Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 26 maggio 2020, n. 9802

Malattia professionale, Esposizione all’amianto,
Risarcimento del danno patrimoniale e non, Prescrizione decennale,
Inosservanza da parte del datore di lavoro dei doveri di protezione delle
condizioni di lavoro, Azione contrattuale, decorrente dal momento in cui il
lavoratore ha acquisito la consapevolezza della malattia e della sua origine
professionale

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza n. 378 del 26 gennaio 2017, la Corte
d’appello di Venezia, Sezione Lavoro, in accoglimento dell’appello proposto da
R.F.I. S.p.A. nei confronti di P.B., T.S. e M.M., ha ritenuto l’intervenuta
prescrizione decennale del diritto, riconosciuto in primo grado, al
risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale spettante al dante causa
degli appellati, F., per effetto della malattia professionale occorsagli a
cagione del mesotelioma sviluppato per l’esposizione all’amianto nei numerosi
anni di attività svolta quale macchinista alle dipendenze delle Ferrovie dello
Stato.

In particolare, il giudice di secondo grado, nel
reputare fondate le censure della società appellante, ha ritenuto l’erronea
applicazione da parte del Tribunale dei principi attinenti all’exordium
praescriptionis, con specifico riguardo all’epoca in cui l’origine
professionale della malattia poteva ritenersi conoscibile oggettivamente da
parte del lavoratore e, quindi, degli eredi.

2. Per la cassazione della sentenza propongono
ricorso P.B., T.S.B e L.B., affidandolo a quattro motivi.

Resiste, con controricorso, R.F.I. S.p.A.

3. Entrambe le parti hanno presentato memorie.

 

Considerato in diritto

 

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce la
violazione dell’art. 2909 in relazione all’art. 2935 cod. civ. per violazione di un giudicato
parziale tra le parti che faceva decorrere l’exordium praescriptionis del
diritto vantato non prima dell’inizio degli anni ’90; con il secondo motivo di
ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2935 cod.
civ. deducendosi la violazione dei principi di allegazione e prova
dell’exordium praescriptionis; con il terzo motivo si deduce la nullità della
sentenza per “motivazione apparente” ovvero violazione dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. in ordine alla
ritenuta esistenza di fonti di consapevolezza della sussistenza del credito
asseritamente prescritto; con il quarto motivo si deduce la violazione e falsa
applicazione degli artt. 41 cod. pen. e 61 cod. proc. civ. per essere stata ritenuta la
insussistenza del nesso eziologico.

1.1. Va premessa l’infondatezza del primo motivo di
ricorso là dove deduce una violazione del giudicato parziale inerente la
decorrenza della prescrizione, accertata, nella causa connessa e trattata in
sede civile per l’ipotesi di domanda avanzata dagli eredi iure proprio, come
riconducibile a data posteriore al 1992 atteso che, contrariamente a quanto
asserito da parte ricorrente, anche nella decisione n. 378/2014 di cui si
discute, l’epoca di insorgenza risulta individuata nel medesimo lasso
temporale.

Con riguardo al terzo motivo, poi, non può parlarsi
di motivazione apparente, considerato che, per consolidata giurisprudenza di
legittimità (cfr., sul punto, Cass., n. 13977 del 23/05/2019), ricorre il vizio
di motivazione apparente della sentenza, denunziabile in cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., soltanto quando
essa, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il
fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente
inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione
del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di
integrarla con le più varie, ipotetiche, congetture.

Nel caso di specie il Collegio reputa la decisione
ampiamente motivata ed argomentata.

1.2. Relativamente alla dedotta violazione dell’art. 2697 cod. civ., va rilevato che in tema di
ricorso per cassazione, la violazione dell’art.
2697 cod. civ. c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice
abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso
avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie
basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni, (cfr., ex plurimis,
sul punto, Cass. 23/10/2018 n. 26769).

1.3. Per quanto concerne, poi, la censura relativa
al difetto di motivazione, va rilevato che, in seguito alla riformulazione
dell’art. 360, comma 1, n. 5 del cod. proc. civ.,
disposto dall’art. 54 co 1, lett.
b), del DL 22 giugno 2012 n. 83, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 2012 n. 134 che ha limitato la
impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di
motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per
il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la
conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di
legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del
requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale”
richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. ed
individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della
Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note
ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del
provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile
contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono
nella violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4),
c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del
prescritto requisito di validità ( fra le più recenti, Cass. n. 23940 del
2017).

D’altro canto, per costante giurisprudenza di
legittimità, (cfr., fra le più recenti, Cass. n.
20335 del 2017, con particolare riguardo alla duplice prospettazione del
difetto di motivazione e della violazione di legge) il vizio relativo
all’incongruità della motivazione di cui all’art.
n. 360, n. 5, cod. proc. civ., comporta un giudizio sulla ricostruzione del
fatto giuridicamente rilevante e sussiste solo quando il percorso argomentativo
adottato nella sentenza di merito presenti lacune ed incoerenze tali da
impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della
decisione, o comunque, qualora si addebiti alla ricostruzione di essere stata
effettuata in un sistema la cui incongruità emerge appunto dall’insufficiente,
contraddittoria o omessa motivazione della sentenza.

Attiene, invece, alla violazione di legge la
deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato,
della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando
necessariamente una attività interpretativa della stessa: nel caso di specie,
pur avendo la parte ricorrente fatto valere una violazione di legge, in realtà
mira ad ottenere una rivisitazione del fatto inammissibile in sede di
legittimità chiedendo una diversa valutazione delle risultanze istruttorie che
avrebbe condotto a sua detta a ritenere provato il danno subito, escluso,
invece, dal giudice di secondo grado anche in ordine alla mera allegazione di
elementi di fatto a sostegno di quanto asserito.

1.4. Passando ad esaminare il secondo motivo nella
parte in cui denunzia la violazione dell’art. 2935
cod. civ. deve escludersi, ad avviso del Collegio, sulla base della
argomentata motivazione della decisione di secondo grado che si sia verificato
un vizio di sussunzione della fattispecie nella disposizione in esame, secondo
l’interpretazione offertane dalla consolidata giurisprudenza di legittimità.

Secondo il Collegio, nel dichiarare prescritto il
diritto azionato, la Corte territoriale si è, infatti, attenuta correttamente
al principio, più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità in tema di
risarcimento del danno cagionato dall’inosservanza da parte del datore di
lavoro dei doveri di protezione delle condizioni di lavoro posti a suo carico
dall’art. 2087 cod. civ., secondo cui la
prescrizione decennale, operante nel caso in cui sia stata esercitata l’azione
contrattuale, decorre dal momento in cui il lavoratore ha potuto acquisire la
piena consapevolezza non solo della malattia, con un danno alla salute
apprezzabile, ma anche dell’origine professionale della stessa, indipendentemente
da valutazioni meramente soggettive a lui ascrivibili (cfr. Cass., Sez. lav.,
31/05/2010, n. 13284; 11/09/2007, n. 19022; 29/05/1997, n. 4774).

Sul rilevante punto dell’exordium praescriptionis,
la Corte si sofferma molto nel dar conto della congruità della motivazione di
primo grado, secondo cui, già negli anni ’60/’70, era ben nota, a livello
scientifico, la pericolosità ed anzi, dal 1970, vi era stata conferma
scientifica del nesso causale tra esposizione ad amianto – anche di bassa intensità
– e patologia tumorale.

In particolare, la Corte, richiamando quanto
osservato dal CTU in primo grado, ha sottolineato che, secondo quanto riferito
dall’esperto, già nel periodo compreso tra il 1935 e il 1972, le conoscenze
sulla pericolosità dell’amianto erano ben note in relazione all’asbestosi e al
cancro del polmone, specificando, altresì, che, con riguardo al mesotelioma,
nel 1960 si era realizzata la conoscenza generica del ruolo cancerogeno
dell’asbesto, mentre, nel 1970, si confermava il suo ruolo cancerogeno anche a
basse esposizioni.

Ha aggiunto la Corte a tali osservazioni, che
specifiche norme per il trattamento di materiali contenenti amianto erano state
introdotte per la prima volta con il D.P.R. 15/82 e che la produzione e
lavorazione dell’amianto era stata vietata dalla legge
n. 257 del 1992; d’altro canto, gli stessi ricorrenti avevano dato atto a
pag. 10 del ricorso, osserva la Corte territoriale) del fatto che la malattia
era stata “tabellata” nel 1994, talché, a quell’epoca doveva
ritenersi di dominio pubblico la conoscenza del nesso eziologico tra
esposizione lavorativa all’amianto e mesotelioma.

In quanto imperniato sull’idoneità dei predetti
elementi ad evidenziare una conoscibilità non meramente soggettiva, ma fondata
sul possesso di competenze professionali adeguate al livello raggiunto dalla
ricerca scientifica e dall’esperienza clinica in materia di danni da
esposizione all’amianto, il predetto ragionamento resiste, ad avviso del
Collegio, alle critiche mosse dalla difesa dei ricorrenti, la quale,
nell’insistere sulla necessità di ancorare la decorrenza della prescrizione
alla possibilità di ricondurre la patologia ad un evento specifico idoneo a far
sorgere il diritto al risarcimento, oscilla tra il riferimento al grado di
consapevolezza raggiungibile dalla vittima, come si è detto non rilevante, e
quello all’epoca acquisito a livello scientifico, il cui intrinseco difetto di
assolutezza non consente di escluderne la ragionevole 7 sicurezza (cfr., sul
punto, Cass. 2 ottobre 2019, n. 2486).

Osserva il Collegio che, in sede nomofilattica, è
stato precisato che, ai fini della prova della conoscibilità dell’eziologia
professionale, pur richiedendosi qualcosa in più della semplice manifestazione
della patologia, occorre pur sempre restare in un ambito di oggettività
scientifica, nel senso che la conoscibilità da un lato va intesa in senso
diverso dalla conoscenza vera e propria, dall’altro postula la possibilità che
un determinato elemento (l’origine professionale della malattia) sia
riconoscibile in base alle conoscenze scientifiche del momento, restando invece
irrilevante, pena lo sconfinamento nel campo della pura soggettività, il grado
di conoscenze e di cultura del soggetto interessato dalla malattia (cfr. Cass.,
n. 2486 del 2/10/2019, cit.; Cass., 19355 del
18/09/2007).

Secondo il Collegio ha, quindi, correttamente
ritenuto la Corte che, almeno dall’entrata in vigore della legge 27 marzo 1992, n. 257, significativamente
intitolata “Norme relative alla cessazione dell’impiego” ovvero da
quando, nel 1994 la malattia professionale è stata “tabellata”,
l’oggettiva diligenza avrebbe imposto di percepire la malattia come conseguenza
del comportamento del datore di lavoro che aveva esposto il dipendente
all’inalazione di polveri così pericolose da esserne vietata la lavorazione.

Orbene, ritiene il Collegio tale impostazione
decisoria conforme alla giurisprudenza di legittimità, (fra le più recenti, Cass. 06/02/2018, n. 2842) che da rilievo, a
seguito della sentenza della Corte Costituzionale
n. 206 del 1988 (dichiarativa della illegittimità costituzionale dell’art. 135, secondo comma, del
d.P.R. n. 1124 del 1965, nella parte in cui pone una presunzione assoluta
di verificazione della malattia professionale nel giorno in cui è presentata
all’istituto assicuratore la denuncia con il certificato medico), come
“dies a quo” per la decorrenza del termine triennale di prescrizione
dell’azione per conseguire dall’INAIL la rendita per inabilità permanente al
momento in cui l’interessato abbia avuto consapevolezza dell’esistenza della
malattia, della sua origine professionale e del suo grado indennizzabile, da
intendersi, tuttavia, in termini non strettamente soggettivi, (fra le altre,
Cass. sent. 5090/2001, 4181/2003;

Quanto, d’altronde, alla “manifestazione”
della malattia, il Collegio evidenzia che la Corte ha di frequente rilevato
(cfr., sul punto, Cass. n. 11790 del 2003, Cass. n. 8249 del 2011, Cass. n. 14281 del 2011) che essa è la forma
oggettiva che assume il fatto, nel suo essere manifesto, e che consente allo
stesso di essere conosciuto; si estrinseca, in sostanza, nell’oggettiva
possibilità che il fatto sia conosciuto dal soggetto interessato e, cioè, la
sua “conoscibilità” ; tale conoscibilità coinvolge l’esistenza della
malattia, ed i suoi caratteri di professionalità ed indennizzabilità; la
conoscibilità, quindi, deve distinguersi dalla conoscenza ed altro non è che la
possibilità che un determinato elemento (nella specie, l’origine professionale
della malattia) sia riconoscibile in base alle conoscenze scientifiche del
momento, possibilità che esclude anche che sia necessario che l’origine
professionale sia già stata conosciuta in sede giudiziaria od amministrativa.

1.4.1. Il Collegio reputa, poi, incensurabile, in
sede di legittimità in quanto oggetto di indagine fattuale l’ulteriore
passaggio motivazionale nel quale la Corte esclude che la conoscibilità
dell’esposizione all’amianto potesse configurarsi soltanto nel 2011 per la mancanza
di conoscibilità di essa nell’ambiente di lavoro; secondo il Collegio la Corte,
infatti, compie un accertamento di fatto, fondato in primo luogo sulla
circostanza che lo stesso de cuius, che svolgeva mansioni di macchinista di
elettromotrici ed eseguiva anche lavori di manutenzione, doveva sapere, in base
all’ordinaria diligenza, che i pannelli che foderavano le elettromotrici
fossero di amianto. Analoga possibilità di conoscenza ritiene il Collegio che
la Corte abbia ravvisato nella condizione degli eredi atteso che gli stessi,
secondo quanto contenuto nel ricorso introduttivo, avevano descritto
analiticamente le mansioni svolte dal loro congiunto e la sua esposizione
all’amianto come fonte del diritto risarcitorio vantato senza allegare in alcun
passaggio che tale conoscenza si fosse pervenuti soltanto nel 2011.

1.5. Quanto accertato in tema di sussistenza dei
presupposti per la prescrizione del diritto azionato esime questa Corte
dall’esame dell’ulteriore motivo di doglianza atteso che la decisione deve,
comunque, ritenersi superare il vaglio di legittimità.

2. Alla luce delle suesposte argomentazioni, il
ricorso va respinto.

2.1. Si ravvisa la ricorrenza dei presupposti
rationae temporis per la compensazione integrale delle spese relative al giudizio
di legittimità ai sensi dell’art. 92 cod. proc.
civ.

Sussistono, altresì, i presupposti processuali per
il versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo
di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma
dell’art. 1 -bis dell’articolo 13
comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Respinge il ricorso. Compensa integralmente le spese
di lite. Ai sensi dell’art. 13
comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei
presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto
per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

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