Il lavoratore affetto da patologia grave ha il diritto di prestare la propria opera in modalità di lavoro agile ed il datore di lavoro non può imporre, in maniera indiscriminata e penalizzante, il ricorso a ferie non maturate.
Trib. Grosseto, sez. lav., ord. 23 aprile 2020, n. 502
Maria Novella Bettini
Il rifiuto di ammettere un lavoratore disabile al lavoro agile e la correlata prospettazione della necessaria scelta fra la sospensione non retribuita del rapporto e il godimento forzato di ferie non ancora maturate sono illegittimi.
È quanto afferma il Tribunale di Grosseto (sez. lav., ord., 23 aprile 2020, n. 502) relativamente al ricorso di un lavoratore, invalido civile, al quale l’azienda aveva negato la possibilità di svolgere la prestazione in modalità agile, prospettando, invece, “il ricorso alle ferie anticipate, da computarsi su un monte ferie non ancora maturato in alternativa alla sospensione non retribuita del rapporto fino alla cessazione della lamentata incompatibilità” (grave patologia polmonare con riduzione permanente della capacità lavorativa al 60%, con riduzione anche della capacità di deambulazione).
I giudici hanno riscontrato che:
a) era incontestato che tutti i colleghi del ricorrente erano stati già messi nelle condizioni di svolgere il lavoro impiegatizio presso il domicilio;
b) i motivi addotti erano “fragili” laddove l’azienda aveva sostenuto che il temporaneo stato morbile del dipendente (“in malattia”) imponeva di non adibirlo ad alcuna attività lavorativa, affermando che: 1) il certificato si limitava ad indicare l’allontanamento dal posto di lavoro in quanto “a causa delle patologie croniche polmonari preesistenti, il lavoratore non poteva essere sottoposto a rischi aggiuntivi di contrarre l’infezione da Covid-19, che notoriamente grava proprio sull’apparato respiratorio”; 2) per posto di lavoro, cui faceva riferimento il certificato, non poteva che intendersi il luogo ove abitualmente il lavoratore presta l’attività lavorativa, vale a dire “la sede operativa dell’azienda in Grosseto, non certo il domicilio, non essendo rilevabile alcun nesso diretto tra la patologia e l’attività lavorativa in sé, sebbene svolta in ambiente domestico e, come tale, protetto”;
c) il datore di lavoro aveva adottato lo smart working (L. n. 81/2017, art. 18) per tutti i colleghi di reparto del ricorrente e, per giustificare il mancato assenso del disabile allo svolgimento del lavoro agile aveva indicato ragioni organizzative “non apprezzabili”. L’azienda cioè si era giustificata, affermando di aver già proceduto alla scelta dei soggetti da collocare in smart working nel periodo in cui il ricorrente si trovava in malattia ed era perciò impossibilitata a modificare l’organigramma del personale cui era consentito di lavorare in remoto, salvo affrontare “costi significativi in termini economici ed organizzativi”.
Il Tribunale precisa che la normativa emergenziale Covid-19 (di cui al D.L. n. 18/2020 ed al D.L. n. 34/2020, nonché DPCM 10 aprile 2020 e 17 maggio 2020) mira a coniugare la salvaguardia dell’attività lavorativa con le esigenze di tutela della salute e di contenimento della diffusione dell’epidemia. In quest’ottica, il ricorso al lavoro agile costituisce una priorità e, anche se non può essere imposto in via generale e indiscriminata, è “reiteratamente e fortemente” raccomandato ed addirittura considerato modalità ordinaria di svolgimento della prestazione nella PA.
In particolare, il DPCM 10 aprile 2020, raccomanda “in ogni caso ai datori di lavoro pubblici e privati di promuovere la fruizione dei periodi di congedo ordinario e di ferie, fermo restando quanto previsto dalla lettera precedente e dall’art. 2, co. 2 (art.1, lett. hh)).
La lettera precedente (gg)) dispone che: “fermo restando quanto previsto dall’art. 87 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, per i datori di lavoro pubblici, la modalità di lavoro agile disciplinata dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, può essere applicata dai datori di lavoro privati a ogni rapporto di lavoro subordinato, nel rispetto dei principi dettati dalle menzionate disposizioni, anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti; gli obblighi di informativa di cui all’art. 22 della legge 22 maggio 2017, n. 81, sono assolti in via telematica anche ricorrendo alla documentazione resa disponibile sul sito dell’Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro”.
Tutto ciò, secondo i giudici, equivale a dire che quando “il datore di lavoro sia nelle condizioni di applicare il lavoro agile, e (come nel caso in esame), ne abbia dato prova, il ricorso alle ferie non può essere indiscriminato, ingiustificato o penalizzante, soprattutto laddove vi siano titoli di priorità per ragioni di salute”.
La sentenza sottolinea che resta “impregiudicata ogni riserva di valutazione nel merito connessa al legittimo esercizio del potere di iniziativa imprenditoriale costituzionalmente garantito. Non è tuttavia sottratta al riscontro giudiziale la specifica verifica se il datore di lavoro, nel far ricorso al lavoro agile, abbia ingiustificatamente penalizzato il singolo lavoratore o pretermesso diritti garantiti ex lege”.
Nello specifico, il lavoratore aderendo all’invito datoriale dettato dall’emergenza Covid-19 aveva usufruito sia delle ferie maturate nell’anno precedente che di quelle in corso e l’azienda lo aveva indotto a godere anche di quelle “non ancora maturate, a valere, quindi sul monte futuro”. Il che è contrario ai principi generali sulla fruizione delle ferie (maturate) che vanno a compensare annualmente il lavoro svolto consentendo il recupero delle energie psico-fisiche e la cura delle relazioni affettive e sociali e, dunque, maturano in proporzione alla durata della prestazione.
La concessione delle ferie, quindi, non può essere subordinata “nella sua esistenza e ricorrenza annuale alle esigenze aziendali”, se non nei limiti dell’art. 36 Cost. e dell’art. 2109 c.c.