Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 maggio 2020, n. 8792
Contratti di lavoro a tempo determinato, Illegittimità del
termine, Impugnativa giudiziale, Decorrenza del termine decadenziale
Rileva che
la Corte di Appello di Milano con sentenza n. 452
del 13 -28 maggio 2015, nel rigettare l’interposto gravame (atto depositato il
22 luglio 2013), confermava la pronuncia, n. 230/13, emessa dal locale giudice
del lavoro, riteneva illegittimo il termine apposto al primo (dei due)
contratti di lavoro a tempo determinato, sottoscritto il 25 maggio 2010 per
l’arco temporale primo giugno 2010 / 31 maggio 2011, ai sensi del dl.vo n. 368/2001, con riferimento ad esigenze
sostitutive, relative ad altri piloti già adibiti ad aeromobili MD80, che erano
stati avviati ai corsi di pilotaggio degli aeromobili A321 e A330 (a far luogo
dai mesi di giugno, luglio e settembre 2010), di modo che era stata dichiarata
la sussistenza, tra l’attore C.M. (con qualifica di 1° ufficiale pilota) e la
convenuta A.C.A.I. S.p.a., di un rapporto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato, fin dal primo giugno 2010, ordinando alla Società di provvedere
alla riammissione in servizio del predetto nonché al pagamento in suo favore di
un’indennità risarcitoria di importo corrispondente a cinque mensilità
dell’ultima retribuzione globale di fatto;
a fondamento della decisione la Corte territoriale
ha ritenuto, essenzialmente (dopo aver disatteso in via preliminare l’eccezione
di decadenza opposta dalla società resistente con riferimento all’impugnativa
stragiudiziale del 24 febbraio 2012 ed al ricorso introduttivo del giudizio in
data 16 novembre 2012), che il termine fosse illegittimamente apposto, in
quanto dalla documentazione prodotta da parte convenuta unitamente alla dedotta
prova testimoniale non era stato dimostrato che per tutta la durata del
contratto l’attore fosse stato adibito alla guida di aeromobili in luogo dei
piloti avviati ai menzionati corsi di abilitazione per gli altri aeromobili,
però limitatamente all’anno 2010, mentre il contratto de quo aveva previsto una
durata, a tempo determinato sino a tutto maggio 2011 (<<Come emerge
dall’atto di appello i nominativi dei dipendenti indicati nel doc. 11 sono
diversi da quelli indicati nel cap. 5 – e nel doc. 5 -, vale a dire i piloti
che, nella stessa allegazione di A., C. sarebbe stato chiamato a sostituire nel
periodo di vigenza del primo contratto e per i quali, invece, i corsi non
risultano proseguiti oltre il 2010. La prova dedotta non è dunque rilevante ai
fini della decisione e, correttamente, non è stata ammessa dal primo
giudice.>>). Peraltro, dalla prodotta documentazione emergeva che dei sei
lavoratori indicati come sostituiti dal C. ben cinque ricoprivano all’epoca la
qualifica di comandante, sicché doveva escludersi che l’appellato, assunto con
la qualifica di pilota primo ufficiale, avesse sostituti gli indicati
comandanti durante la vigenza del rapporto in questione, non risultando per
altro verso allegazioni di sostituzioni a scorrimento. Inoltre, come pure da
citata giurisprudenza, nella specie risultava applicabile la disciplina della
nullità parziale ex art. 1419, comma II, c.c.,
donde l’instaurazione sin dall’origine di un rapporto di lavoro a tempo
indeterminato;
per la cassazione della succitata pronuncia
d’appello ha proposto ricorso la C.A.I. S.p.a. (già A.C.A.I. S.p.a.), come da
atto di cui alla richiesta di notificazione ricevuta dall’ufficiale giudiziario
il 27-11-2015, quindi eseguita a mezzo posta come da relata del successivo
28-11-15 (v. anche l’avviso di ricevimento, pervenuto il 3 dicembre 2015 al
domicilio eletto in Milano dai procuratori costituitisi in primo grado per
l’attore, recante altresì l’annotazione di spedita comunicazione ex art. 7 L. n. 890/82 e s.m.i.
con l’indicazione pure del numero della raccomandata spedita il 9 dicembre
2015), ricorso affidato a due motivi, cui ha resistito il sig. M.C. mediante
controricorso notificato a mezzo p.e.c. l’undici gennaio 2016;
la società ricorrente ha in seguito depositato
memoria illustrativa in vista dell’adunanza fissata per il 16 aprile 2019;
Considerato che
con il ricorso in sintesi vengono formulate le
seguenti doglianze:
1) ai sensi dell’art.
360, comma 1, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 32, comma 1, e comma 1 bis
(introdotto dall’art. 2, co. 54,
d.l. n. 225/10), 2, 3 e co. 4 L. n. 183/2010,
con riferimento al rigetto dell’eccepita decadenza dal termine dei 60 giorni
(impugnativa del 24 febbraio 2012 a fronte cessazione prevista al 31 maggio 2011);
2) violazione e falsa applicazione dell’art. 1, commi 1 e 2, del dl.vo n.
368-2001, dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115 nonché 116
c.p.c., per aver la Corte d’Appello <<imputato alla Società presunte
carenze allegatorie nonostante la medesima avesse compiutamente dimostrato fin
dalla memoria difensiva di primo grado il reale verificarsi della esigenza
organizzativo-produttiva indicata nel contratto individuale>>;
tanto premesso, le anzidette doglianze vanno
disattese in base alle seguenti ragioni; invero, quanto alla prima censura, la
Corte territoriale ha correttamente interpretato la normativa di riferimento,
applicabile nel caso di specie, secondo l’ormai consolidato orientamento
giurisprudenziale formatosi in ordine alla decadenza introdotta, per la prima
volta, dalla L. n. 183/2010 pure con
riferimento alle impugnazioni dei contratti a tempo determinato (cfr. Cass. sez. VI civ. – L n. 25103 del 14/12/2015:
l’art. 32, comma 1 bis, della I.
n. 183 del 2010, introdotto dal d.l. n. 225
del 2010, convertito con modificazioni dalla I.
n. 10 del 2011, nel prevedere “in sede di prima applicazione” il
differimento al 31 dicembre 2011 dell’entrata in vigore delle disposizioni relative
al termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento, si applica
a tutti i contratti ai quali tale regime risulta esteso e riguarda tutti gli
ambiti di novità di cui al novellato art. 6 della I. n. 604 del 1966,
sicché, con riguardo ai contratti a termine non solo in corso ma anche con
termine scaduto e per i quali la decadenza sia maturata nell’intervallo di
tempo tra il 24 novembre 2010 – data di entrata in vigore del cd. “collegato
lavoro” – e il 23 gennaio 2011 – scadenza del termine di sessanta giorni
per l’entrata in vigore della novella introduttiva del termine decadenziale –
si applica il differimento della decadenza mediante la rimessione in termini,
rispondendo alla “ratio legis” di attenuare, in chiave
costituzionalmente orientata, le conseguenze legate all’introduzione “ex
novo” del suddetto e ristretto termine di decadenza.
In senso conforme, v. in part. Cass. sez. un. civ. n. 4913 del 14/03/2016,
<<…Considerato che la ratio del differimento dell’applicabilità del
nuovo regime decadenziale risiede nell’esigenza di evitare che l’immediata
decorrenza di un termine decadenziale, prima non previsto, potesse pregiudicare
chi, intenzionato a contestare la cessazione del rapporto di lavoro o le altre
tipologie di atti datoriali indicati nell’art. 32 cit., si trovasse ad
incorrere inconsapevolmente nella decadenza, non sarebbe giustificata, a fronte
del principio di eguaglianza, una differenziazione che limitasse tale
differimento alla sola ipotesi dell’impugnativa del licenziamento ed escludesse
le altre, tra cui la contestazione della legittimità dell’apposizione del
termine al contratto di lavoro. Deve pertanto ritenersi che il legislatore
abbia inteso posticipare l’applicabilità del nuovo regime decadenziale nel suo
complesso con riferimento a tutti i termini introdotti dall’art. 32 cit.>>. V. ancora
Cass. VI civ. – L in data 20/11/2014 – 10/02/2015: <<…In definitiva e
con specifico riferimento ai contratti di lavoro a termine la disciplina
dettata nel nuovo testo della L.
n. 604 del 1966, art. 6, si applica, a decorrere dalla data di entrata in
vigore della L. n. 183 del 2010 (il 24
novembre 2010), a tutti i contratti, a quelli ancora in corso ma anche a quelli
già conclusi, stipulati sia ai sensi della L. n.
368 del 2001 che in base alle norme previgenti.
Viene disegnato un sistema omogeneo di termini di
impugnazione sia stragiudiziale che giudiziale. È introdotto ex novo un
rigoroso regime di decadenze anche per l’impugnazione della nullità del termine
apposto al contratto di lavoro. Si interviene su un sistema, da lunghissimo
tempo consolidato, fino ad allora assoggettato alla sola disciplina della
prescrizione dei diritti. È in tale quadro normativo che si inserisce il c.d.
decreto “mille proroghe”, vale a dire il D.L.
29 dicembre 2010, n. 225 convertito con modificazioni nella L. 26 febbraio 2011, n. 10. In particolare, con
il D.L. n. 225 del 2010, art. 2,
comma 54, nel testo integrato dalla Legge di
Conversione n. 10 del 2011, è stato introdotto alla L. n. 183 del 2010, art. 32 il comma 1 bis, con
il quale si dispone che “In sede di prima applicazione, le disposizioni di
cui alla L. 15 luglio 1966, n.
604, art. 6, comma 1, come modificato dal comma 1 del presente articolo,
relative al termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento,
acquistano efficacia a decorrere dal 31 dicembre 2011”. La norma, assai
poco organica rispetto al contenuto dell’art. 32 che intende differire, ha
determinato il formarsi di orientamenti di merito tra loro del tutto opposti.
Nel tentativo di ricondurre a sistema le norme che si sono succedute, questa
Corte ha ritenuto che “La L.
4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 1 bis, introdotto dal D.L. 29 dicembre 2010, n. 225, convertito dalla L. 26 febbraio 2011, n. 10, nel prevedere
“In sede di prima applicazione” il differimento al 31 dicembre 2011
dell’entrata in vigore delle disposizioni relative al termine di sessanta
giorni per l’impugnazione del licenziamento, riguarda tutti gli ambiti di
novità di cui al novellato art.
6 della L. 15 luglio 1966, n. 604, e dunque non solo l’estensione
dell’onere di impugnativa stragiudiziale ad ipotesi in precedenza non
contemplate, ma anche l’inefficacia di tale impugnativa, prevista dal comma 2
del medesimo art. 6 anche
per le ipotesi già in precedenza soggette al relativo onere, per l’omesso
deposito, nel termine di decadenza stabilito, del ricorso giudiziale o della
richiesta del tentativo di conciliazione o arbitrato.” Nel fare
riferimento alla “prima applicazione” delle “disposizioni di cui
all’art. 6, comma 1
(…)” la Corte ha evidenziato che si deve avere riguardo “all’ambito
di novità insito nelle disposizioni in parola”. La chiave di lettura da
utilizzare va rinvenuta, appunto, nelle novità introdotte con la disposizione
da prorogare.
Va osservato allora che l’art. 32 citato, nei suoi primi
quattro commi, da un canto introduce ex novo un termine di decadenza per la
proposizione dell’azione giudiziale di impugnazione dei licenziamenti prima non
previsto, dall’altro estende il regime delle decadenze ad una serie di
fattispecie che prima non ne erano interessate. Come ritenuto da questa Corte,
nelle prime pronunce che hanno applicato tale disciplina intervenute con
specifico riguardo a fattispecie di impugnazione di licenziamenti (Cfr. Cass. n. 9203/2014 e poi anche n. 15434/2014, n. 24233/2014 e n. 24232/2014), la
novità introdotta dalla norma va ravvisata nella previsione di un termine entro
il quale depositare il ricorso giudiziario o comunicare alla controparte la
richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato. Tale termine è stato
prorogato al 31.12 2011. Con riguardo a tutte le altre fattispecie per le quali
l’art. 32, ai commi 2, 3 e 4,
ha introdotto dei termini di decadenza per l’impugnazione stragiudiziale e la
proposizione dell’azione giudiziaria, il tratto di novità è costituito proprio
da tale articolato regime. Ciò premesso, per i contratti conclusi ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, i cui termini non fossero
ancora scaduti alla data di entrata in vigore del decreto “mille
proroghe” (il 26 febbraio 2011), il sistema di decadenze previsto dalla L. n. 604 del 1966, art. 6, commi
1 e 2, nel testo modificato della L. n. 183 del 2010, art. 32,
comma 1, più volte ricordata, non trova applicazione fino al 31 dicembre 2011.
Altrettanto deve ritenersi, induttivamente, per
tutti quei contratti il cui termine fosse già scaduto alla data di entrata in
vigore della proroga rispetto ai quali però la decadenza non fosse ancora
maturata. Occorre verificare se, con riguardo ai contratti già conclusi alla
data di entrata in vigore del Collegato Lavoro – stipulati anche in base alla
normativa vigente prima del D.Lgs. n. 368 del 2001-
e con riferimento a quelli i cui termini siano comunque decorsi prima
dell’entrata in vigore della L. n. 10 del 2011,
possa trovare applicazione la proroga dei termini di decadenza. Al riguardo si
osserva, ancora una volta, che la chiave di lettura da utilizzare sia il
riferimento alle novità introdotte con la disposizione da prorogare.
Si è ricordato che costituisce novità la previsione
di termini di decadenza anche per l’impugnazione dei contratti a termine. È
questa la disposizione della quale si intende differire la “prima
applicazione” con la proroga al 31.12.2011.
Ritiene allora la Corte che escludere dalla sua
applicazione i contratti a tempo determinato già conclusi alla data di entrata
in vigore della L. n. 183 del 2010
comporterebbe una irragionevole disparità di trattamento tra situazioni del
tutto omogenee. Si giustificherebbe la situazione in cui “una norma di cui
è stata differita, senza ulteriore specificazione, l’entrata in vigore,
resterebbe non di meno in vigore in alcuni casi; si verrebbe cioè, in via
ermeneutica, a determinare la contemporanea vigenza e non vigenza di una
medesima disposizione di legge, il che costituisce un risultato illogico e, al
tempo stesso, contrario alla lettera della legge stessa. ” (cfr. Cass. n. 9203/2014 cit). Al contrario deve essere
privilegiata una interpretazione delle norme che assicuri, in maniera uniforme,
una generale e contestuale applicazione dell’intero sistema di decadenze a
tutte le fattispecie alle quali si riferisce posto che il legislatore si è
evidentemente determinato a differire l’applicazione delle novità introdotte con
l’art. 32, comma 1 citato per
evitare un passaggio traumatico al nuovo rigoroso regime di decadenze (v. con
riguardo ad una diversa disciplina della decadenza la cui entrata in vigore era
stata pure prorogata Cass. n. 9038 del 2011). Una diversa interpretazione
presterebbe il fianco a rilevanti dubbi di costituzionalità.
Di recente la Corte Costituzionale nell’esaminare
sotto il profilo della violazione dell’art. 3 della
Costituzione la disposizione contenuta nella L. n. 183 del 2010, art. 32, comma
4, lett. b) (cfr. Corte Cost. n. 155 del 2014)
ha ritenuto che la previsione dell’applicazione del nuovo regime di decadenze,
previsto dal comma 1 della stessa norma, ai contratti a termine già conclusi
prima dell’entrata in vigore della L. n. 183 del
2010 e non anche a tutte le altre fattispecie elencate nella citata norma
esauritesi prima di quella data, fosse legittima e non presentasse profili di
irragionevolezza sul rilievo che le situazioni rispetto alle quali si
pretendeva di ravvisare la violazione del principio di uguaglianza non
presentavano quei caratteri di omogeneità rispetto ai quali era possibile
ritenere irragionevole un trattamento differente. Argomentando proprio da tale
decisione, allora, si deve ritenere che ove, nella prima applicazione del nuovo
testo della L. n. 183 del 2010,
art. 32, comma 1, non si ritenesse applicabile la proroga della decadenza a
tutti i contratti a termine, e dunque anche a quelli che si siano conclusi
prima dell’entrata in vigore del decreto “Mille proroghe” e per i
quali, in ipotesi, sia già decorso il termine di decadenza, si determinerebbe
una irragionevole disparità di trattamento tra situazioni tra loro identiche.
In conclusione, privilegiando una interpretazione
costituzionalmente orientata del D.L.
n. 225 del 2010, art. 1, comma 54, nel testo risultante dalle modifiche
apportate dalla legge di conversione n. 10 del
2011, la proroga al 31 dicembre 2011 dell’entrata in vigore della disciplina
delle decadenze si applica anche a tutti i contratti ai quali tale regime è
esteso…>>);
anche il secondo motivo di ricorso, formulato ex art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c. (quindi, senza nemmeno
ritualmente dedurre un eventuale omesso esame di fatti decisivi e rilevanti, ex
art. 360 n. 5 c.p.c.) va disatteso;
invero, nel caso di specie qui in esame la Corte
milanese con adeguata motivazione (di certo non meramente apparente – v. sul
punto in part. Cass. sez. un. civ. n. 22232 del 3/11/2016. Cfr. altresì Cass.
III civ. n. 11892 del 10/6/2016, secondo cui anche il cattivo esercizio del
potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito
non dà luogo ad alcun vizio denunciatale con il ricorso per cassazione, non
essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360,
comma 1, n. 5, c.p.c., né in quello del precedente n. 4, disposizione che –
per il tramite dell’art. 132, n. 4, c.p.c. – dà
rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di
legge costituzionalmente rilevante) ha ritenuto, con valutazione dunque
sottratta al controllo di legittimità, che nel caso esaminato le allegazioni di
parte appellante in ordine alla lamentata mancata ammissione della prova
testimoniale non erano idonee a dimostrare il nesso tra la causale indicata nel
contratto in questione e l’assunzione a tempo determinato dell’appellato,
argomentazione che quindi risultava assorbente di ogni altra questione ai fini
della invocata declaratoria di nullità del termine apposto al contratto. E sul
punto vanno pure ricordati i principi affermati in materia da Cass. lav. 27-04-2010 n. 10033, riguardo
all’esigenza di specifica connessione tra la durata solo temporanea della
prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia
chiamata a realizzare, nonché l’utilizzazione del lavoratore assunto
esclusivamente nell’ambito della specifica ragione indicata ed in stretto
collegamento con la stessa, per cui spetta al giudice di merito accertare – con
valutazione che, se correttamente motivata ed esente da vizi giuridici, resta
esente dal sindacato di legittimità – la sussistenza di tali presupposti,
valutando ogni elemento, ritualmente acquisito al processo, idoneo a dar
riscontro alle ragioni specificamente indicate con atto scritto ai fini
dell’assunzione a termine, ivi compresi gli accordi collettivi intervenuti fra
le parti sociali e richiamati nel contratto costitutivo del rapporto;
la Corte d’Appello ha motivato specificamente anche
sull’irrilevanza della prova testimoniale richiesta dalla convenuta parte
datoriale, osservando tra l’altro che il C. aveva sostituito i sei piloti
all’uopo nominativamente indicati dalla società, 5 dei quali avevano peraltro
la qualifica di comandante (mentre il C. era solo un primo ufficiale pilota),
laddove i sostituiti avevano frequentato un corso di riqualificazione terminato
comunque entro il 2010, mentre il C. era stato assunto (in effetti le rilevate
suddette esigenze sostitutive) ma fino a maggio 2011, donde l’insussistenza
della causale indicata nell’impugnata assunzione a tempo determinato. Non
essendo stati ritualmente dedotti vizi sussumibili nell’ambito delle previsioni
di cui all’art. 360, co. I, nn. 4 e 5 c.p.c.
(ipotesi sub. n. 5 peraltro anche preclusa ex art.
348-ter, u. co., c.p.c. da doppia conforme), non è possibile, ad ogni modo,
rimettere in discussione, in sede di legittimità, l’accertamento in punto di
fatto operato dalla Corte territoriale, laddove tra l’altro nemmeno risulta
specificamente denunciata una errata o falsa applicazione degli artt. 1 e 2 del d.l.vo n. 368/2001;
i giudici di merito, dunque, aditi si sono
motivatamente pronunciati circa la mancanza di prova del nesso di causalità tra
la ragione del ricorso al tempo determinato, indicata nel suddetto contratto, e
l’assunzione in concreto avutasi. Ne deriva che non è consentito a questa Corte
di legittimità, alla stregua delle precedenti argomentazioni, riesaminare in
punto di fatto e diversamente quanto per contro reputato sul punto in sede di
merito; pertanto, il ricorso va respinto, con conseguente condanna della parte
rimasta soccombente al rimborso delle relative spese;
infine, stante l’esito del tutto negativo
dell’impugnazione, ricorrono i presupposti di legge per il pagamento
dell’ulteriore contributo unificato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la società ricorrente
al pagamento delle spese, che liquida, a favore del controricorrente, in euro
#5000,00# (cinquemila/00) per compensi professionali ed in euro 200,00
(duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come
per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n.
115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.