo, cui hanno resistito mediante distinti controricorsi A.
S.p.a. (già R.A.S. S.p.a., – conferitala dell’azienda di A. Subalpina) e la
S.r.l. Ristorante S.; il ricorrente P. e la società A. hanno depositato memorie
illustrative in vista dell’adunanza fissata in camera di consiglio per il 16
aprile 2019;
Considerato che
il ricorrente denuncia, ai sensi dell’articolo 360, comma 1° n. 3, c.p.c., violazione e
falsa applicazione degli articoli 2051 e 2043 c.c., sostenendo l’erroneità dell’impugnata
sentenza poiché il giudice d’appello, con una motivazione illogica e
confliggente con i fatti accertati in giudizio aveva escluso la responsabilità
aquiliana generica nonché quella da cose in custodia in capo alla convenuta
società S.. I fatti di causa, peraltro mai contestati tra le parti,
riguardavano l’accaduto del 21 maggio 2002, allorché il sig. P. S., aveva
involontariamente ingerito acido muriatico contenuto all’interno di una
bottiglia di acqua frizzante posta sopra una mensola. Siccome il predetto
veniva impiegato per alcuni lavoretti all’interno del locale, aveva chiesto al
giudice adito, previo accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro
subordinato ovvero autonomo con il ristorante S., il risarcimento dei danni
subiti per effetto dell’infortunio, oltre che ai sensi dell’articolo 2087 c.c., anche in relazione a quanto
previsto dagli articoli 2043 o 2051 c.c. La sentenza d’appello, una volta
rigettato il motivo di gravame concernente la sussistenza del rapporto di
lavoro, avrebbe dovuto argomentare in diritto anche sul 3° motivo relativo alla
responsabilità aquiliana ovvero da cose in custodia. Per contro, senza dire
nulla, in modo incomprensibile il comportamento di S. era stato giudicato
sconsiderato nonché caratterizzato da intrinseco dinamismo lesivo, perciò
escludendo ogni responsabilità in capo alla società convenuta. L’infortunato,
secondo il ricorrente, aveva impiegato la consueta cautela che si deve prestare
all’interno di un ristorante nel bere da una bottiglia di acqua frizzante.
D’altronde, non si comprendeva quale particolare prudenza avrebbe dovuto
adottare il P., mosso dalla sete. Comunque, la sentenza d’appello risultava
errata soprattutto laddove aveva affermato l’arbitrarietà del comportamento di
andare a ricercare prendere da solo 1 bottiglia di acqua frizzante. Tale
affermazione era priva di pregio, poiché l’infortunato era libero di muoversi
all’interno del locale in quanto amico dei proprietari, sicché non aveva
bisogno di autorizzazioni per prendere un bicchiere d’acqua. In realtà,
appariva evidente pure da quanto emerso in sede istruttoria che la bottiglia
d’acqua frizzante era stata una fatale insidia per il sig. P.
Nel caso di specie non vi era stato alcun intrinseco
dinamismo lesivo. Semmai il ristorante S., avendo posto all’interno del c.d.
office (locale in cui erano riposte tutte le bottiglie d’acqua) una bottiglia
di acqua frizzante riempita con acidi nocivi, aveva colposamente causato
l’incidente. Pertanto, non poteva escludersi la responsabilità di parte
convenuta, a nulla valendo le considerazioni per cui la bottiglia d’acqua era
riposta su di uno scaffale o avrebbe avuto l’etichetta con la scritta
“sapone”. Infatti, la pericolosità di un prodotto come l’acido
muriatico doveva necessariamente essere rilevabile tramite l’etichetta
industriale possa sul suo originale contenitore, come imposto la legge.
Inoltre, l’etichetta scritta a mano, nella specie piccola e illeggibile, non
avrebbe potuto evitare l’incidente, poiché era stata la stessa bottiglia posta
nella stanza in cui vi erano situate altre bottiglie d’acqua minerale, ad aver
ingannato il malcapitato, il quale pertanto era stato indotto in errore
dall’insidia e trabocchetto. Nel caso in esame, infatti, era indubbio che la
bottiglia contenente acido, ma posta vicino ad altre bottiglie di acqua
minerale, costituiva di per sé un’insidia.
La motivazione della sentenza d’appello risultava,
altresì, erronea per violazione e falsa applicazione dell’articolo 2051 c.c. anche nel punto in cui,
confermando la pronuncia di primo grado, non aveva ravvisato della condotta
della società S. elementi di colpa. Infatti, il collegio giudicante aveva
arbitrariamente disapplicato criteri consolidati in tema di danno da cose in
custodia, che prevedono l’imputabilità della responsabilità ex articolo 2051 c.c. al di là della colpa del
custode, trattandosi di responsabilità oggettiva, che presuppone non la colpa
del custode, ma la mera esistenza di un nesso causale tra la cosa e il danno,
come da citata giurisprudenza. Nel caso in esame la Corte d’Appello aveva
dunque erroneamente valutato i fatti di causa escludendo la responsabilità del
custode, ossia della società convenuta, in effetti senza motivazione. Infatti,
la Corte territoriale avrebbe dovuto analizzare il nesso eziologico sussistente
tra l’evento danno e l’insidia causata da una bottiglia d’acqua frizzante
contenente acido;
tanto premesso, le anzidette doglianze vanno
disattese, siccome in effetti volte a ricostruire in punto di fatto la dinamica
del sinistro in modo diverso da quanto contro ritenuto, peraltro motivatamente,
dalla Corte di merito, ciò che non è consentito in sede di legittimità, tanto
più -come nel caso di specie – allorquando il ricorso per cassazione si limiti
a denunciare pretesi errori di diritto ex art. 360
n. 3 c.p.c., e non anche possibili vizi (ex art.
360 n. 5 dello stesso codice di rito), derivanti da omesso esame di
circostanze fattuali decisive, né carenze motivazionali rilevanti (ex art. 360 n. 4 c.p.c.) ai sensi degli artt. 111
Cost., 132
n. 4 c.p.c.e 118 disp. att. del medesimo codice; invero, la
Corte di merito con la pronuncia de qua ha, preliminarmente, respinto le
censure mosse dall’appellante principale circa la pretesa omessa pronuncia,
ovvero l’asserita carenza di motivazione della sentenza gravata, laddove la
stessa rispondeva, in modo stringato e per argomenti prevalenti, al complesso
delle alternative prospettazioni di parte ricorrente, in conformità alle
previsioni di cui agli articoli 112 e 132 c.p.c. nonché 118
delle relative disposizioni di attuazione. Gli spezzoni di deposizioni
testimoniali e le sintesi di verbalizzazione delle stesse, su cui fondava le
proprie ragioni l’appellante per sostenere un diverso quadro probatorio
rispetto a quello valorizzato dal primo giudicante (peraltro con sostanziale
acquiescenza alla esclusa sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra
l’attore e la società convenuta), non sortivano l’effetto sperato. Le
deposizioni rese dai quattro testi escussi erano state univoche e concordanti
nell’escludere l’instaurazione di un rapporto di lavoro, ovvero la committenza
di specifici incarichi da parte del ristorante S. nei confronti del P., del
quale era dunque riprovata l’assoluta episodicità e occasionalità ed il
carattere puramente amicale e per diporto della presenza del pensionato presso
i locali dell’esercizio e del suo interessamento, talora, a piccole
manutenzioni. Tali circostanze di netta discontinuità e discrezionalità non
consentivano di ritenere integrata neppure una forma di collaborazione
parasubordinata ovvero autonoma in via di fatto nei rapporti tra le parti in
difetto di prova di un qualsivoglia coordinamento dei saltuari
“lavoretti” o “servizi”prestati con l’attività aziendale.
Solo ad abundantiam occorreva richiamare gli argomenti svolti per escludere
comunque la ricorrenza nel caso in esame degli estremi di imputazione della
responsabilità ex articolo 7
del decreto legislativo n. 626/1994;
pertanto, ad avviso della Corte bolognese,
muovendosi discrezionalmente nei locali del ristorante, quale amico e
conoscente dei titolari nonché del personale e occasionale loro commensale, il
P. non era creditore di informative sui pericoli connessi ad un ambiente di
lavoro a cui era estraneo, essendo bensì tenuto alla normale prudenza e cautela
che fa carico ad ogni consociato in ogni aspetto del vivere civile. Del tutto
arbitrario era stato, dunque, il suo comportamento di andare a ricercare e a
prendere da solo una bottiglia di acqua frizzante, posizionata non ad immediata
portata di mano (in quanto si trovava su di uno scaffale posto in alto sopra la
lavabicchieri e non era confusa con altre bottiglie azzurre di acqua
frizzante), sita in un locale di servizio, che non era la cucina o il magazzino
vivande: donde la irrilevanza dell’accessibilità dei locali e la circostanza di
cui al 3° motivo di appello (con il quale era stata censurato il preteso
equivoco incorso nel ritenere che la bottiglia contenente sapone per
lavastoviglie, del tipo destinato all’acqua minerale di colore blu con
etichettato il predetto contenuto, posta su mensola sovrastante la macchina la
bicchieri- si trovasse in locale di servizio diverso da quello dove il
personale del ristorante consumava i pasti e con esso il P. – cfr. pagg. 2 e 4
della sentenza d’appello). Nella descritta dinamica dell’incidente,
verificatosi mediante l’ingestione di acido nonostante la particolare
collocazione della bottiglia contenente la specifica indicazione sulla stessa
del contenuto, stava la sufficienza della motivazione della sentenza di 1°
grado, che aveva escluso la responsabilità aquiliana generica e quella da
custodia di cose, in difetto di colpa ravvisabile nei gestori del ristorante e
di intrinseco dinamismo lesivo insorto nella cosa -atteso che la lesività era
integralmente riconducibile alla condotta sconsiderata del P.
vanno, altresì, richiamate le argomentazioni poste a
fondamento della sentenza di primo grado, condivise, ancorché per relationem,
dai giudici di appello, riportate peraltro alle pagine 12, 13 e 14 dello stesso
ricorso per cassazione, laddove tra l’altro è stato precisato che il giorno
dell’infortunio il P. si trovava nel ristorante soltanto perché era venuto a
salutare uno dei soci e che in ogni caso non gli era permesso di accedere ai
locali di servizio.
Inoltre, era stata accertata l’esistenza sulla
bottiglia in argomento della etichetta che ne indicava chiaramente il contenuto
e che si trovava in un locale di servizio ove era collocata la lavastoviglie,
sicché la causa dell’infortunio andava individuata nell’incauto comportamento
del ricorrente, che senza alcuna autorizzazione, si era recato in un locale al
quale non poteva accedere, bevendo quindi il contenuto di una bottiglia già
aperta, che si trovava nei pressi di una lavastoviglie, senza neppure leggere l’etichetta.
Non era, quindi, ravvisabile alcuna responsabilità della convenuta, né ai sensi
dell’art. 2051 c.c., atteso che l’infortunio
non era stato causato dalla cosa in custodia, ma dall’incauto uso che ne aveva
fatto l’attore, né ai sensi dell’art. 2043 c.c.,
poiché nessun comportamento colposo o impudente poteva muoversi alla convenuta;
pertanto, alla luce delle anzidette motivate
ricostruzioni, in punto di fatto, relative all’incidente di cui è processo,
conformemente operate dagli aditi giudici di merito, insindacabili in questa
sede, non si ravvisano errori di diritto in ordine all’applicazione degli artt. 2043 e 2051 c.c.,
di cui non venivano ravvisati gli estremi per poter addebitare alla parte
convenuta la responsabilità del sinistro e quindi delle sue dannose
conseguenze, visto in particolare che queste ultime sono state ricollegate
esclusivamente al comportamento, giudicato incauto, tenuto dall’infortunato,
piuttosto che alla condotta nell’occorso osservata dalla società S. nella
conservazione in un luogo appartato (situato vicino alla macchina lavabicchieri
o lavastoviglie) della bottiglia, già aperta e contenente il liquido nocivo
ingerito dal P., nonché recante un’etichetta che ne differenziava comunque il
contenuto rispetto all’acqua minerale contenuta in analoghe bottiglie, però
allocate separatamente. In altri termini, i giudici di merito nel caso in esame
hanno escluso non solo qualsiasi rapporto contrattuale tra le parti, tale da
imporre rigorose cautele e specifiche misure di sicurezza o particolari presidi
antiinfortunistici a carico della società, ma anche un nesso di diretta
causalità materiale tra la condotta (di tipo massimamente omissivo) mantenuta
dalla convenuta ed il comportamento dell’infortunato, sostanzialmente per
contro considerato imprudente, imprevedibile ed anomalo, se non addirittura
abnorme, per un ospite, occasionale, del pubblico esercizio, che vi si
avventuri nei locali alla ricerca di una bottiglia d’acqua minerale,
incautamente bevendone il contenuto, senza avvedersi della sua vera sostanza,
nonostante pure l’apposita indicazione esistente sulla stessa (invero, come
chiarito da Cass. III civ. n. 21244 del 29/09/2006, in tema di responsabilità
da custodia, facendo eccezione alla regola generale di cui al combinato
disposto degli artt. 2043 e 2697 cod. civ., l’art.
2051 cod. civ. determina un’ipotesi caratterizzata da un criterio di
inversione dell’onere della prova, ponendo a carico del custode la possibilità
di liberarsi della presunzione di responsabilità a suo carico mediante la prova
liberatoria del fortuito, risultando a tale stregua agevolata la posizione del
danneggiato, rimanendo sul custode il rischio del fatto ignoto. Cfr. in senso
analogo anche Cass. n. 3651 del 20/02/2006 circa l’onere probatorio a carico
del danneggiato che domanda il risarcimento del pregiudizio sofferto in
conseguenza dell’omessa o insufficiente manutenzione delle strade o di sue
pertinenze, secondo le regole generali in tema di responsabilità civile,
dimostrando che il pregiudizio subito sia derivano dalla cosa, in relazione
alle circostanze del caso concreto. Tale prova consiste nella dimostrazione del
verificarsi dell’evento dannoso e del suo rapporto di causalità con la cosa in
custodia, e può essere data anche con presunzioni, non essendo il danneggiato
viceversa tenuto a dare la prova anche della presenza di un’insidia o di un
trabocchetto -estranei alla responsabilità ex art.
2051 cod. civ.- o dell’insussistenza di impulsi causali autonomi ed
estranei alla sfera di controllo propria del custode o della condotta omissiva
o commissiva del medesimo. Facendo eccezione alla regola generale di cui al
combinato disposto degli art. 2043 e 2697 cod. civ., l’art.
2051 cod. civ. determina infatti un’ipotesi caratterizzata da un criterio
di inversione dell’onere della prova, ponendo a carico del custode la
possibilità di liberarsi dalla responsabilità presunta a suo carico mediante la
prova liberatoria del fortuito, dando cioè, in ragione dei poteri che la
particolare relazione con la cosa gli attribuisce, la dimostrazione che il
danno si è verificato in modo non prevedibile né superabile con lo sforzo
diligente adeguato alle concrete circostanze del caso. È allora sul piano del
fortuito, quale esimente di responsabilità, che possono assumere rilievo anche
i caratteri dell'”estensione” e dell'”uso diretto della
cosa” da parte della collettività che, estranei alla “struttura”
della fattispecie e pertanto non configurabili come presupposti di applicazione
della disciplina ex art. 2051 cod. civ.,
possono valere ad escludere la presunzione di responsabilità ivi prevista ove
il custode dimostri che l’evento dannoso presenta i caratteri
dell’imprevedibilità e della inevitabilità non superabili con l’adeguata
diligenza, come pure l’evitabilità del danno solamente con l’impiego di mezzi
straordinari.
V. ancora Cass. III civ. n. 8229 del 7/4/2010,
secondo cui la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia
prevista dall’art. 2051 cod. civ. prescinde
dall’accertamento del carattere colposo dell’attività o del comportamento del
custode e ha natura oggettiva, necessitando, per la sua configurabilità, del
mero rapporto eziologico tra cosa ed evento; tale responsabilità prescinde,
altresì, dall’accertamento della pericolosità della cosa stessa e sussiste in
relazione a tutti i danni da essa cagionati, essendo esclusa solo dal caso fortuito,
che può essere rappresentato -con effetto liberatorio totale o parziale- anche
dal fatto del danneggiato, avente un’efficacia causale tale da interrompere del
tutto il nesso eziologico tra la cosa e l’evento dannoso o da affiancarsi come
ulteriore contributo utile nella produzione del danno. In senso conforme Cass.
n. 28811 del 5/12/2008.
D’altro canto, Cass. III
civ. n. 9754 del 10/5/2005 ha pure chiarito che l’accertamento del nesso
causale tra il fatto illecito e l’evento dannoso rientra tra i compiti del
giudice del merito ed è sottratto al sindacato di legittimità della S.C., la
quale, nei limiti dell’art. 360 n. 5 cod. proc.
civ., è legittimata al solo controllo sull’idoneità delle ragioni addotte
dal giudice del merito a fondamento della propria decisione. In applicazione
del suindicato principio, con riferimento a ricorso avverso il rigetto di
domanda di risarcimento dei danni sul presupposto che, nel mentre la
danneggiata si trovava nei locali di un grande magazzino e si apprestava
all’acquisto di un rossetto, era caduta a causa di un gradino <<nascosto
dalla continuità dello “stand”>>, procurandosi gravi lesioni, è
stata quindi confermata la sentenza del giudice di merito, considerata
adeguatamente motivata, sia sotto il profilo della responsabilità per custodia
“ex” art. 2051 cod. civ., in ordine
alla quale aveva ravvisato l’evento in questione sostanzialmente attribuibile
alla scarsa attenzione prestata dalla danneggiata, sia avuto riguardo all’art. 2043 cod. civ., essendo dall’istruttoria
espletata in prime cure emerso il difetto di prova in ordine ad un
comportamento colposo del grande magazzino, non risultando dimostrata la
mancata adeguata segnalazione del gradino, e, quindi, la sussistenza del
dedotto “trabocchetto”.
Cfr., altresì, per un caso in qualche modo simile a
quello di cui si discute in questo procedimento la sentenza di Cass. III civ.
n. 16718 del sette maggio – 17 luglio 2009, che confermava il rigetto
dell’azionata pretesa risarcitoria, relativa a lesioni personali subite nella
discoteca gestita da parte convenuta, dove parte attrice, mentre si stava
sedendo su un divano, aveva urtato con il gomito destro un bicchiere vuoto sul
tavolo, che si era rotto, provocandole la sezione del nervo ulnare. Il giudice
di primo grado, pur riconoscendo che la convenuta era custode anche dei
bicchieri sui tavoli nel suo locale, escludeva però la pericolosità dell’oggetto
in sé, perché la penombra determinata dal tipo di illuminazione avrebbe dovuto
rendere la parte rimasta lesa più attenta, e perciò la sua disattenzione
escludeva la responsabilità del custode. La Corte d’Appello rigettava il
gravame dell’attore, poiché in base alle acclarate circostanze di fatto il
custode risultava esente da responsabilità sia a norma dell’art. 2051 c.c., che dell’art. 2043 c.c., dovendosi peraltro escludere
l’insidia della cosa in custodia o un pericolo occulto per la non visibilità o
non prevedibilità del bicchiere collocato su un ripiano in un locale pubblico
notturno, sicché la presenza di esso era stata mera occasione dell’evento
determinato da un fattore esterno fortuito. I motivi addotti a sostegno del
ricorso venivano, quinc” giudicati infondati. Infatti, ribadito che lo
stesso comportamento della vittima, se eccezionale ed imprevedibile, può
integrare il c.d. fortuito incidentale, idoneo ad interrompere il collegamento
causale tra la cosa in custodia ed il danno, con la conseguenza di escludere la
responsabilità del custode ai sensi dell’art. 2051
c.c., e che il giudizio sull’autonoma idoneità causale di tale fattore
esterno alla cosa va rapportato alla natura di essa ed alla sua pericolosità,
nel senso che tanto meno essa è intrinsecamente pericolosa e quanto più la
situazione di possibile pericolo è suscettibile di essere prevista e superata
attraverso l’adozione delle normali cautele da parte dello stesso danneggiato,
tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento
imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno (Cass. 584/2001,
2563/2007), i giudici di appello avevano applicato tali principi alla
fattispecie. Inoltre, i giudici di appello, in base alle testimonianze rese
proprio dagli amici dell’infortunato, avevano accertato che costui,
malaccortamente, aveva allargato il braccio nell’atto del sedersi in modo non
solo da attingere il bicchiere posto sul tavolino adiacente al divano, ma con
forza tale da frantumarlo contro il muro posto dietro di esso, ed in modo
talmente repentino da non poter evitare che il vetro gli recidesse il nervo
ulnare e pertanto, con motivazione immune da vizi logici, avevano ritenuto
questo comportamento anomalo, imprevedibile e tale da relegare a rango di mera
occasione la circostanza che il cameriere non avesse tolto il bicchiere dal
tavolino prima che l’attore si sedesse sul divano che lo fiancheggiava.
V. ancora, più recentemente, Cass. IlI civ. n. 2480
in data 1/2/2018, secondo cui in tema di responsabilità civile per danni da
cose in custodia, la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la
cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale
sull’evento dannoso, in applicazione – anche ufficiosa – dell’art. 1227, comma 1, c.c., richiedendo una
valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela,
riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost., sicché, quanto più la situazione di
possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso
l’adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e
prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi
l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo
causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa
il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo
stesso comportamento costituisca un’evenienza ragionevole o accettabile secondo
un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per
l’esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro. Conforme Cass.
Sez. 6 – 3, ordinanza n. 9315 del 3/4/2019, ed in senso analogo v. altresì
Cass. Sez. 3, sentenza n. 15761 del 29/7/2016, secondo cui sulla responsabilità
dell’ente proprietario di una strada aperta al pubblico può influire la condotta
della vittima, la quale, però, assume efficacia causale esclusiva ove sia
qualificabile come abnorme, cioè estranea al novero delle possibilità fattuali
congruamente prevedibili in relazione al contesto, potendo, in caso contrario,
rilevare ai fini del concorso causale ai sensi dell’art.
1227 c.c.. Parimenti, secondo Cass. III civ. n. 25837 del 31/10/2017, la
condotta della vittima del danno causato da una cosa in custodia costituisce
“caso fortuito”, idoneo ad escludere la responsabilità del custode ex
art. 2051 c.c., ove sia colposa ed
imprevedibile. V. altresì similmente Cass. Sez. 6-3, ordinanza n. 27724 del
30/10/2018: il criterio di imputazione della responsabilità di cui all’art. 2051 c.c. ha carattere oggettivo, essendo
sufficiente, per la sua configurazione, la dimostrazione da parte dell’attore
del nesso di causalità tra la cosa in custodia ed il danno, mentre sul custode
grava l’onere della prova liberatoria del caso fortuito, inteso come fattore
che, in base ai principi della regolarità o adeguatezza causale, esclude il
nesso eziologico tra cosa e danno, ed è comprensivo della condotta incauta
della vittima, che assume rilievo ai fini del concorso di responsabilità ai
sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c., e deve
essere graduata sulla base di un accertamento in ordine alla sua effettiva
incidenza causale sull’evento dannoso, che può anche essere esclusiva. Conforme
id. n. 30775 del 22/12/2017.
V. ancora Cass. n. 5254 del 10/03/2006: sia con
riguardo all’esercizio di attività pericolosa, sia in tema di danno cagionato
da cose in custodia, è indispensabile, per l’affermazione di responsabilità,
rispettivamente, dell’esercente l’attività pericolosa e del custode, che si
accerti un nesso di causalità tra l’attività o la cosa e il danno patito dal
terzo. A tal fine, deve ricorrere la duplice condizione che il fatto
costituisca un antecedente necessario dell’evento, nel senso che quest’ultimo
rientri tra le conseguenze normali ed ordinarie del fatto, e che l’antecedente
medesimo non sia poi neutralizzato, sul piano eziologico, dalla sopravvenienza
di un fatto di per sé idoneo a determinare l’evento. Pertanto, anche nell’ipotesi
in cui l’esercente dell’attività pericolosa non abbia adottato tutte le misure
idonee ad evitare il danno, realizzando quindi una situazione astrattamente
idonea a fondare una sua responsabilità, la causa efficiente sopravvenuta che
abbia i requisiti del caso fortuito – cioè la eccezionalità e l’oggettiva
imprevedibilità – e sia idonea, da sola, a causare l’evento, recide il nesso
eziologico tra quest’ultimo e l’attività pericolosa, producendo effetti
liberatori, e ciò anche quando sia attribuibile al fatto del danneggiato stesso
o di un terzo. Conforme, tra le altre, Cass. III civ. n. 8457 del 4/5/2004.
Ancora in senso analogo, v. Cass. Sez. 6 – 3,
ordinanza n. 24549 del 30/10/2013: con riguardo all’esercizio di attività
pericolosa, anche nell’ipotesi in cui l’esercente non abbia adottato tutte le
misure idonee ad evitare il danno, in tal modo realizzando una situazione
astrattamente idonea a fondare una sua responsabilità, la causa efficiente
sopravvenuta, che abbia i requisiti del caso fortuito e sia idonea -secondo
l’apprezzamento del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità in
presenza di congrua motivazione- a causare da sola l’evento, recide il nesso
eziologico tra quest’ultimo e l’attività pericolosa, producendo effetti
liberatori, e ciò anche quando sia attribuibile al fatto di un terzo o del
danneggiato stesso. Conforme Cass. III civ. n. 25
del 5/1/2010);
nei sensi di cui sopra, pertanto, il ricorso deve
essere rigettato, con conseguente condanna della parte rimasta soccombente al
rimborso delle relative spese in favore delle controparti;
visto, infine, l’esito negativo dell’impugnazione de
qua, sussistono i presupposti processuali di cui all’art. 13, co. 1 quaterd.P.R. n. 115/02.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al
pagamento delle spese, che liquida, a favore di ciascuna società
controricorrente, in euro 3000,00 (tremila/00) per compensi professionali ed in
euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e
c.p.a. come per legge, in favore della società controricorrente.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n.
115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1-bis
dello stesso articolo 13.