Qualora il lavoratore rivendichi il diritto alla promozione automatica, il giudice deve verificare che le attività concretamente svolte corrispondano a quelle proprie del livello di inquadramento preteso con riferimento alle declaratorie fissate dal contratto collettivo.
Nota a Cass. 7 maggio 2020, n. 8619
Stefano Stinziani
Nel caso di adibizione a mansioni superiori, il dipendente ha diritto “al trattamento corrispondente all’attività svolta” e l’assegnazione diviene definitiva decorso il periodo fissato dai contratti collettivi, o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi. Ciò a condizione che l’assegnazione stessa “non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio” (art. 2103, co. 7 c.c.).
L’adibizione ad attività maggiormente qualificanti non esige il consenso del lavoratore se è temporanea, cioè giustificata dall’esigenza di sostituire un prestatore con diritto alla conservazione del posto (malattia, maternità, ferie, sostituzione c.d. “a cascata”), mentre la sua definitività, ossia la promozione, deve essere sempre accettata dal lavoratore, dal momento che potrebbe non aver interesse ad un mutamento di mansioni.
Il periodo di sei mesi, o quello previsto dalle parti sociali, necessario per la promozione automatica alla qualifica superiore deve essere di lavoro pieno, effettivo e continuativo (dal computo sono esclusi i giorni di malattia e di ferie ma non quelli di riposo settimanale).
Tuttavia, nel caso di ripetute assegnazioni per un tempo insufficiente a far scattare l’adibizione definitiva, il prestatore matura comunque il diritto alla promozione se prova che il comportamento del datore di lavoro concretizza un tentativo di elusione fraudolenta del beneficio previsto dall’art. 2103 c.c.
Ai fini dell’accertamento del diritto alla promozione, il giudice, mediante un procedimento sussuntivo, deve verificare che i compiti diversi e maggiormente qualificanti svolti dal lavoratore, su cui grava l’onere della prova, siano riconducibili alle mansioni proprie della qualifica invocata con riguardo alla classificazione del personale operata dal contratto collettivo applicato in azienda.
Questi, i principi sottesi alla pronuncia della Corte di Cassazione 7 maggio 2020, n. 8619, in riforma della sentenza di merito (App. Venezia n. 131/2015) che aveva riconosciuto il diritto di un lavoratore (impiegato nel settore del credito in qualità di assistente alla clientela), al superiore inquadramento per aver svolto, nell’ambito del credito su pegno, funzioni di perito estimatore di beni (di valore non superiore a 2000 Euro) e custodia degli stessi.
In merito, la Corte ha precisato che, in ragione della qualifica posseduta, al lavoratore erano affidate mansioni caratterizzate da “contributi professionali operativi e/o specialistici”, con “applicazione intellettuale eccedente la semplice diligenza di esecuzione”, potendo egli adottare decisioni “nell’ambito di una delimitata autonomia funzionale” e nel rispetto di “direttive superiori, prescrizioni normative e/o procedure definite dall’impresa” (art. 87, ccnl settore credito 7 dicembre 2008).
Diversamente, la qualifica rivendicata dal lavoratore prevedeva l’espletamento di mansioni di “elevata responsabilità funzionale ed elevata preparazione professionale (…) o particolare specializzazione” che consentono l’effettivo esercizio di poteri negoziali verso terzi in rappresentanza dell’impresa da espletarsi in autonomia e discrezionalità (art. 76, ccnl cit.).
Dal raffronto di dette declaratorie professionali, la Corte, nel censurare la pronuncia di merito, ha ritenuto che al lavoratore, nello svolgimento della sua attività di perito estimatore di beni e custodia degli stessi, fosse riconosciuta una limitata autonomia decisionale, propria della qualifica posseduta, mancando, ai fini del riconoscimento del diritto al superiore inquadramento, la prova dell’espletamento di mansioni caratterizzate da un alto livello di responsabilità e professionalità nonché di autonomia e discrezionalità nell’impegnare l’impresa verso terzi.