Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 maggio 2020, n. 8948

Riconoscimento della natura professionale della malattia,
Condotta vessatoria tenuta nei confronti del lavoratore dal datore di lavoro,
Malattia derivante non direttamente dalle lavorazioni elencate nell’art. 1, D.P.R. n. 1124/1965,
Situazioni di cd. costrittività organizzativa

 

Rilevato

 

che la Corte di appello di Perugia, con la sentenza
n. 103/2013, in accoglimento dei gravami formulati dall’INAIL, ha respinto la
domanda di G.M. tesa ad ottenere il riconoscimento della natura professionale
della malattia di cui era affetto, poiché causata dalla condotta vessatoria
tenuta nei suoi confronti dal datore di lavoro; che a fondamento del decisum,
la Corte territoriale ha ritenuto non tutelabile nell’ambito dell’assicurazione
obbligatoria gestita dell’Inail la malattia derivante non direttamente dalle
lavorazioni elencate nell’articolo
1 del d.p.r. numero 1124/1965, bensì da situazioni di cd. costrittività
organizzativa, come il “mobbing” dedotto nel ricorso introduttivo,
richiamandosi alla sentenza del Consiglio di Stato
n. 1576 del 17 marzo 2009 la quale ha sostenuto che la malattia
professionale, per essere indennizzabile deve rientrare nell’ambito del rischio
assicurato ex artt. 3 T.U.
1124/1965, che riguarda solo le malattie professionali tabellate o non
tabellate, contratte nell’esercizio ed a causa delle lavorazioni specifiche
previste in tabella; che avverso tale decisione ha proposto ricorso per
cassazione M.G., affidato a 3 motivi;

che l’INAIL ha resistito con controricorso;

che il P.G. non ha formulato richieste scritte

che sono state depositate memorie illustrative dal
ricorrente;

 

Considerato

 

che, con il ricorso per cassazione, in sintesi, si
censura:

1) ai sensi dell’art.
360 co. 1 n. 4 cpc, la nullità della sentenza e del procedimento per
violazione e falsa applicazione dell’articolo 112
c.p.c. e del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato
anche con riferimento agli articoli 115, 416, 436 c.p.c. ed
al generale principio di non contestazione.

La Corte d’Appello di Perugia, osserva il
ricorrente, sarebbe incorsa nel vizio di ultrapetizione o extrapetizione avendo
pronunciato oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti
ovvero su questioni non formanti oggetto del giudizio, essendo incontestato tra
le parti che la cd. “costrittività organizzativa” fosse
indennizzabile ai sensi del D.P.R. n. 1124/1965,
anche se non tabellata, ed attenesse comunque, ove provata in concreto ad un
rischio specifico cosiddetto improprio tutelato dal medesimo D.P.R. Il motivo,
col quale si sostiene in sostanza che i giudici non potessero rilevare
d’ufficio l’infondatezza del diritto fatto valere con la domanda, sotto il
profilo della mancata copertura assicurativa da parte del DPR 1124/65 del rischio legato alla malattia in
oggetto, è privo di fondamento, trattandosi piuttosto di una questione
giuridica, come tale rilevabile d’ufficio e che, pertanto, prescinde dalle
contestazioni o dalle ammissioni delle controparti;

2) violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 1° e 4° comma, 3, 4, 1° comma, e 66 e 74 del d.p.r. 30 giugno 1965, n.
1124 e dell’art. 13 del decreto
legislativo 23 febbraio 2000, n. 38 anche in relazione ai principi
affermati dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Cassazione con
riferimento all’elenco (lista 2, gruppo 7, voce 01) delle malattie
professionali aggiornato, approvato con decreto
del Ministero del Lavoro 11 dicembre 2009 emanato in attuazione degli artt. 139 del d.p.r. 1124 e 10, 1° comma del decreto legislativo n.
38/2000.

Violazione dell’art. 115
c.p.c. (articolo 360 numero tre c.p.c.),
avendo la Corte errato nel disconoscere la indennizzabilità delle malattie
psicofisiche derivanti dalla costrittività organizzativa sul presupposto che
essa non attenga mai ad un rischio specifico tutelabile dal d.p.r. 1124 del 1965; tanto più che il decreto del
Ministro del lavoro dell’Il dicembre 2009 ha approvata una nuova tabella in cui
ha inserito espressamente le disfunzioni della organizzazione del lavoro, vale
a dire la cd. Costrittiva organizzativa, nella lista due; Il secondo motivo è
fondato, ritenendo questa Corte di dover confermare e consolidare
l’orientamento espresso di recente con l’ordinanza
n. 5066/2018, nella quale, giudicando un’analoga fattispecie, ha rilevato
come la tesi su cui riposa la sentenza della Corte d’Appello di Perugia non
risulti in linea con l’ordinamento vigente e con la costante e coerente
evoluzione impressa da questa Corte di legittimità, cui soltanto l’ordinamento
riserva la funzione di nomofilachia, al concetto di rischio tutelato ex art. 1 del TU, richiamato, ai
fini delle malattie professionali, dal successivo art. 3. Invero secondo il
risalente e costante orientamento giurisprudenziale di questa Corte in materia
di assicurazione sociale di cui all’art.1 del DPR 1124/1965 rileva
non soltanto il rischio specifico proprio della lavorazione, ma anche il c.d.
rischio specifico improprio; ossia non strettamente insito nell’atto materiale
della prestazione ma collegato con la prestazione stessa: come questa Corte ha
affermato in svariate occasioni (per le attività prodromiche, per le attività
di prevenzione, per gli atti di locomozione interna, le pause fisiologiche, le
attività sindacali) ai sensi dell’art. 1 TU in materia di
infortuni sul lavoro (cfr., tra le tante, Cass.
13882/16, Cass.7313/2016, Cass. 27829/2009; Cass.
10317/2006, Cass. 16417/2005, Cass.7633/2004, Cass.3765/2004, Cass. 131/1990;
Cass. 12652/1998, Cass. 10298/2000, Cass.3363/2001, Cass. 9556/2001,
Cass.1944/2002, Cass.6894/2002, Cass.5841/2002, Cass. 5354/2002). Lo stesso
orientamento è stato riaffermato da questa Corte, a proposito dell’art.3 TU e delle malattie professionali,
nella sentenza n. 3227/2011, con la quale la
protezione assicurativa è stata estesa alla malattia riconducibile
all’esposizione al fumo passivo di sigaretta subita dal lavoratore nei luoghi
di lavoro, ritenuta meritevole di tutela ancorché, certamente, non in quanto
dipendente dalla prestazione pericolosa in sé e per sé considerata (come
“rischio assicurato”), ma soltanto in quanto connessa al fatto
oggettivo dell’esecuzione di un lavoro all’interno di un determinato ambiente.

L’evoluzione in discorso si riallaccia pure a quella
registrata a livello normativo nell’ambito dell’infortunio in itinere, ai sensi
dell’art.12 del d.lgs. 38/2000,
il quale esclude in realtà qualsiasi rilevanza all’entità professionale del
rischio o alla tipologia della specifica attività lavorativa cui l’infortunato
sia addetto; apprestando tutela ad un rischio generico (quello della strada)
cui soggiace, in realtà, qualsiasi persona che lavori (Cass.7313/2016).

Ulteriore estensione dell’ambito della tutela
assicurativa è stata realizzata sulla scorta della nozione centrale di rischio
ambientale, che vale oggi a delimitare tanto oggettivamente le attività protette
dall’assicurazione (lo spazio entro il quale esse si esercitano, a prescindere
dalla diretta adibizione ad una macchina); quanto ad individuare i soggetti che
sono tutelati nell’ambito dell’attività lavorativa (tutti i soggetti che  frequentano lo stesso luogo a prescindere
dalla “manualità” della mansione ed a prescindere dal fatto che siano
addetti alla stessa macchina). Tanto in conformità al principio costantemente
affermato dalla giurisprudenza costituzionale secondo cui a parità di rischio
occorre riconoscere parità di tutela (con riferimento al rischio ambientale, Corte Cost. 4.7.74 n.206; 9.7.1977 n.114). In tal senso questa
R.G.13645/2013 Corte si è espressa a Sez. Unite con la pronuncia 3476/1994
rapportando la tutela assicurativa “al lavoro in sé e per sé considerato e
non soltanto a quello reso presso le macchine”, essendo appunto la
pericolosità data dall’ambiente di lavoro.

Ed ancora, nella stessa direzione muove, soprattutto,
la nota sentenza della Corte Cost. n. 179/1988
che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 3, comma primo, del testo
unico numero 1124 del 1965 nella parte in cui non prevede che
“l’assicurazione contro le malattie professionali nell’industria è
obbligatoria anche per le malattie diverse da quelle comprese nelle tabelle
allegate concernenti le dette malattie e da quelle causate da una lavorazione specificata”,
talché, come riconosciuto da questa Corte con sentenza n. 5577/1998,
l’assicurazione contro le malattie professionali è obbligatoria per tutte le
malattie anche diverse da quelle comprese nelle tabelle allegate al citato
testo unico e da quelle causate da una lavorazione specificata o da un agente
patogeno indicato nelle tabelle stesse, purché si tratti di malattie delle
quali sia comunque provata la causa di lavoro. Pertanto non può essere seguita
la tesi espressa dalla sentenza impugnata secondo cui sarebbe da escludere che
l’assicurazione obbligatoria copra patologie non correlate a rischi considerati
specificamente nelle apposite tabelle; posto che, al contrario, nel momento in
cui il lavoratore è stato ammesso a provare l’origine professionale di
qualsiasi malattia, sono necessariamente venuti meno anche i criteri selettivi
del rischio professionale, inteso come rischio specificamente identificato in
tabelle, norme regolamentari o di legge; non potendosi sostenere che la
tabellazione sia venuta meno solo per la malattia e sia invece sopravissuta ai
fini dell’identificazione del rischio tipico, ai sensi degli artt. 1 e 3 del TU.

Tale interpretazione è oggi confermata testualmente
dall’art. 10 comma 4 Legge 2000 n.
38 dal quale risulta che “sono considerate malattie professionali
anche quelle non comprese nelle tabelle di cui al comma 3 delle quali il
lavoratore dimostri l’origine professionale”. L’approdo, cui conduce
questo lungo excursus, porta dunque ad affermare che, nell’ambito del sistema
del TU, sono indennizzabili tutte le malattie di natura fisica o psichica la
cui origine sia riconducibile al rischio del lavoro, sia che riguardi la lavorazione,
sia che riguardi l’organizzazione del lavoro e le modalità della sua
esplicazione; dovendosi ritenere incongrua una qualsiasi distinzione in tal
senso, posto che il lavoro coinvolge la persona in tutte le sue dimensioni,
sottoponendola a rischi rilevanti sia per la sfera fisica che psichica (come
peraltro prevede oggi a fini preventivi l’art. 28, comma 1 del tu. 81/2008).

Pertanto, ed in conclusione, ogni forma di
tecnopatia che possa ritenersi conseguenza di attività lavorativa risulta
assicurata all’INAIL, anche se non è compresa tra le malattie tabellate o tra i
rischi tabellati, dovendo in tale caso il lavoratore dimostrare soltanto il
nesso di causa tra la lavorazione patogena e la malattia.

A tale ricostruzione fa altresì riscontro il
fondamento della tutela assicurativa, il quale ai sensi dell’art.38 Cost., deve essere ricercato, non tanto
nella nozione di rischio assicurato o di traslazione del rischio, ma nella
protezione del bisogno a favore del lavoratore, considerato in quanto persona;
dato che la tutela dell’art. 38 non ha per
oggetto l’eventualità che l’infortunio si verifichi, ma l’infortunio in sé; ed
è questo e non la prima l’evento generatore del bisogno tutelato, sia in
termini individuali che sociali, posto che, come riconosciuto dalla Corte Cost.
l’oggetto della tutela dell’art.38 non è il
rischio di infortuni o di malattia professionale, bensì questi eventi in quanto
incidenti sulla capacità di lavoro e collegati da un nesso causale con attività
tipicamente valutata dalla legge come meritevole di tutela” (sentenza n.100 del 2.3.1991).

In tale ottica, pertanto, non può neppure sostenersi
che il premio assicurativo INAIL abbia la funzione di delimitare la tutela
assicurativa a rischi precisamente individuati in base alle tabelle; assolvendo
invece la precipua funzione di provvedere al finanziamento del sistema, in
conformità ai requisiti costitutivi della tutela nei termini fin qui
ricostruiti: “il distacco dell’assicurazione obbligatoria contro gli
infortuni sul lavoro dal concetto statistico-assicurativo di rischio, al quale
era originariamente legata (distacco che può considerarsi compiuto con la
sentenza di questa Corte numero 179 del 1988) è
sollecitata da un’interpretazione dell’articolo 38, secondo comma, coordinata
con l’articolo 32 della costituzione allo scopo
di garantire con la massima efficacia la tutela fisica e sanitaria dei
lavoratori” (ancora Corte Cost. n.100/1991).

3) l’omesso esame circa un fatto decisivo per il
giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, comma 1, n.5 c.p.c.) in quanto la Corte
d’Appello aveva del tutto omesso di esaminare il fatto per cui il signor M.
aveva subito sin da 2005 una sottrazione di compiti da parte del presidente
della cooperativa, che lo costringeva ad un’attività forzata, emesso nel
giudizio di primo grado.

Il motivo, riguardante questioni di fatto
logicamente subordinate rispetto alla questione concernente l’indennizzabilità
della malattia in discorso, deve ritenersi assorbito;

Che, sulla scorta delle precedenti considerazioni il
secondo motivo di ricorso va quindi accolto; mentre va rigettato il primo
motivo e dichiarato assorbito il terzo;

che la sentenza va quindi cassata in relazione al
motivo accolto, con rinvio della causa per un nuovo esame al giudice designato
in dispositivo, il quale si atterrà ai principi sopra formulati in materia di
tutela della malattia professionale discendente dall’organizzazione del lavoro;
e provvederà alla statuizione sulle spese anche di questa fase del giudizio.

Che in considerazione dell’esito del ricorso non
sussistono i presupposti stabiliti dalla legge per il raddoppio del contributo
unificato a carico del ricorrente.

 

P.Q.M.

 

accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta il
primo, dichiara assorbito il terzo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al
motivo accolto e rinvia anche per le spese del giudizio di legittimità alla
Corte di Appello di Perugia, in diversa composizione.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 maggio 2020, n. 8948
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