Le dichiarazioni pubbliche di un avvocato che affermi di non voler assumere mai, nel proprio studio, personale omosessuale concretano una discriminazione in materia di accesso all’occupazione e al lavoro. In tal caso, un’associazione di avvocati, avente lo scopo di difendere in giudizio persone discriminate in ragione dell’orientamento sessuale e di promuovere il rispetto dei diritti di tale categoria di persone, è legittimata all’azione diretta ad inibire la discriminazione suddetta, anche attraverso la richiesta di risarcimento danno.
Nota a CGUE, Grande Camera, 23 aprile 2020, C-507/18
Francesca Albiniano
Due gli importanti principi sanciti dalla Corte di Giustizia UE (23 aprile 2020, C-507/18) relativamente alla vicenda di un avvocato che aveva dichiarato, nel corso di un’intervista radiofonica, di non voler assumere e di non volersi avvalere della collaborazione, nel proprio studio legale, di persone omosessuali. Su tale base, il Tribunale di Bergamo aveva (con ordinanza) condannato il professionista a versare € 10.000 a titolo di risarcimento del danno all’Associazione di avvocati (ricorrente) che difende in giudizio i diritti delle persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender o intersessuate (LGBTI) ed aveva ordinato la pubblicazione di tale ordinanza per estratto su un quotidiano nazionale. La Corte di appello di Bergamo aveva poi respinto il ricorso dell’avvocato contro la suddetta ordinanza. Egli presentava pertanto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione rappresentando, in particolare, l’erronea applicazione dell’art. 5 del D.LGS. n. 216/2003, “avendo il giudice d’appello riconosciuto la legittimazione ad agire dell’Associazione, nonché una violazione o un’erronea applicazione dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), e dell’articolo 3 del citato decreto legislativo, determinata dal fatto che egli avrebbe espresso un’opinione concernente la professione di avvocato non presentandosi in veste di datore di lavoro, bensì come semplice cittadino, e che le dichiarazioni in questione erano avulse da qualsiasi ambito professionale effettivo”; e negando la legittimazione ad agire in giudizio all’Associazione di avvocati specializzati nella tutela giudiziale di una categoria di soggetti a differente orientamento sessuale, la quale nello statuto dichiari il fine di promuovere la cultura e il rispetto dei diritti della categoria e si ponga automaticamente come portatrice di un interesse collettivo e associazione di tendenza non profit, legittimata ad agire in giudizio, anche con una domanda risarcitoria, in presenza di fatti ritenuti discriminatori per la suddetta categoria.
1) Con riguardo al primo principio, (cioè se la nozione di “condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro” contenuta nell’art. 3, par. 1, lett. a), della Direttiva 2000/78 vada interpretata nel senso che “in essa rientrano le dichiarazioni rese da una persona nel corso di una trasmissione audiovisiva secondo le quali tale persona mai assumerebbe o vorrebbe avvalersi, nella propria impresa, della collaborazione di persone di un determinato orientamento sessuale, e ciò sebbene non fosse in corso o programmata una procedura di selezione di personale”), la Corte rileva che:
– la Direttiva 2000/78 concretizza il principio generale di non discriminazione sancito anche dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (v., in tal senso, sentenza 17 aprile 2018, C-414/16, punto 47), nel cui ambito rientra la lotta alle discriminazioni fondate, segnatamente, sull’orientamento sessuale per quanto concerne “l’occupazione e le condizioni di lavoro”, come emerge, in particolare dal considerando 11 (v., in tal senso, CGUE 15 gennaio 2019, C-258/17, punto 40);
– la nozione di “condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro” contenuta all’art. 3, paragrafo 1, lett. a), della Direttiva 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, va perciò interpretata nel senso che “in essa rientrano delle dichiarazioni rese da una persona nel corso di una trasmissione audiovisiva secondo le quali tale persona mai assumerebbe o vorrebbe avvalersi, nella propria impresa, della collaborazione di persone di un determinato orientamento sessuale, e ciò sebbene non fosse in corso o programmata una procedura di selezione di personale, purché il collegamento tra dette dichiarazioni e le condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro in seno a tale impresa non sia ipotetico”;
– tuttavia, affinché dichiarazioni suggerenti l’esistenza di una politica di assunzioni omofoba siano considerate discriminatorie è necessario che esse “possano essere effettivamente ricondotte alla politica di assunzioni di un determinato datore di lavoro, il che impone che il collegamento che esse presentano con le condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro presso tale datore di lavoro non sia ipotetico. L’esistenza di tale collegamento deve essere valutata dal giudice nazionale adito nell’ambito di una valutazione globale delle circostanze caratterizzanti le dichiarazioni in questione”;
– assumono perciò rilievo: a) la natura e il contenuto delle dichiarazioni in questione (che devono riferirsi alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro presso il datore di lavoro de quo e dimostrare la sua intenzione di discriminare sulla base di uno dei criteri previsti dalla Direttiva 2000/78); b) il contesto in cui le dichiarazioni in questione sono state effettuate (in particolare il loro carattere pubblico o privato, o “il fatto che esse siano state oggetto di diffusione tra il pubblico, tramite i media tradizionali oppure tramite social network”; c) e, soprattutto, l’autore della dichiarazione discriminatoria nonché la veste nella quale egli si è espresso. Ciò, al fine di dimostrare che si tratta di un potenziale datore di lavoro, oppure che egli è (di fatto o in diritto) in grado di esercitare un’influenza determinante sulla politica di assunzioni (con l’effetto, ad es., di dissuadere le persone oggetto della dichiarazione dal candidarsi ad un posto di lavoro), o su una decisione di assunzione di un potenziale datore di lavoro, “oppure che egli è, quantomeno, suscettibile di essere percepito dal pubblico o dagli ambienti interessati come capace di esercitare un’influenza siffatta, e ciò quand’anche detto autore delle dichiarazioni non disponga della capacità giuridica di definire la politica di assunzioni del datore di lavoro in questione od anche di vincolare o di rappresentare tale datore di lavoro in materia di assunzioni”.
2) La Corte ha anche affrontato la questione se in base alla Direttiva 2000/78 sia possibile che un’associazione di avvocati – che per statuto difenda in giudizio le persone aventi un determinato orientamento sessuale e promuova la cultura e il rispetto dei diritti di tale categoria di persone – sia, in ragione di tale finalità ed indipendentemente dall’eventuale scopo di lucro dell’associazione stessa, automaticamente legittimata ad avviare un procedimento giurisdizionale volto a far rispettare gli obblighi risultanti dalla Direttiva in questione ed eventualmente ad ottenere il risarcimento del danno, nel caso in cui si verifichino fatti idonei a costituire una discriminazione nei confronti della citata categoria di persone e non sia identificabile una persona lesa.
Al riguardo, i giudici si sono espressi in senso positivo (art. 9, paragr. 2, Direttiva 2000/78; v. anche sentenza 25 aprile 2013, C-81/12, punto 37), alla condizione che lo Stato membro stabilisca “se lo scopo di lucro o meno dell’associazione debba avere un’influenza sulla valutazione della legittimazione dell’associazione stessa ad agire in tal senso”, e precisi “la portata di tale azione, in particolare le sanzioni irrogabili all’esito di quest’ultima, tenendo presente che tali sanzioni devono, a norma dell’articolo 17 della direttiva 2000/78, essere effettive, proporzionate e dissuasive anche quando non vi sia alcuna persona lesa identificabile” (v., in questo senso, sentenza 25 aprile 2013, C-81/12, cit., punti 62 e 63).