Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 maggio 2020, n. 8889

Mancata corretta ricezione della direttiva
comunitaria 75/129/CE, Distinzione tra licenziamento operato dal datore di
lavoro organizzato in forma di impresa e quello operato da datore di lavoro non
imprenditore, Procedura del licenziamento collettivo, Diritto risarcitorio,
Responsabilità contrattuale per violazione di un obbligo ex lege,
Risarcimento, pur avente natura di credito di valore, non subordinato alla
sussistenza del dolo o della colpa

 

Rilevato che

 

Con ricorso notificato via PEC il 20 febbraio 2018
G.L. ricorre per la cassazione della sentenza resa dalla Corte d’appello di
Roma il 25 luglio 2017 che, riformando in parte sentenza di 1° grado che aveva
ritenuto prescritto il diritto di risarcimento preteso, ha respinto nel merito
la domanda volta ad accertare la responsabilità Stato per mancata corretta
ricezione della direttiva comunitaria 75/129/CE,
concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia
di licenziamenti collettivi, secondo il principio indicato dalla Corte di
Giustizia, che nel caso C-32/02 – concernente l’accertamento della infrazione
dello Stato italiano – aveva già statuito che la legge
italiana numero 223 del 1991 conteneva una distinzione inaccettabile tra
licenziamento operato dal datore di lavoro organizzato in forma di impresa e
quello operato da un datore di lavoro non imprenditore. Nella specie la Corte
di merito riteneva non allegato e provato il danno dedotto.

La vicenda di riferisce all’esito di un pregresso
giudizio svoltosi innanzi al Giudice del lavoro, ove il ricorrente aveva visto
reiteratamente respinta, fino al giudizio di legittimità, l’impugnativa del
licenziamento operato nei suoi confronti in data 27 dicembre 1997 dalla
Confederazione Nazionale Coltivatori Diretti (Coldiretti), che lo aveva
coinvolto unitamente ad altri 24 dipendenti a causa di un’asserita, ma in tesi
indimostrata, ristrutturazione aziendale; in quell’occasione egli aveva
sostenuto che dovesse essere applicata la procedura del licenziamento
collettivo, secondo quanto indicato dalla direttiva
europea 75/129/CE, allora non recepita dall’ordinamento italiano. La sua
domanda era stata respinta sull’assunto che la normativa sul licenziamento
collettivo non potesse riguardare una società senza scopo di lucro, come
Coldiretti, nonostante fosse già intervenuta la pronuncia della Corte di
Giustizia che impedisce di operare tale distinzione.

Pertanto, esaurito ogni grado di giudizio, nel 2007
aveva avviato una controversia innanzi al Tribunale di Roma affinché venisse
affermata la responsabilità dello Stato conseguente alla non corretta
trasposizione della direttiva in questione, o comunque la non diretta
applicazione della normativa comunitaria in parola. Nel giudizio di Io grado il
Tribunale aveva ritenuto prescritto il diritto risarcitorio. Nel giudizio di 2°
grado, avviato nel 2012, la Corte d’appello di Roma, dopo aver riformato la
sentenza in punto di prescrizione del diritto, nel merito rigettava la domanda
risarcitoria in quanto non riteneva allegati, ancor prima che provati, gli
elementi idonei a ritenere, anche presuntivamente, che la corretta
trasposizione della direttiva avrebbe impedito in concreto il licenziamento e
determinato la definitiva reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore,
che aveva chiesto un danno equivalente al mancato guadagno e alla mancata ricezione
dei benefici accessori collegati alla cassa integrazione.

Il ricorrente affida il ricorso a tre motivi; la
Presidenza del Consiglio resistente non si è costituita, ma in una nota
depositata ha chiesto che sia fissata pubblica udienza.

 

Considerato che

 

1. Preliminarmente deve osservarsi che non
sussistono le ragioni per determinare la traslatio iudicii alla pubblica
udienza, essendo la materia della responsabilità dello Stato per mancata
attuazione delle direttive sufficientemente inquadrata dalla giurisprudenza di
questa Corte, non presentando la questione de qua il carattere di novità o di
particolarità dedotto dalla Presidenza del Consiglio.

2. Con il 1° motivo si deduce l’omessa
considerazione degli elementi probatori prodotti dal ricorrente ex articolo 360 numero 4 e numero 5 c.p.c., in
sostanza deducendo che la Corte avrebbe omesso di considerare tutte le
allegazioni svolte in sede di appello, attestanti che la deduzione di danno
concerneva il mancato avvio delle procedure di consultazione preventive idonee
a evitare o ridurre gli effetti del licenziamento collettivo, e comunque a
operare una effettiva comparazione della propria posizione rispetto a quella
degli altri lavoratori coinvolti nel licenziamento, posso che la legge 223 del 91 prevede che il personale
eccedente debba essere individuato per categorie omogenee, in base
all’applicazione di criteri oggettivi.

2.1. Il motivo è inammissibile in quanto non coglie
la ratio decidendi, e dunque non integra il requisito di specificità di cui
all’articolo 366 numero 4 c.p.c.. La Corte
d’appello, pur considerando violata la normativa europea di settore, per come
interpretata dalla Corte di giustizia nel procedimento C-32/02 , e fondata la
prospettazione di una responsabilità contrattuale dello Stato per mancata
corretta trasposizione di una direttiva europea non self -executing, ha
tuttavia ritenuto che sia mancata non solo la prova del danno causalmente
riferibile alla condotta inadempiente, ma anche un’idonea allegazione del danno
patrimoniale, indicato dal ricorrente in termini di mancato guadagno (lucro
cessante) conseguente all’intimato licenziamento, quantificato nella misura di
€ 471 896,46 – per retribuzioni non percepite, rivalutazione, interessi e
differenze pensionistiche- , oltre a € 250.000 per danno non patrimoniale
(pagina 4 sentenza).

2.2. In generale, ove lo Stato non adempia agli
obblighi di agire o di mettere in esecuzione la normativa europea, ledendo le
posizioni soggettive altrui nel frattempo maturate, questa Corte ha già
statuito che si versa in materia di responsabilità contrattuale per violazione
di un obbligo ex lege. E, difatti, quanto al rapporto tra Stato inadempiente e
cittadino europeo, secondo Cass. Sez. U, Sentenza n. 9147 del 17/04/2009, in
caso di omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel
termine prescritto delle direttive comunitarie, conformemente ai principi più
volte affermati dalla Corte di Giustizia della UE, il diritto degli interessati
al risarcimento dei danni va sempre ricondotto – anche a prescindere
dall’esistenza di uno specifico intervento legislativo accompagnato da una
previsione risarcitoria – «allo schema della responsabilità per inadempimento
dell’obbligazione “ex lege” dello Stato, di natura indennitaria per
attività non antigiuridica, dovendosi ritenere che la condotta dello Stato
inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica
nell’ordinamento comunitario, ma non anche alla stregua dell’ordinamento
interno». Ne consegue che il relativo risarcimento, pur avendo natura di
credito di valore, non è subordinato alla sussistenza del dolo o della colpa e
deve essere determinato, con i mezzi offerti dall’ordinamento interno, in modo
da assicurare al danneggiato un’idonea compensazione della perdita subita in
ragione del danno oggettivamente apprezzabile, restando assoggettata, la
pretesa risarcitoria ( in quanto diretta all’adempimento di una obbligazione “ex
lege” riconducibile all’area della responsabilità contrattuale),
all’ordinario termine decennale di prescrizione.

2.3. Da tale autorevole precedente delle Sezioni
Unite si arguisce che la pretesa risarcitoria, sul piano dell’ordinamento
interno, trae titolo dall’inadempimento statuale di un obbligo di recepimento
di una direttiva o di esecuzione di regolamenti esecutivi secondari, e si pone
in termini di violazione di una obbligazione prevista ex lege ex art. 1173 cod. civ., soggetta alle regole di
risarcibilità del danno inteso come conseguenza diretta dell’obbligazione
rimasta inadempiuta, ai sensi dell’art. 1223 cod.
civ. (v. Cass. sez. 3, n. 16321/2018 del 7 marzo 2018; Cass. Sez. 3 –
Sentenza n. 19384 del 30/09/2016; Cass. Sez. 3. N. 16321/2018, in materia di
direttiva non autoapplicativa).

2.4. Trattandosi di responsabilità assimilabile a
quella “contrattuale”, per inadempimento dell’obbligo statuale di
trasporre una direttiva europea, la Corte di merito ha quindi esaminato il
profilo della prova del danno direttamente riferibile all’inadempimento dello
Stato, e non propriamente quello inerente alla valutazione della condotta dello
Stato che è stata accertata come inadempiente dalla stessa Corte di Giustizia
nel precedente sopra richiamato. Quindi la ratio decidendi non attiene tanto
alla valutazione dell’inadempimento dello Stato al riguardo, quanto alla
mancata dimostrazione del nesso causale tra il danno allegato e la condotta
inadempiente dello Stato, posto che in tale caso occorre considerare più il
lato del contenuto della pretesa risarcitoria conseguente all’inadempimento
statuale che quello della violazione pura e semplice di un diritto.

2.5. Sul punto, la denuncia di mancata considerazione
delle questioni affrontate innanzi al Giudice del lavoro e di quelle trattate
nel giudizio di primo grado con riguardo alle posizioni di vantaggio derivanti
dall’applicazione di un procedimento di licenziamento collettivo regolato dalla
direttiva, non coglie nel segno, poiché il Giudice di merito ha valutato la
fattispecie dalla giusta prospettiva giuridica, ritenendo che il danno si
profilava in termini di perdita di chances, e pertanto, avrebbe richiesto
l’assolvimento di un preciso onere probatorio da parte dell’attore, seppur in
modo presuntivo e sulla base di un calcolo delle probabilità, circa la reale
possibilità che il lavoratore avrebbe avuto di conseguire i vantaggi derivanti
dall’assoggettamento a un procedimento ” selettivo” e gradato di licenziamento
collettivo, o addirittura di non essere ricompreso nel novero dei soggetti da
licenziare, per la posizione acquisita all’interno dell’impresa a confronto di
altri lavoratori.

2.6. La Corte di merito, pertanto, ha correttamente
richiamato il precedente reso da Cass. Sez. L,
nella sentenza n. 495 del 14/01/2016, nella sentenza n. 495/2016 , ove ha
ritenuto che il lavoratore che lamenti la violazione, da parte del datore di
lavoro, dell’obbligo di osservare la “par condicio” fra gli aspiranti
alla promozione e chieda il risarcimento dei danni derivanti dalla perdita di
“chance” deve fornire gli elementi atti a dimostrare, seppure in modo
presuntivo, e sulla base di un calcolo delle probabilità, la possibilità che
egli avrebbe avuto di conseguire la promozione, che non può derivare dal
calcolo matematico tra numero dei concorrenti e funzioni da assegnare, dovendo
essere comparati titoli e requisiti posseduti dai candidati. (Nella specie, la
S.C. ha confermato la sentenza di rigetto della domanda risarcitoria per
perdita di “chance” di un docente, al quale era stata negata
l’assegnazione della “funzione obiettivo” di cui all’art. 28 del c.c.n.I. comparto scuola
del 26 maggio 1999, che a detto fine prevede la valutazione comparativa
delle esperienze professionali e culturali e la frequenza di corsi di
formazione, non avendo il ricorrente allegato elementi, neppure di carattere
presuntivo, idonei ad avvalorare l’ipotesi di sua prevalenza sugli altri
concorrenti).

2.7. Considerando quindi che la allegazione dei
danni non si rapportava a tale diversa prospettiva, ma a un calcolo in termini
di certa perdita del lavoro imputabile all’amministrazione inadempiente, ha
ritenuto, quindi, che nella fattispecie << non sono stati allegati, prima
ancora che provati, elementi idonei a ritenere, anche presuntivamente, che la
corretta trasposizione della direttiva avrebbe impedito in concreto il
licenziamento e determinato la definitiva reintegrazione nel posto di lavoro
del lavoratore;»>.

2.8. Sul tema, rileva sottolineare che il margine di
valutazione del danno – conseguenza nel campo delle procedure selettive che
riguardano i licenziamenti collettivi è ancora più ristretto di quello considerato
nel precedente richiamato dalla Corte di merito, riguardanti le mancate
promozioni dei lavoratori dipendenti. Infatti, in materia di licenziamento
collettivo per riduzione di personale, la I. n. 223
del 1991, nel prevedere agli artt.
4 e 5 la puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del
provvedimento datoriale di messa in mobilità, ha introdotto un significativo
elemento innovativo consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale,
esercitato “ex post” nel precedente assetto ordinamentale, ad un
controllo dell’iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento
dell’impresa, devoluto “ex ante” alle organizzazioni sindacali,
destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione, secondo una
metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda. Sicché, i
residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non
riguardano più gli specifici motivi della riduzione del personale, ma la
correttezza procedurale dell’operazione (ivi compresa la sussistenza
dell’imprescindibile nesso causale tra progettato ridimensionamento e singoli
provvedimenti di recesso), con la conseguenza che non possono trovare ingresso
in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare
specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5, né fornire la
prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni
sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra
i lavoratori, si finisce per investire l’autorità giudiziaria di un’indagine
sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione
dell’attività produttiva, affidate alla contrattazione tra le parti sociali
coinvolte e rappresentative dei due poli di interesse coinvolti (Cass. Sez. L –
, Ordinanza n. 30550 del 26/11/2018; Sez. L,
Sentenza n. 5089 del 03/03/2009).

2.9. Pertanto, nella censura, non si coglie una
specifica critica al ragionamento svolto dalla Corte, in linea con il
precedente sopra richiamato, che invece avrebbe dovuto indurre il ricorrente a
meglio specificare, non solo nell’appello, ma anche in sede di ricorso per
cassazione, la questione collegata alla allegazione e prova di tali specifici
danni, prospettabili in termini di perdita di chances, anziché insistere sul
fatto che i danni siano equivalenti all’intero mancato guadagno o a un impalpabile
danno non patrimoniale, come se si trattasse di un illecito extracontrattuale (
il che non è , come sopra visto).

3. Con il secondo motivo si denuncia l’omessa
motivazione su di un punto decisivo della causa ex art.
360 n. 5 cod. proc. civ. deducendo che, in punto di assolvimento dell’onere
di prova, non si è considerato che l’appellante ha offerto ampia prova
documentale e chiesto l’ammissione di un certo numero di testi su quesiti
specifici.

3.1. Il motivo è inammissibile, in quanto si rivela
del tutto aspecifico laddove non indica in quali termini le prove costituende,
dedotte e non ammesse, di cui non viene neanche riportato il contenuto dei
capitoli di prova, si dimostrino, in ipotesi, utili a provare che i dipendenti
coinvolti nel licenziamento, o anche quelli non coinvolti, avessero un
inquadramento lavorativo uguale o inferiore a quello del ricorrente, e che
pertanto un licenziamento (collettivo) svolto secondo le regole avrebbe
determinato un esito diverso nei confronti del ricorrente cui è stato intimato
il licenziamento; nel motivo non appare neanche indicato il danno
specificamente riferito ai benefici di cui il lavoratore avrebbe potuto
usufruire in caso di licenziamento collettivo operato in conformità alla legge
allora vigente, erroneamente ritenuta non applicabile al caso in questione.
Quanto alle prove documentali (costituite), il ricorrente fa riferimento alla
mancata considerazione di documenti, non contestati, che attesterebbero che
all’epoca erano impiegati 25 dipendenti all’interno dell’impresa: tutto ciò
però sarebbe, in tesi, comprovato dalla produzione di un elenco telefonico
della società di cui non si indica la specifica idoneità a provare i fatti
oggetto di causa.

3.2. Tali carenze in termini di deduzione probatoria
non sono superabili in base all’invocato principio di non contestazione delle
allegazioni o dei fatti oggetto di prova. Anche in questo caso la deduzione del
motivo è generica, perché non indica il fatto specifico su cui è mancata una contestazione
di parte, valevole ex art. 115 cod. proc. civ..
In virtù del principio di autosufficienza, il principio di non contestazione
non può valere con riferimento a fatti allegati genericamente: il principio di
non contestazione, con conseguente “relevatio” dell’avversario
dall’onere probatorio, postula infatti che la parte che lo invoca abbia per
prima ottemperato all’onere processuale a suo carico di compiere una puntuale
allegazione dei fatti di causa, in merito ai quali l’altra parte è tenuta a
prendere posizione ( Cass. Sez. 3 – , Sentenza n. 20637 del 13/10/2016; Cass.
Sez. 3 – , Sentenza n. 21075 del 19/10/2016; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 15961
del 18/07/2007). Difatti, il ricorso per cassazione con cui si deduca l’erronea
applicazione del principio di non contestazione non può prescindere dalla
trascrizione degli atti sulla cui base il giudice di merito ha ritenuto
integrata o non la non contestazione che il ricorrente pretende di negare,
atteso che l’onere di specifica contestazione, ad opera della parte costituita,
presuppone, a monte, un’allegazione altrettanto puntuale a carico della parte
onerata della prova ( Sez. 3 – , Sentenza n. 20637 del 13/10/2016).

3.3. In ogni caso, l’onere di contestazione concerne
le sole allegazioni assertive della controparte e non anche il contenuto dei
capitoli della prova testimoniale, posto che da questi ultimi è possibile
trarre elementi di prova solo in quanto siano stati ammessi e confermati dal
teste (Sez. 3 -, Ordinanza n. 16908 del 27/06/2018; Cass. Sez. 3, Sentenza n.
12748 del 21/06/2016). Conseguentemente, in mancanza di una puntuale
specificazione delle circostanze poste a supporto del motivo di censura, deve
ritenersi che il Giudice di merito, nel ritenere le allegazioni e le prove
dedotte non solo generiche, ma anche non idonee a provare i fatti di rilievo ai
fini dell’affermazione della sussistenza di un danno risarcibile derivante
dall’inadempimento dello Stato, abbia operato correttamente la sua valutazione
discrezionale, prevalentemente insindacabile in quanto guidata dal suo libero
convincimento.

4. Con il terzo motivo si denuncia violazione o
falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360
n. 3 cod. proc. civ. in tema di responsabilità dello Stato per mancato
recepimento della direttiva europea, con richiamo alle pronunce in tema di
responsabilità dello Stato.

4.1. Il motivo è in parte assorbito da quanto detto
al punto 2 in tema di responsabilità dello Stato, la cui sussistenza in
astratto non viene in messa in discussione dal giudice del merito, essendo lo
Stato italiano risultato sotto più profili inadempiente all’obbligo di corretto
recepimento e di applicazione della normativa europea in parola.

Difatti, non è qui in discussione che nel caso in
cui, a motivo dell’assenza di misure nazionali di trasposizione della
direttiva, il risultato prescritto da quest’ultimo non sia raggiunto per via
interpretativa, prendendo in considerazione il diritto interno nella sua
globalità e applicando i metodi di interpretazione da questo riconosciuti, il
diritto dell’Unione impone allo Stato membro di risarcire i danni che esso
abbia causato ai singoli in ragione della mancata trasposizione o corretta
interpretazione della direttiva europea. Nell’ambito di ripartizione delle
competenze tra Unione europea e Stati membri, spetta infatti al giudice
nazionale verificare se l’insieme delle condizioni enunciate in proposito dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia sia soddisfatto affinché, in forza del
diritto dell’Unione, sorga la responsabilità di tale Stato membro in
riferimento al caso concreto.

4.2. I principi dettati dalla Corte di Giustizia nel
caso “Frankovich” C- 6/90 e C-9/90, ove ha affermato la
responsabilità dello Stato per la violazione di diritti soggettivi determinati
dal mancato adeguamento della normativa interna, non vengono messi in crisi da
quanto affermato dalla Corte di merito in tema di mancata allegazione del danno
effettivamente subito, e dalla stessa considerazione che la tutela approntata,
in tali casi di infrazione degli obblighi comunitari da parte dello Stato, deve
essere effettiva. Nel caso Frankovich (C- 6/90 e C-9/90) si è affermato che
qualora uno Stato membro violi l’obbligo, ad esso incombente in forza dell’art. 189, terzo comma, del Trattato
(allora vigente), di prendere tutti i provvedimenti necessari a conseguire il
risultato prescritto da una direttiva, la piena efficacia di questa norma di
diritto comunitario esige che sia riconosciuto un diritto al risarcimento ove
ricorrano tre condizioni. La prima di queste condizioni è che il risultato
prescritto dalla direttiva implichi l’attribuzione di diritti a favore dei
singoli. La seconda condizione è che il contenuto di tali diritti possa essere
individuato sulla base delle disposizioni della direttiva. Infine, la terza
condizione è l’esistenza di un nesso di causalità tra la violazione dell’
obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi. Tali condizioni
sono sufficienti per far sorgere a vantaggio dei singoli un diritto ad ottenere
un risarcimento, che trova direttamente il suo fondamento nel diritto
comunitario.

4.3. Di questa stregua, nel caso specifico, per
quanto riguarda la disparità di trattamento rispetto ad altri lavoratori che si
sarebbe determinata, trattandosi di mancato recepimento di principi comunitari
che devono tradursi in norme che regolano i rapporti tra privati, in via
orizzontale, l’infrazione verificatasi non toglie che la sussistenza delle
circostanze che danno luogo all’indennizzo da parte dello Stato deve essere
allegata e provata, posto che non è detto che dalla violazione a monte, da
parte dello Stato, dell’obbligo di tradurre in norme positive le direttive
europee, e di applicarle secondo la giurisprudenza resa dalla Corte di
Giustizia, sia derivata una effettiva lesione della posizione soggettiva del
lavoratore licenziato in assenza di apertura della procedura di licenziamento
collettivo. Non è contraria ai suddetti principi, pertanto, l’affermazione del
giudice del merito che, pur riconoscendo che il diritto all’indennizzo avrebbe
potuto ricavarsi anche in via presuntiva, e che vi erano le condizioni per
procedere a un indennizzo, ha ritenuto che le allegazioni offerte non fossero
comunque idonee a provare il danno in concreto subito dal lavoratore, in
relazione alla posizione soggettiva acquisita all’interno dell’impresa, da
confrontarsi con quella di altri lavoratori non toccati dal licenziamento.

4.4. Oltretutto, il motivo che tende a colpire la
valutazione in termini di mancata allegazione e prova, operata dal Giudice del
merito, come sopra visto al punto 2, si è dimostrato del tutto aspecifico sul
punto.

5. Conseguentemente, il ricorso va rigettato; sotto
il profilo delle spese giudiziali, data la particolarità della materia,
inerente all’accertata sussistenza di una infrazione statuale in grado di
incidere su diritti di rilievo costituzionale, sussistono gravi motivi per
compensare le spese tra le parti (per un’interpretazione costituzionalmente
orientata della norma di cui all’art. 92, co. 2,
cod. proc. civ, cfr. Corte Cost. n.77/2018,
che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma, del codice di procedura civile,
nel testo modificato dall’art.
13, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con
modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, n.
162, nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le
spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre
analoghe gravi ed eccezionali ragioni)

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; compensa le spese tra le parti.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 del d.P.R. n. 115 del
2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte
del ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari
a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1- bis, dello stesso articolo 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 maggio 2020, n. 8889
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